martedì 29 settembre 2020

La lingua Bio

Gianni Spagnolo © 20IX08
Stiàni, si sa, era tutto bio e a chilometri zero.
Lo era ovviamente l’alimentazione di uomini e bestie, ma anche quasi tutti gli altri aspetti della vita. Alcuni arrivavano ad essere anche protovegani, anche se non lo sapevano. Non certo per scelte filosofiche, figurarse! Quanto perché tutto quello che era elaborato e sofisticato costava semplicemente di più e non potevano permetterselo; incluse, per i più disperati, anche le proteine animali. Quello che invece molti non sanno, è che i nostri progenitori di “bio” avevano anche la lingua. Eh sì, ciò. Ancamassa!
Cossa galo bio? - Andélo bio stà? - A l’è bio sta oltra inti àldere...  E via bioleggiando.
Il bio ci stava quasi dappertutto, un po' come il sale e dava senso e vigore alle frasi. A volte ci andava a proposito, mentre altre un po' meno; almeno a guardare dall'ottica della lingua dotta.
Mentre: "Cossa galo bio?" (Cos’ha avuto?) aveva un senso compiuto, non altrettanto si può dire di: "Andélo bio stà?" (Dov’è avuto stato?), dove la traduzione letterale in italiano è un palese non-senso. Ma noi avevamo la lingua bio e se aveva senso per noi, la lo ghéa par tuti. 
Bio, infatti, è una strana aferesi del participio passato del verbo avere: bio – vio – vudo – avuto. Da noi, la “v” del veneto è diventata “b”, dato che abbiamo anche l’originale abitudine di ribattezzare le consonanti, come trasformare la “z” in “d”, per esempio.
Lasciamo ai fini linguisti discettare sull’origine di queste costruzioni verbali, a noi bastava essere bio. Stranamente però, al giorno d’oggi, in piena epoca “bio”, abbiamo abbandonato proprio la lingua bio. Vi preferiamo, nel caso si parlasse ancora in dialetto, la pronuncia di pianura con la “v” e la sintassi più prossima all’italiano: Cosa galo vudo?
Varatì, ciò!  L'unica volta che eravamo all'avanguardia, abbiamo abbandonato la partita prima dell'inizio...

Val d'Astico verticale


 


Prendiamoci le nostre responsabilità


Nella teoria sistemica uno degli assunti di base è il riconoscere che rispetto ai nostri genitori oggettivamente siamo “piccoli”.
Non significa restare infantili!
Significa rispettare un ordine gerarchico ben preciso e ricordare quanto segue:
✅ Smettiamo di incolpare i nostri genitori per i nostri traumi. Ciò che è accaduto è accaduto. Restare appesi tutta la vita a quel passato a cosa serve? Iniziamo a guardare con occhi diversi la nostra storia, e lasciamo a loro le colpe che non sono nostre. Prendiamoci invece la responsabilità di noi. Forse ciò che chiamiamo trauma ha origini ancora più antiche? È un copione familiare ripetuto?
✅ Smettiamo di pensare che i genitori devono essere perfetti, sono umani. Sono quelli che sono in grado di essere.
✅ È sufficiente che proviamo rispetto per chi ci ha dato il dono della vita. Ciò che faremo con questa vita, da adulti, è nostra responsabilità
✅ Osserviamo quante pretese abbiamo verso i genitori. Siamo convinti che ci debbano sempre qualcosa. Perché?
✅ Ciò che fanno nella loro vita i genitori non è affare nostro. Smettiamo di giudicare, interferire, credere di avere soluzioni migliori, condannarli o volerli salvare. Loro sono più adulti, loro sanno cosa è meglio per loro. E se non lo sanno, non è facendo i genitori dei genitori che risolveremo. Manteniamo i confini e, di nuovo, rispetto per le loro decisioni. Se sono disfunzionali, abusanti, prendiamo le distanze emotive. In alcuni casi dovranno rispondere alla legge. In ogni caso la vita viene da quei genitori. Restare a lamentersi tutta la vita ci mantiene piccoli e dipendenti.
✅ Osserviamo la nostra postura interiore verso i nostri genitori: se ci pensiamo migliori, siamo arroganti. Non andremo da nessuna parte col senso di superiorità. Stiamo giudicando e ciò che giudichiamo ci rincorre e intrappola
✅ Non possiamo cambiare nessuno, tanto meno i nostri genitori. Prendiamoci invece la responsabilità della nostra vita.
web

"Becchini moderni"...

Un funerale nel duomo di Amalfi, ha attirato l'attenzione di un bel po' di turisti di passaggio... compresa la sottoscritta. Quanto a scalini il duomo di Amalfi mica scherza... (e pure senza corrimano😕) e tutti eravamo curiosi di vedere con quale sistema sarebbero scesi...
Così abbiamo avuto tutto il tempo di ammirare "la loro mise", il come ingannano l'attesa, come rispondono pronti alla chiamata, e... alla discesa... (4 + 1 che "guida"). Pur giovani, pur abituati, per un piede in fallo è un attimo... con conseguenze che lascio alla vostra fantasia immaginare.
(pure i piccioni sembravano interessati...)









