martedì 29 settembre 2020
La lingua Bio
Prendiamoci le nostre responsabilità
"Becchini moderni"...
sabato 26 settembre 2020
Al sabo, al scuro e soto le coerte..
Ci vuole misura in tutto...
Una cosa è stare attenti alla contaminazione e trasmissione di questo virus Sars cov2, un'altra è preservare, aumentare, diversificare la flora batterica che ci abita dentro il corpo e sulla pelle.
In ogni dove nel corpo, ci sia una zona, dove il corpo comunica con l'ambiente esterno, lì abita un insieme specifico di flora microbica composto da funghi, batteri, virus.
Questa variegata flora è fondamentale per lo stato di salute, e più variabilità c'è, più è assicurata la salute.
Detergere spesso la pelle, e in modo aggressivo, comporta un'alterazione della composizione del microbiota (funghi, batteri, virus) con fragilità della pelle e alterazione del sistema difensivo.
Quando manca la nostra barriera di difesa con funghi, batteri, virus in equilibrio, i funghi o batteri opportunisti (cattivi) possono svilupparsi eccessivamente.
Gonfiore, candida, problemi di pelle, peso, hanno spesso una componente che dipende dalla flora batterica interna ed esterna (microbiota).
Mantenere una varietà batterica alta è importante, è conveniente non disinfettare se non necessario e cercare di andare a contatto con molti ambienti diversi, con animali (che non trasmettono il virus), mangiare cibi diversi non sterilizzati, confezionati, morti.
Perchè l'incontro con ambienti diversi crea varietà nella flora, che crea salute.
Quindi, i batteri, virus, funghi, sono anche buoni, ne abbiamo bisogno.
Uccidere tutto, uccide anche noi.
La paura di un virus non deve fare da muro a tutto il meraviglioso mondo che ci circonda, non è tutto sporco, non è tutto da disinfettare. (fare attenzione e rispettare le regole sì, ma estendere a tutto è paranoico).
Chi disinfetta la tazzina con cui beve il caffè, il giornale preso in edicola, la borsa o i prodotti presi al supermercato? Eppure poco prima qualcuno può averli toccati.
Elettra Bisognin web
Siete mai saliti sulla montagna ad aspettare il sorgere del sole?
A un certo momento, prima che il sole esca dall’orizzonte, c’è un fremito. Non è l’aria che si è mossa, è un qualche cosa che fa fremere l’erba, che fa fremere le fronde se ci sono alberi intorno, l’aria flessa, ed è un brivido che percorre anche la tua pelle.
E per conto mio è proprio il brivido della creazione, che il sole ci porta ogni mattina.
E sentirai per esempio il canto del codirosso, poi sentirai il pettirosso, poi magari vedrai un capriolo.
Ma prima hai sentito il brivido.”
Mario Rigoni Stern
giovedì 24 settembre 2020
In vino veritas
Ecco che la storia comincia da lontano!
Mah,.. sti casotàni!
La democrazia sui social network è un'illusione
(da: la voce dei Berici di Riccardo Benotti)
«C’è un elemento nuovo che s’innesta su di un’esperienza antica. Nuovo è l’uso delle tecnologie, che permettono di raggiungere con un click un numero enorme di persone. Antico è il fatto che, proprio in quest’uso, risorgono forme comunicative ben note, come quella del comizio». È la riflessione di Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa, a proposito delle modalità attraverso le quali i social network stanno cambiando il modo di comunicare anche nella politica.
I social sono sempre di più uno strumento utilizzato per comunicare direttamente con l’elettorato. Come cambia la politica?
«Dobbiamo chiederci sia come sta cambiando la politica, sia come è
cambiato il mondo della comunicazione. Le due cose sono infatti
strettamente connesse. La politica – come modo di definire i rapporti
interumani in uno spazio comune e secondo regole condivise – ha bisogno
della comunicazione. Ne ha bisogno per acquisire, mantenere, consolidare
il consenso. Finora vi erano determinati intermediari a cui far
riferimento per raggiungere lo scopo: soprattutto i giornalisti della
carta stampata e della televisione. Costoro non solo informavano, ma
davano indicazioni su come interpretare le informazioni. Si trattava dei
cosiddetti opinionisti. Oggi sta subentrando un rapporto più diretto
tra politici ed elettori: quello reso possibile dalle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione, e in particolare dai social
network.