What do you want to do ?
New mail

29 settembre...


sabato 26 settembre 2020

Al sabo, al scuro e soto le coerte..

【Gianni Spagnolo © 20IX21】
Qui all'inizio di Sarcedo, appena fuori Thiene, troneggia ancora l’imponente fabbricato del “Barcon.” Fu costruito nel decennio 1660-1670 dai conti Franzan come villa padronale e divenne, dopo la decadenza della nobile famiglia e diversi passaggi di proprietà, villeggiatura estiva del Collegio delle Dame Inglesi di Vicenza a fine Ottocento. Nel 1907 venne acquistato dalla Curia di Padova, che lo adibì a  sede, prima del Collegio Vescovile e, dal 1922 al 1969, del suo Seminario Minore. Attualmente l'intero complesso è proprietà di privati e in precario stato di conservazione.  
In quel collegio si sono formati gran parte dei sacerdoti diocesani che abbiamo conosciuto e anche molti laici cosiddetti studià.  Allora il seminario era spesso l’unica possibilità per avviare allo studio i ragazzi più promettenti delle famiglie popolari, anche se  non avevano la spinta vocazionale e terminavano con il ginnasio o proseguivano poi in istituti laici. I parroci stessi tendevano ad avviare a questi studi i nipoti, giacché l’essere parente d’un prete costituiva un buon viatico di promozione sociale e un investimento per le famiglie.
M’è capitato recentemente fra le mani il libretto che narra un po’ le vicende quotidiane di quei collegiali e le ferree regole che ne ritmavano la vita nell’Istituto. L’ha scritto un ex-allievo: Giovanni Sartoratti (Caro Vecchio Barcon – Edizioni Alborg Sas – Padova 2001), con un approccio fra il rigore documentaristico ed l’affetto nostalgico, come capita a volte riferendosi ai ricordi dell’adolescenza.
Io non ho mai frequentato un collegio, ma ho vissuto qualche anno nel terrore d’esserci spedito. 
A te paro in colejo!” Era la perentoria affermazione di mia madre quando la facevo bacilare massa
Il collegio doveva perciò essere la massima disgrazia che potesse capitarmi e il luogo capace di piegare anche il più indomito spirito ribelle. Questa minaccia era generalmente sufficiente a rimettermi in careggiata, pur avendo io del collegio un’idea assai vaga. Me lo figuravo come una specie di tetra e lontana Fortezza dello Spielberg, di pellicana memoria, con le grate di ferro spesse un pollice, dove arcigni maestri ti istruivano a vistcià e da dove non si sarebbe tornati a casa per un bel po’; forse mai.  L’esperienza del "colejo" che avevano i nostri, poteva invece essere mutuata all'ingrosso proprio da istituti come il Barcon, o da enti benefici che si prendevano cura dell’educazione dei fanciulli o sopperivano alle carenze delle famiglie.
Al Barcon, in verità, non sembrava che vita fosse così terribile, almeno stando all’epoca e a quanto ne scrive il Sartoratti. Certo, il rigore morale ed educativo era pervasivo, ma pare che molti ne abbiano conservato un ricordo tutto sommato positivo. Va da sé che non dovette essere facile far convivere qualche centinaio di ragazzi dei diversi anni dell’adolescenza e nel pieno fulgore del loro sviluppo, per cui una rigorosa disciplina era nelle cose. 
In quel contesto dunque tutto era meticolosamente regolato. Per esempio, era consentito esprimersi esclusivamente in lingua italiana e chi sgarrava subiva limitazioni nel cibo con l'efficace sistema della "chiave" che ne assegnava il controllo agli stessi colpevoli. In pratica, a chi  scappava el stranboto in dialeto veniva consegnata una chiave, che questi doveva passare, come un testimone, al primo che ci fosse caduto dopo di lui. A chi rimaneva la chiave fino all'ora di pranzo o cena, veniva decurtata la razione di pane. Anche le funzioni più personali erano oggetto di strane procedure. Nelle lunghe e affollate camerate una luce rimaneva accesa tutta la notte e si spegnava solo per un paio di minuti al sabato, quando ciascuno doveva provvedere svelto al cambio della biancheria intima nella totale oscurità e pudicizia. Non oso immaginare quanti dei più piccoli, nell'ansia di far presto, indossassero magari le mutande col patelòn roverso. La cadenza del cambio, una volta alla settimana, era peraltro in linea con le abitudini igieniche d'allora e non deve stupire. Sorprende un po’ di più che di notte quei collegiali, dovessero, del caso, fare i propri bisogni sul vaso da notte, ma stando rigorosamente sotto le coperte, come narra l’autore; sempre a tutela del decoro e della modestia.
Per quelle operazioni lì mi sa che ci voleva un po' di pratica, che non credo venisse adeguatamente insegnata ai ragazzi dagli educatori. D’altra parte, immagino che l’argomento, visto che i soggetti erano intrisi d'ecclesiastico pudore, non abbia lasciato ai posteri gran documenti di quelle peripezie. Perciò un po' di laica curiosità resta. 

Ci vuole misura in tutto...


Una cosa è stare attenti alla contaminazione e  trasmissione di questo virus Sars cov2, un'altra è preservare, aumentare, diversificare la flora batterica che ci abita dentro il corpo e sulla pelle.

In ogni dove nel corpo, ci sia una zona, dove il corpo comunica con l'ambiente esterno, lì abita un insieme specifico di flora microbica composto da funghi, batteri, virus.
Questa variegata flora è fondamentale per lo stato di salute, e più variabilità c'è,  più è assicurata la salute.
Detergere spesso la pelle, e in modo aggressivo, comporta un'alterazione della composizione del microbiota (funghi, batteri, virus) con fragilità della pelle e alterazione del sistema difensivo.
Quando manca la nostra barriera di difesa con funghi, batteri, virus in equilibrio, i funghi o batteri opportunisti (cattivi) possono svilupparsi eccessivamente.
Gonfiore, candida, problemi di pelle, peso, hanno spesso una componente che dipende dalla flora batterica interna ed esterna (microbiota).
Mantenere una varietà batterica alta è importante,  è conveniente non disinfettare se non necessario e cercare di andare a contatto con molti ambienti diversi, con animali (che non trasmettono il virus), mangiare cibi diversi non sterilizzati, confezionati, morti.
Perchè l'incontro con ambienti diversi crea varietà nella flora, che crea salute.
Quindi, i batteri, virus, funghi, sono anche buoni, ne abbiamo bisogno.
Uccidere tutto, uccide anche noi.
La paura di un virus non deve fare da muro a tutto il meraviglioso mondo che ci circonda, non è tutto sporco, non è tutto da disinfettare. (fare attenzione e rispettare le regole sì, ma estendere a tutto è paranoico).
Chi disinfetta la tazzina con cui beve il caffè,  il giornale preso in edicola, la borsa o i prodotti presi al supermercato? Eppure poco prima qualcuno può averli toccati.

Elettra Bisognin web

Siete mai saliti sulla montagna ad aspettare il sorgere del sole?

“Domando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? 
Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.
A un certo momento, prima che il sole esca dall’orizzonte, c’è un fremito. Non è l’aria che si è mossa, è un qualche cosa che fa fremere l’erba, che fa fremere le fronde se ci sono alberi intorno, l’aria flessa, ed è un brivido che percorre anche la tua pelle.
E per conto mio è proprio il brivido della creazione, che il sole ci porta ogni mattina.
E sentirai per esempio il canto del codirosso, poi sentirai il pettirosso, poi magari vedrai un capriolo. 
Sì, il capriolo è un animale notturno, incominci a vedere che rientra nel bosco, lo individui e poi sparisce, l’immagine che esce da lì è quella del cervo e quando poi magari, quando il cielo è chiaro e le stelle sono sparite, ti accorgi che sopra di te vola un’aquila.
Ma prima hai sentito il brivido.”
Mario Rigoni Stern

giovedì 24 settembre 2020

In vino veritas

Gianni Spagnolo © 200909
Non so se il Sera sia rimasto l’ultimo appassionato vignaiolo di Casotto, ma certamente da quelle parti l’arte di Bacco deve avere una lunga e misteriosa tradizione. Antica e riconosciuta, se anche Don Giovanni Toldo riporta nel suo libro che, durante la carestia del 1816, il parroco di Piovene ordinò il vino da messa ad un casotàn. Questi non trovò di meglio che portargli  l’uva in un sacco, da quanto inclemente era stata quella stagione che non permise la giusta maturazione.
Ora, non è tanto sorprendente che il nostro valligiano potesse fornire solo dell'uva un po’ duretta da lasciarsi trasportare in un sacco per più di 20 km e sulle strade d'allora, quanto che l’arciprete di Piovene non avesse trovato di meglio che rifornirsi proprio a Casotto. Sorge perciò legittimo il dubbio che gli effluvi ammalianti che sicuramente aleggiano attorno al Cògolo delle Anguane, abbiano una qualche misteriosa influenza sulle vicine vanéde dedicate alla produzione di inebrianti nettari.
Non può essere altrimenti.
D’altra parte, il territorio di Pedemonte è costellato di Vingarti, toponimi che rimandano alla presenza di vigneti, tanto da farne addirittura l’emblema civico con la vigna che campeggia nel suo stemma. Qualcosa di particolare deve pur esserci al di là della Torra, dato che a San Pietro, per quanto ne so io, s’è sempre prodotto niente più che un onesto, ma sofferto pinpinéla.
Ma pare che la cosa venga da ancor più lontano, almeno a giudicare da quel documento del 1560 che ci ha segnalato la prima presenza in loco dei Sartori da Villaverla.