È la rivoluzione della disintermediazione. Sembra cioè che si possa fare
a meno di qualsiasi intermediario, e pure dei comunicatori come
professionisti dell’intermediazione comunicativa, perché il politico è
ormai in grado, attraverso un account social, di dire la sua
direttamente. In realtà questi intermediari ci sono ancora. Il Papa o il
Presidente della Repubblica non possono certo avere il tempo di
chattare o di mandare un tweet. E tuttavia l’illusione di un contatto
diretto permane».
Come leggere la violenza verbale e visiva adottata da certi politici e comunicatori?
«L’uso della violenza è indispensabile oggi per attirare l’attenzione. In un mondo in cui c’è un’overdose di comunicazione, l’unico modo per farsi notare è gridare. Da ciò nascono vari problemi. Il primo: ormai tutti urlano, e dunque il farlo non è più efficace. Meglio, a volte, un silenzio eloquente. Poi: la cultura dei social porta a una polarizzazione delle opinioni: o mi piace o non mi piace. Non c’è la possibilità di argomentare, di esprimere un giudizio sfumato. Da qui un terzo tema: la polarizzazione porta allo scontro. La violenza verbale o visiva prima o poi genera altra violenza, anche fisica».
Spesso si assiste anche a una comunicazione pubblica e privata attraverso lo stesso canale: si mostra l’attività istituzionale ma anche la cena con i figli. Perché?
«Questo è stato sempre fatto. Le fotografie casalinghe dei politici e la loro partecipazione a certi programmi televisivi sono stati un modo di annullare la loro distanza dalla gente comune. I politici sono persone come noi, che fanno la nostra stessa vita, che fanno la pennichella, che ogni tanto ballano sotto le stelle. Oggi però c’è un ulteriore elemento: c’è l’idea che questa omologazione sia un valore. Di più: che l’attività politica non abbia una sua specificità, che non richieda particolari competenze. La politica sembra non richiedere formazione, esperienza, cultura. Abbiamo giustamente eliminato l’autoritarismo. Oggi rinunciamo anche all’autorevolezza».
Perché la politica si è appropriata dei social? È soltanto perché, ad esempio, YouTube costa meno di una pubblicità sulla televisione?
«Non solo. Ma anche perché l’uso dei social consente di raggiungere direttamente masse enormi di elettori. Di più: grazie a profilazioni sempre più precise, questi elettori possono essere coinvolti offrendo loro ciò di cui essi hanno realmente bisogno, o ritengono di necessitare. Oltre a ciò, i social offrono un’illusione di democrazia. Sembra cioè che la democrazia consista solo nella possibilità d’interagire con un post di poche righe, oppure optando per un sì o per un no. Ma esprimere la propria opinione non è sufficiente. Le varie opinioni, infatti, devono essere portate a sintesi e confluire in un progetto comune: questa è democrazia. Condividere non è partecipare».
I social, che sembrava potessero essere il punto di svolta per una democrazia più partecipata, si stanno trasformando in qualcosa d’altro?
«Finiscono per essere per lo più uno sfogatoio. Si scambia la libertà di accesso a una piattaforma con la possibilità di contribuire alla costruzione del bene comune. Ci si accontenta di un’espressione costretta su binari ben precisi. Il problema è che poi le decisioni vere le prendono altri: e noi ne subiamo le conseguenze».
I negazionisti del covid
Caro direttore,
il Covid esiste, ha contagiato più di 25 milioni di persone, ha provocato quasi 1 milione di morti e non solo colpisce i polmoni, ma lascia danni collaterali anche a cuore, reni e cervello. Di fronte a queste evidenze, vi sono negazionisti che oggi rifiutano la mascherina e che domani rifiuteranno il vaccino. Fino a che punto può essere tollerata una libertà di opinione e di espressione, che rischia di mettere a rischio la salute di tutti?