Vediamo un po’ cosa ci racconta (tradotto dall'originale in volgare, virgole comprese):
1560 indizione 7^ giorno mercoledì 20 del mese di novembre in villa detta Casotto distretto di Caldonazzo in casa dell’infrascritto Bernardino, presenti il nipote Gio:Maria, e Francesco figlio di Gio:Maria, entrambi testi a ciò chiamati e specialmente richiesti.
A titolo di vendita, e prezzo finito ed accettato di 15 ducati alla presenza dei testimoni detti, e di me notaio infrascritto, l’egregio sig. Francesco di Cerra da Forni, cittadino vicentino, realmente ebbe, e manualmente ricevette parte in oro e parte in moneta valida corrente, da Battista, fu Cristoforo di Toldi da S. Pietro Valdastico qui presente e solvente per sé e a nome di suo fratello e per gli eredi, per quei ducati e quel prezzo.
L’egregio sig. Francesco qui presente quanto per sé e i suoi eredi, consegnò trasferì vendette ed alienò come proprio e secondo i propri diritti libero e subito disponibile senza alcuna controversia al soprascritto Battista qui presente, acquirente stipulante e ricevente per se e i suoi eredi, ed a nome di suo fratello, un affitto di tre mastelli di vino puro e genuino, il quale affitto pagava Bernardino fu Francesco Sartori  da Villaverla, al presente abitante nel luogo detto Casotto, per una porzione di terra arativa con piante di viti ed alberi, di un campo dei quattro posti nelle pertinenze e contra’ detta Casotto a mattina presso Gio:Maria nipote del detto venditore a mattina presso i beni comunali e delle altre parti presso il soprascritto venditore, ed altri, come appare nell’atto scritto di mio pugno 1560 indizione 3^ giorno venerdì secondo mese di febbraio.
Apprendiamo che questa stipula  è accessoria di un precedente accordo. Sostanzialmente ratifica il pagamento di un affitto per l’uso di una parte dei terreni venduti e consistente in tre mastelli di vino puro e genuino. 
Ecco che la storia comincia da lontano! 
Vuoi vedere che questi Sartori venuti dalle Basse, si son portati appresso qualche arcana tecnologia vinaria, che rimase ignota per secoli ai serenissimi sudditi dell'altra sponda della Torra e che ora vede magari nel Sera l’ultimo custode e depositario?
Una sorta di Santo Graal bacchico dunque, ma mentre i più cercavano per secoli il contenitore, a Casotto si concentravano più prosaicamente sul contenuto. 
Mah,.. sti casotàni!


La democrazia sui social network è un'illusione

 (da: la voce dei Berici di Riccardo Benotti)



«C’è un elemento nuovo che s’innesta su di un’esperienza antica. Nuovo è l’uso delle tecnologie, che permettono di raggiungere con un click un numero enorme di persone. Antico è il fatto che, proprio in quest’uso, risorgono forme comunicative ben note, come quella del comizio». È la riflessione di Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa, a proposito delle modalità attraverso le quali i social network stanno cambiando il modo di comunicare anche nella politica.

I social sono sempre di più uno strumento utilizzato per comunicare direttamente con l’elettorato. Come cambia la politica?

«Dobbiamo chiederci sia come sta cambiando la politica, sia come è cambiato il mondo della comunicazione. Le due cose sono infatti strettamente connesse. La politica – come modo di definire i rapporti interumani in uno spazio comune e secondo regole condivise – ha bisogno della comunicazione. Ne ha bisogno per acquisire, mantenere, consolidare il consenso. Finora vi erano determinati intermediari a cui far riferimento per raggiungere lo scopo: soprattutto i giornalisti della carta stampata e della televisione. Costoro non solo informavano, ma davano indicazioni su come interpretare le informazioni. Si trattava dei cosiddetti opinionisti. Oggi sta subentrando un rapporto più diretto tra politici ed elettori: quello reso possibile dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e in particolare dai social network.
È la rivoluzione della disintermediazione. Sembra cioè che si possa fare a meno di qualsiasi intermediario, e pure dei comunicatori come professionisti dell’intermediazione comunicativa, perché il politico è ormai in grado, attraverso un account social, di dire la sua direttamente. In realtà questi intermediari ci sono ancora. Il Papa o il Presidente della Repubblica non possono certo avere il tempo di chattare o di mandare un tweet. E tuttavia l’illusione di un contatto diretto permane».

Come leggere la violenza verbale e visiva adottata da certi politici e comunicatori?

«L’uso della violenza è indispensabile oggi per attirare l’attenzione. In un mondo in cui c’è un’overdose di comunicazione, l’unico modo per farsi notare è gridare. Da ciò nascono vari problemi. Il primo: ormai tutti urlano, e dunque il farlo non è più efficace. Meglio, a volte, un silenzio eloquente. Poi: la cultura dei social porta a una polarizzazione delle opinioni: o mi piace o non mi piace. Non c’è la possibilità di argomentare, di esprimere un giudizio sfumato. Da qui un terzo tema: la polarizzazione porta allo scontro. La violenza verbale o visiva prima o poi genera altra violenza, anche fisica».

Spesso si assiste anche a una comunicazione pubblica e privata attraverso lo stesso canale: si mostra l’attività istituzionale ma anche la cena con i figli. Perché?