Gianfranco Orta
Caro signor Orta,
I negazionisti del Covid somigliano incredibilmente a quei «terrapiattisti» che si sono lanciati nell’avventura di dimostrare le loro assurde tesi scientifiche e sono naufragati vicino a Ustica. Osservare la manifestazione dove una signora gridava a tutti che il virus è un’invenzione e un complotto per limitare le libertà delle persone è stata un’esperienza che mi ha lasciato esterrefatto. Non stiamo combattendo da mesi contro il coronavirus in tutto il mondo? Non abbiamo pianto centinaia di migliaia di morti? E non stiamo facendo i conti dei posti di lavoro persi e delle aziende che hanno chiuso o che si trovano in serie difficoltà? L’abbiamo sognato o quella mappa tremenda, con la diffusione dei contagi in ogni angolo del mondo, era solo un’illusione? Per fortuna i negazionisti sono pochi e si presentano come figure anche un po’ comiche. Mi preoccupano di più gli irresponsabili, quelli che non rispettano quel minimo di regole che servono a proteggere se stessi e gli altri. Questi sono molti di più. Li abbiamo visti in azione nelle discoteche, nelle feste e nella movida di questa estate, in una specie di «liberi tutti» molto pericoloso per la ripresa d’autunno. Oggi tutti dobbiamo fare delle scelte e decidere quali sono le cose importanti: riaprire le scuole e le università è decisivo, riprendere completamente le attività economiche è una priorità. E allora serviranno indicazioni semplici, buona organizzazione, ma anche un altissimo livello di responsabilità personale. Da parte di ognuno di noi, soprattutto di chi ha un ruolo pubblico, è conosciuto e può costituire un esempio per tutti gli altri.
martedì 22 settembre 2020
MONTANELLO [2] Giro dei Lagorai Centrali - Dal Passo Manghen alla Forcella di Val Sorda
- Lunghezza: 18 Km;
- Durata: 6h:30’;
- Dislivello in salita: 1020 m (con salita alla Cima Ziolera), 780 m altrimenti;
- Dislivello in discesa: 970 m (730 m senza Ziolera);
- Altezza massima: 2.248 (Cima Ziolera);
- Altezza minima: 1.830 m (Malga Cazzorga).
Potpourri
Ho un debole per quelle persone
che sanno di essere fortunate
che ne hanno passate
di tutti i colori
e perciò vivono colorate.
Che non hanno bisogno
di nascondere gli altri
per sentirsi giganti.
Che portano dentro
nascosto da qualche parte
un dolore che non passa mai.
Qualcosa che le ha cambiate per sempre,
ma non per questo si sentono più grandi,
ma non per questo si sentono migliori.
Ho un debole per quelle persone
che spente le luci, rimangono accese.
Che chiuso un amore, rimangono vive.
Che sciolto il trucco, rimangono vere.
Ho un debole per le persone
attente a toccare.
Che una carezza quando incontra un livido si fa ricordo.
Ho un debole per quelle persone
che hanno lottato
e in silenzio hanno vinto.
Che dal giorno in cui sono uscite
dal loro buio
soffrono di felicità ossessiva compulsiva.
Che non hanno mai rinunciato
alla loro dolcezza.
Che non si sono piegate alla rabbia
quando la rabbia era l’unico modo
per farsi ascoltare.
Ho un debole per quelle persone
che sanno che insistere
significa violentare.
Che rispettano un “no, grazie”
senza aggiungere altro.
Che dev’esserci un motivo
per entrare nella vita di una persona
e quel motivo dev’essere chiaro.
Sempre.
Che essere gentili
non vuol dire essere stupidi.
Che conoscono il peso delle parole
e non te le scagliano contro
per difendersi.
Che rispettano la solitudine.
Perché sanno che una persona
custodisce lì, tutto ciò che non si può raccontare.
Tutto ciò che non vuol essere trovato.
Ho un debole per quelle persone
che quando camminano per strada
e incrociano il tuo sguardo
per un istante sorridono.
Le adoro.
Mi mandano letteralmente
fuori di cuore.
(Andrew Faber - da “Cento secondi in una vita")
sabato 19 settembre 2020
El frutìn
Una domenica serena a tutti
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?».
Ogni volta che leggo questo brano provo sempre una sensazione di incertezza. È giusto che coloro che hanno lavorato meno ottengano quanto i primi che hanno passato l'intera giornata nei campi? La cosa suona a dir poco strana, quasi contraria a tante regole e principi in cui crediamo. Sembra che questo padrone sia poco giusto, o per lo meno distratto; sembra che non si accorga della disparità di trattamento adottata. Ma è questa la corretta prospettiva di riflessione, oppure stiamo trascurando di osservare altri aspetti, forse anche più importanti?
Pensiamo a quale gioia deve aver provato l'ultimo disoccupato chiamato a lavorare, uno di quelli delle cinque: stava perdendo ogni speranza, ed ecco che una chiamata lo salva. Potrà lavorare almeno un po', potrà tornare a casa alla sera con qualche soldo e soprattutto potrà assaporare la dignità di essere stato scelto anche lui, di essere stato operoso ed aver abbandonato l'ozio.
E il primo? Sembra non rendersi conto della fortuna che ha avuto, si perde nel confronto con gli altri e non vede ciò che è veramente importante: è stato scelto subito ed ha avuto la possibilità di lavorare nella vigna tutto il giorno, facendo parte della squadra di un uomo buono! Ricorda un po' il fratello maggiore del figliol prodigo, che non vede il bene che lo circonda.
L'arte di ascoltare
L’uomo moderno ha orrore del silenzio.
Il silenzio della mente è ormai un’espressione priva di significato.
Abbiamo dimenticato l’arte di quietare quell’alveare dalle mille api ronzanti che si annida nella nostra mente.
Sottoposta ad un incessante bombardamento di messaggi, la nostra mente è una fucina di pensieri che lavora senza turni di riposo.
Abbiamo perso la capacità di rallentare.
Un’attività mentale frenetica e dispersiva che invece di arricchire lo spirito, ci affatica, ci confonde, seppellisce il nostro vero io sotto una cortina impermeabile di pensieri, immagini, fantasie e timori.
Questo lavorio mentale ha luogo senza sosta, sicché i pensieri si sovrappongono l’uno all’altro spesso in modo conflittuale.
Ci fanno agitare per un non nulla, costruiscono pregiudizi e preconcetti.
Corrono affannosamente ad anticipare il futuro e restano amaramente attaccati al passato.
Le esperienze passate sono sempre presenti per condizionarci, anche se non ce ne rendiamo conto.
Al nostro fianco cammina il nostro passato che ci imprigiona dietro a celle prive di sbarre, ma da cui è difficile evadere.
Queste incrostazioni avvolgono l’io profondo e gli impediscono di emergere, lo soffocano, stordito dal rumore del chiacchiericcio mentale.
da: "L'Arte di Ascoltare", Plutarco.
giovedì 17 settembre 2020
MONTANELLO [1] Val dei Mòcheni-Rifugio Sette Selle-Lago d’Érdemolo
- L'itinerario A) è lungo 10 Km, si percorre in circa 4:30h con un dislivello altimetrico di 880 m.
- L'itinerario B) è lungo 5,9 Km, si percorre in circa 3:00 h con un dislivello altimetrico di 460 m, quindi alla portata anche di famiglie con bambini.
martedì 15 settembre 2020
Le crisi
Crisi di nervi-ultimo banco
di Alessandro D’Avenia
«La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, fa violenza al suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi è l’incompetenza. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Nella crisi emerge il meglio di ognuno». Il primo giorno di scuola scrivo alla lavagna le parole che vorrei illuminassero l’anno da inaugurare e costringo i miei alunni a impararle a memoria, perché ricordino le coordinate della rotta in ogni istante della navigazione. L’anno scorso avevo scelto Sant’Agostino: «Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra». Quest’anno, dato il clima poco allegro, ho scelto invece le parole di un fisico che amava studiare, ma non amava la scuola: Albert Einstein. Mi sembrano perfette per affrontare la paura che ci sta paralizzando e per trasformarla in una sfida. Le soluzioni fisiche non bastano mai, servono quelle metafisiche, perché l’epicentro dei terremoti esistenziali non è in superficie: o cambiamo visione del mondo o avremo sofferto invano. La vita si ribella a schemi e strutture che le imponiamo, soprattutto se, con il passare del tempo, questi schemi e queste strutture non sono più d’aiuto, anzi sono diventate una trappola. A scuola questo è ormai più che evidente.