«Questo è stato sempre fatto. Le fotografie casalinghe dei politici e la loro partecipazione a certi programmi televisivi sono stati un modo di annullare la loro distanza dalla gente comune. I politici sono persone come noi, che fanno la nostra stessa vita, che fanno la pennichella, che ogni tanto ballano sotto le stelle. Oggi però c’è un ulteriore elemento: c’è l’idea che questa omologazione sia un valore. Di più: che l’attività politica non abbia una sua specificità, che non richieda particolari competenze. La politica sembra non richiedere formazione, esperienza, cultura. Abbiamo giustamente eliminato l’autoritarismo. Oggi rinunciamo anche all’autorevolezza».

Perché la politica si è appropriata dei social? È soltanto perché, ad esempio, YouTube costa meno di una pubblicità sulla televisione?

«Non solo. Ma anche perché l’uso dei social consente di raggiungere direttamente masse enormi di elettori. Di più: grazie a profilazioni sempre più precise, questi elettori possono essere coinvolti offrendo loro ciò di cui essi hanno realmente bisogno, o ritengono di necessitare. Oltre a ciò, i social offrono un’illusione di democrazia. Sembra cioè che la democrazia consista solo nella possibilità d’interagire con un post di poche righe, oppure optando per un sì o per un no. Ma esprimere la propria opinione non è sufficiente. Le varie opinioni, infatti, devono essere portate a sintesi e confluire in un progetto comune: questa è democrazia. Condividere non è partecipare».

I social, che sembrava potessero essere il punto di svolta per una democrazia più partecipata, si stanno trasformando in qualcosa d’altro?

«Finiscono per essere per lo più uno sfogatoio. Si scambia la libertà di accesso a una piattaforma con la possibilità di contribuire alla costruzione del bene comune. Ci si accontenta di un’espressione costretta su binari ben precisi. Il problema è che poi le decisioni vere le prendono altri: e noi ne subiamo le conseguenze».

I negazionisti del covid

di Luciano Fontana
direttore Corriere della Sera

Caro direttore,
il Covid esiste, ha contagiato più di 25 milioni di persone, ha provocato quasi 1 milione di morti e non solo colpisce i polmoni, ma lascia danni collaterali anche a cuore, reni e cervello. Di fronte a queste evidenze, vi sono negazionisti che oggi rifiutano la mascherina e che domani rifiuteranno il vaccino. Fino a che punto può essere tollerata una libertà di opinione e di espressione, che rischia di mettere a rischio la salute di tutti?
Gianfranco Orta


Caro signor Orta,
I negazionisti del Covid somigliano incredibilmente a quei «terrapiattisti» che si sono lanciati nell’avventura di dimostrare le loro assurde tesi scientifiche e sono naufragati vicino a Ustica. Osservare la manifestazione dove una signora gridava a tutti che il virus è un’invenzione e un complotto per limitare le libertà delle persone è stata un’esperienza che mi ha lasciato esterrefatto. Non stiamo combattendo da mesi contro il coronavirus in tutto il mondo? Non abbiamo pianto centinaia di migliaia di morti? E non stiamo facendo i conti dei posti di lavoro persi e delle aziende che hanno chiuso o che si trovano in serie difficoltà? L’abbiamo sognato o quella mappa tremenda, con la diffusione dei contagi in ogni angolo del mondo, era solo un’illusione? Per fortuna i negazionisti sono pochi e si presentano come figure anche un po’ comiche. Mi preoccupano di più gli irresponsabili, quelli che non rispettano quel minimo di regole che servono a proteggere se stessi e gli altri. Questi sono molti di più. Li abbiamo visti in azione nelle discoteche, nelle feste e nella movida di questa estate, in una specie di «liberi tutti» molto pericoloso per la ripresa d’autunno. Oggi tutti dobbiamo fare delle scelte e decidere quali sono le cose importanti: riaprire le scuole e le università è decisivo, riprendere completamente le attività economiche è una priorità. E allora serviranno indicazioni semplici, buona organizzazione, ma anche un altissimo livello di responsabilità personale. Da parte di ognuno di noi, soprattutto di chi ha un ruolo pubblico, è conosciuto e può costituire un esempio per tutti gli altri.
What do you want to do ?
New mail

martedì 22 settembre 2020

MONTANELLO [2] Giro dei Lagorai Centrali - Dal Passo Manghen alla Forcella di Val Sorda


Gianni Spagnolo © 20IX13
Questa parte del Lagorai presenta un ambiente montano verdeggiante e ricco di torbiere, laghetti, ruscelli e pascoli in quota, che emergono dagli sfasciumi dei pendii lastricati dai grandi massi di porfido costellati di licheni dalle intense sfumature di verde. La mancanza di vette iconiche e  l'assenza di punti d’appoggio sui percorsi, li fanno frequentare prevalentemente da escursionisti locali e non è infrequente percorrerli senza incontrare anima viva.
Partiamo dunque con un giro ad anello piuttosto lungo, ma che può essere ridotto a piacere, dato che è la concatenazione di ben quattro anelli successivi che possono essere fatti anche singolarmente.
L’itinerario parte dal  Passo del Manghen [2047m], raggiungibile dalla Valsugana via Castelnuovo e Telve, risalendo la Val di Calamento. Si parcheggia liberamente proprio sul Passo o accanto al rifugio sottostante. Il percorso può essere fatto in senso orario sul sentiero 322A o antiorario sul 322, a scelta, ma è preferibile la seconda opzione per i panorami che offre al mattino.
Perciò prendiamo il sentiero 322 che sale alla Forcella del Frate. Da qui si può salire a Cima Ziolera [2470m] con un breve diversivo lungo la ripida la cresta Sud-Ovest, ripagato dal grandioso panorama che offre. Dalla cima si scenderà poi al sentiero congiungendovisi più avanti per il versante orientale (brevi passaggi su roccette: prudenza), ma se si vuole proseguire senza varianti si continua a Sud sul 322. C’incamminiamo dunque lungo il versante meridionale, ammirando il grandioso colpo d’occhio sulle propaggini settentrionali di Cima d’Asta e sulle Pale, raggiungendo la Forcella Ziolera. Su questo passo si chiude il primo anello, per cui chi volesse limitare il giro può scendere sul versante opposto al Lago delle Buse 361+322A e ritornare alla partenza.
Continuiamo lungo il 322/B fino ad una forcelletta dove c’è un bivio: a dx si prosegue per il l’Herta Miller Haus (ex infermeria austriaca), mentre noi caliamo a sx verso la Pala del Becco, raggiunta la quale scendiamo al suggestivo Lago di Montalòn attraverso un pendio lastricato di grossi massi costellati da licheni (attenzione ai segnavia in caso di nebbia). Più sotto il sentiero si appiana e si cammina tra l’erba e una gran varietà di fiori, secondo la stagione. Si riparte sulla traccia 362 alla volta della vicina Forcella di Montalòn, dove si chiude il secondo anello e volendo si può tornare alla partenza lungo il versante settentrionale sui sentieri 322+322A. Noi invece proseguiremo lungo il 322 che taglia diagonalmente le Laste, cioè le lunghe pendici settentrionali delle cime Delle Buse e di Montalon, su un pendio di sfasciumi che in primavera potrebbe essere ancora innevato. Doppiato un promontorio, cominceremo a scorgere in basso il Lago delle Stellune, incastonato sulla testata dalla Val Stua. Continuiamo il cammino fino alla Forcella di Val Sorda, che costituisce il punto di svolta del nostro itinerario. Qui intercettiamo il Sentiero Italia 318, che scende per la Val Stua verso il lago. (ma si possono prendere anche diverse scorciatoie che abbreviano il percorso). Il Lago delle Stellune [2091m] è un gioiellino alpestre che merita una sosta, magari immergendoci le estremità provate dalla camminata. Ora scendiamo più a valle fino alla Malga Cazzorga [1845m] e alla curva subito sotto prendiamo a sx il 362 che risale il Pian della Maddalena, verso la Forcella di Montalòn, che però non raggiungeremo perché c’immetteremo prima alla nostra dx sul sentiero 322 che percorre il versante settentrionale del Montalòn. Più avanti, in basso, si comincia a vedere la malga Buse e a fianco la verdissima e suggestiva torbiera del Pian delle Fave, attraversata dalle anse dei ruscelletti. Raggiungiamo quindi l'ampia  e verdeggiante piana del lago delle Buse [2066m] seguendo il 322A. Da li costeggeremo il versante nord del Manghen, passando infine per una cappella votiva scavata nella roccia e sbucando subito dopo nel cortile del Rifugio/Ristorante Manghenhütte. No, non siamo ancora in Tirolo, ma quella capanna me la ricordo da ragazzo gestita dal Franz, che veniva da lì e vendeva intagli in legno e speciali kamunwurzen di sua produzione. Allora la strada era ancora sterrata e la Val Calamento costellata da ricoveri di pastori dove adesso vediamo simpatiche casette di vacanza in stile rustico.
Partendo dal Passo, l’itinerario si snoda intorno ai duemila metri e non presenta dislivelli significativi (tranne la salita alla Ziolera, peraltro facoltativa) ed è ben segnalato. Anche se lungo, può essere quindi affrontato dall'escursionista medio. Concatenando in successione ben quattro anelli, il percorso può essere inoltre abbreviato a piacere secondo le proprie forze e le condizioni meteorologiche in atto. 
  • Lunghezza: 18 Km;
  • Durata: 6h:30’;
  • Dislivello in salita: 1020 m (con salita alla Cima Ziolera), 780 m altrimenti;
  • Dislivello in discesa: 970 m (730 m senza Ziolera);
  • Altezza massima: 2.248 (Cima Ziolera);
  • Altezza minima: 1.830 m (Malga Cazzorga).

Questi crinali, durante la prima guerra mondiale, erano pressoché sulla linea del fronte e perciò  fortemente militarizzati. Le vestigia di strade e arroccamenti sono visibili ancor oggi, come anche qualche ricovero di fortuna che può offrire riparo in caso di maltempo. Se la giornata è serena, questo giro offre un grandioso panorama a 360° su tutta la cerchia di montagne intorno, senza trascurare la flora e la fauna locale, che riservano sempre gradite sorprese.
Buon Giro!




  




E anche la Valle ha "il suo Mauro Corona"...