Il dono che ci fanno le crisi è una rivelazione dolorosa: attraverso la ferita il tessuto della vita ci mostra come vuole essere curato e non più trascurato. Per questo c’è bisogno di mani accorte. «Crisi» è infatti un termine d’origine greca che, fin dall’Iliade, indicava il gesto di separare, nelle spighe, il grano dalla pula: il primo darà pane, il secondo paglia. Un pensiero acritico, cioè privo di crisi, pasticcia tutto: non riconosce la differenza tra la pula e il chicco, tra un banco e un ragazzo. Si parla da mesi dei banchi e del loro distanziamento, necessità risolvibili con un po’ di competenza e buon senso, invece questi discorsi hanno occupato, fino al ridicolo, tutto lo spazio che dovevamo impegnare a raccogliere il grano, che a scuola è ciò che siamo impegnati a far crescere: le vite di maestri e studenti. L’epidemia dell’incompetenza, di fatto, a scuola c’è da anni. Quattro esempi tra i tanti: dal 1999 solo tre concorsi per reclutamento (per legge dovrebbero essere triennali), l’anno scorso 150mila (quest’anno si toccheranno le 250mila) cattedre scoperte su 850mila (precari e supplenti costano meno), 15% di abbandono scolastico, insegnanti di sostegno insufficienti. Sono gli effetti di un sistema sempre in ritardo e non regolato sulle persone, ma su criteri asetticamente economici e interessi politici, avallati spesso da cittadini disinteressati. Eppure la moltitudine di regole che ci sta soffocando in queste ore segnala il centro di gravità: proteggere la vita. Quale vita abbiamo protetto in questi anni, a scuola, con la stessa determinazione con cui compriamo banchi e mascherine? Anche se riusciremo a non fare ammalare nessuno, riusciremo a far crescere qualcuno? Quanti studenti e maestri si spengono perché nessuno si occupa veramente di loro, mettendoli in condizioni di insegnare e imparare come si deve? Il malessere è prima ancora «mal essere»: se in questi anni avessimo curato chi vive la scuola con lo stesso impegno profuso per sanificarla, la scuola forse oggi sarebbe più sana. Ricordiamoci però che le regole servono a proteggere la vita, non bastano a dare la vita, che nasce e cresce con relazioni generative e qualità professionale. Una scuola ridotta a intrattenimento mattutino, contenitore asettico di vite, distributore di pillole per cervelli senza corpo e futuro, non è un vivaio di vocazioni ma di frustrazioni. «La scuola deve educare al pensiero critico»: lo avrete sentito dire sino alla nausea. Ma se «critico» non significa rendere capaci di trovare l’essenziale, la scuola educa solo al pensiero caotico e manipolabile.
Fino a nove anni Einstein anticipava sottovoce una frase prima di pronunciarla perché aveva gravi difficoltà espressive. Non parlava quasi per nulla e questo modo di essere «originale», che lo rendeva «strano» agli occhi degli insegnanti, lo portò a sviluppare un’immaginazione senza pari, il segreto delle sue scoperte: sin da bambino sognava di andare alla velocità della luce per scoprire come si vedesse il mondo. E con questo sogno, mai tradito, scoprì la relatività. Dopo la laurea si guadagnava da vivere in un noioso ufficio brevetti in cui, sbrigato il lavoro da fare, coltivava la sua vocazione alla fisica e così, a 25 anni, scrisse, proprio in quel polveroso ufficio, i quattro articoli che hanno cambiato la visione del mondo.
Potenza del nome
[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...