CLICCATE QUI

Potpourri


Ho un debole per quelle persone
che sanno di essere fortunate
che ne hanno passate
di tutti i colori
e perciò vivono colorate.
Che non hanno bisogno
di nascondere gli altri
per sentirsi giganti.
Che portano dentro
nascosto da qualche parte
un dolore che non passa mai.
Qualcosa che le ha cambiate per sempre, 
ma non per questo si sentono più grandi,
ma non per questo si sentono migliori.

Ho un debole per quelle persone
che spente le luci, rimangono accese.
Che chiuso un amore, rimangono vive.
Che sciolto il trucco, rimangono vere.
Ho un debole per le persone
attente a toccare.
Che una carezza quando incontra un livido si fa ricordo.

Ho un debole per quelle persone
che hanno lottato
e in silenzio hanno vinto.
Che dal giorno in cui sono uscite
dal loro buio
soffrono di felicità ossessiva compulsiva.
Che non hanno mai rinunciato
alla loro dolcezza.
Che non si sono piegate alla rabbia
quando la rabbia era l’unico modo
per farsi ascoltare.

Ho un debole per quelle persone
che sanno che insistere
significa violentare.
Che rispettano un “no, grazie”
senza aggiungere altro.
Che dev’esserci un motivo
per entrare nella vita di una persona
e quel motivo dev’essere chiaro.
Sempre.
Che essere gentili
non vuol dire essere stupidi.
Che conoscono il peso delle parole
e non te le scagliano contro
per difendersi.
Che rispettano la solitudine.
Perché sanno che una persona
custodisce lì, tutto ciò che non si può raccontare.
Tutto ciò che non vuol essere trovato.

Ho un debole per quelle persone
che quando camminano per strada
e incrociano il tuo sguardo
per un istante sorridono.
Le adoro.
Mi mandano letteralmente
fuori di cuore.

(Andrew Faber - da “Cento secondi in una vita")

sabato 19 settembre 2020

El frutìn

【Gianni Spagnolo © 20IX14】
Non saprei se sia annoverato fra i presidi di Slow Food o goda di qualche tutela DOC, DOCG, DOP, o cos’altro; probabilmente no, ma forse lo meriterebbe. Anche solo per la quantità di bambini che ha fatto felici. Sta di fatto che questa pallina di zucchero al gusto di frutta ha caratterizzato un’epoca: la nostra. 
Sto parlando del Frutìn, una caramellina dalla consistenza indefinibile che si scioglieva in bocca lasciandoti un piacevole e dolce sentore acidulo.
Credo fosse un'esclusiva locale, dato che la storica pallina al gusto di frutta, era tradizione della famiglia Vicentini di Thiene fin dal 1920 ed è tuttora in commercio. Una caramella semplice, piccola e gustosa, nel classico incarto colorato a forma di farfallina che faceva felici i bambini dei tempi andati. 
Accanto alle mentine, che però piacevano più a loro, i frutini erano la risorsa preferita delle mamme e soprattutto delle nonne per premiare o blandire popi, tati, bociéte e bociàsse.
Erano costituite sostanzialmente di zucchero con qualche aroma di frutta e perciò assai economiche e diffuse. Un frutìn non si negava mai, anzi, di solito te ne davano addirittura una sbranchiéla, accompagnata spesso dall'invito a condividerla con i compagni.
"Némo chiìve, belo, ca te dao on frutìn." Era una frase ricorrente quando s'era compiuta qualche azione meritevole. I gusti erano assortiti nell’ambito della frutta classica, niente di particolarmente esotico, a quanto mi ricordo. Anche se non è che s'avvertisse granché la differenza, se non dal colore della cartina oleata che le avvolgeva e conferiva quella graziosa forma di farfallona panciuta. Erano belle dolci e tanto bastava e si scioglievano in bocca che era una bellezza.
Scartarle era facile anche per i più impediti: bastava svitarla agendo sulle alette laterali. Nel suo piccolo era una cosa semplice e ingegnosa, calibrata proprio sulle esigenze dei più piccoli e golosi. Poi non era appiccicaticcia come le caramelle al miele, che ti davano perché facevano bene alla gola, ma non piacevano a nessuno. Né come le Rossana, che andavano in TV ma erano massa lusso. Era qualcosa di giusto per noi e per le abitudini e la parsimonia d'allora.

Una domenica serena a tutti



In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 
Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». 
Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».
 
Commento al Vangelo

Ogni volta che leggo questo brano provo sempre una sensazione di incertezza. È giusto che coloro che hanno lavorato meno ottengano quanto i primi che hanno passato l'intera giornata nei campi? La cosa suona a dir poco strana, quasi contraria a tante regole e principi in cui crediamo. Sembra che questo padrone sia poco giusto, o per lo meno distratto; sembra che non si accorga della disparità di trattamento adottata. Ma è questa la corretta prospettiva di riflessione, oppure stiamo trascurando di osservare altri aspetti, forse anche più importanti?
Pensiamo a quale gioia deve aver provato l'ultimo disoccupato chiamato a lavorare, uno di quelli delle cinque: stava perdendo ogni speranza, ed ecco che una chiamata lo salva. Potrà lavorare almeno un po', potrà tornare a casa alla sera con qualche soldo e soprattutto potrà assaporare la dignità di essere stato scelto anche lui, di essere stato operoso ed aver abbandonato l'ozio.
E il primo? Sembra non rendersi conto della fortuna che ha avuto, si perde nel confronto con gli altri e non vede ciò che è veramente importante: è stato scelto subito ed ha avuto la possibilità di lavorare nella vigna tutto il giorno, facendo parte della squadra di un uomo buono! Ricorda un po' il fratello maggiore del figliol prodigo, che non vede il bene che lo circonda.
 
LA FRASE
 


L'arte di ascoltare

La perdita della capacità di ascoltare è figlia della perdita della dimensione del silenzio.
L’uomo moderno ha orrore del silenzio.
Il silenzio della mente è ormai un’espressione priva di significato.
Abbiamo dimenticato l’arte di quietare quell’alveare dalle mille api ronzanti che si annida nella nostra mente.
Sottoposta ad un incessante bombardamento di messaggi, la nostra mente è una fucina di pensieri che lavora senza turni di riposo.
Abbiamo perso la capacità di rallentare.
Un’attività mentale frenetica e dispersiva che invece di arricchire lo spirito, ci affatica, ci confonde, seppellisce il nostro vero io sotto una cortina impermeabile di pensieri, immagini, fantasie e timori.
Questo lavorio mentale ha luogo senza sosta, sicché i pensieri si sovrappongono l’uno all’altro spesso in modo conflittuale.
Ci fanno agitare per un non nulla, costruiscono pregiudizi e preconcetti.
Corrono affannosamente ad anticipare il futuro e restano amaramente attaccati al passato.
Le esperienze passate sono sempre presenti per condizionarci, anche se non ce ne rendiamo conto.
Al nostro fianco cammina il nostro passato che ci imprigiona dietro a celle prive di sbarre, ma da cui è difficile evadere.
Queste incrostazioni avvolgono l’io profondo e gli impediscono di emergere, lo soffocano, stordito dal rumore del chiacchiericcio mentale.

da: "L'Arte di Ascoltare", Plutarco.
What do you want to do ?
New mail

In questi giorni il sistema di GOOGLE ha rivoluzionato l'impostazione del blog. Forse è solo una mia impressione, ma mi dà l'idea che stia complicando le cose semplici. Spero di prendere un po' la mano, perchè finora mi ha fatto solo perdere tanto tempo e pure arrabbiare... :-(((

 


giovedì 17 settembre 2020

MONTANELLO [1] Val dei Mòcheni-Rifugio Sette Selle-Lago d’Érdemolo

【Gianni Spagnolo © 20IX09】
Inizierò questa rubrica con un’escursione circolare sui Lagorai, una catena montuosa secondaria ma affascinante, che offre ampi panorami e ambienti montani poco frequentati dal turismo di massa. Del resto sono così i Lagorai: discosti, poco visibili, poco considerati, sminuiti dalla vicinanza e dal raffronto con le Dolomiti più belle. Se il delicato calcare delle Pale di San Martino è emerso dagli oceani, il porfido del Lagorai è figlio del fuoco vulcanico; l'uno è chiaro, l'altro scuro, l'uno ridente, l'altro cupo, l'uno attira lo  sguardo, l'altro lo schiva confondendosi col colore della terra. Cominciai a praticarli da ragazzo, con mio padre. Ci tornai da militare, con la 66a del btg. Feltre del mitico cap. Giacomin, che in fatto di marce non era secondo a nessuno. Poi tante altre volte ancora.
I Lagorai costituiscono la dorsale della sinistra orografica della Valsugana e fanno da degna corona settentrionale alla Cima d’Asta. A differenza di questa, che è un massiccio granitico, i Lagorai sono di porfido, ma entrambe le rocce sono della medesima origine magmatico-effusiva, incastonante nel mare di calcare che le circonda. 
Partiamo dall’inizio, cioè dal loro versante occidentale, che ci è anche più comodo. Arriviamo in auto a Pergine e imbocchiamo la Val dei Mòcheni, valle chiusa che nella sua testata e sx orografica è abitata dai residui parlanti il mòcheno; un dialetto tedesco meridionale dei minatori li stanziatesi nel Medioevo per la coltivazione dei giacimenti di rame, ferro, argento e anche oro. Con l’occasione si può anche visitare  la Gruab va Hardimbl, cioè la miniera-museo che si trova sul nostro tragitto di ritorno. Se si è fortunati, soprattutto ad inizio estate, si può assistere alla meravigliosa fioritura dei rododendri che punteggiano i versanti del loro rosa intenso. 
Si risale la valle fino al suo termine a Palù del Fersina, dove si parcheggia liberamente sotto il campo sportivo (loc. Paoar) , oppure a pagamento più in su, nei pressi di Maso Frotten [1340m]. Da lì s’imbocca il sentiero 343 che risale l’impluvio del ruscello Laner lungo l’Intertol, attraverso bei boschi di pini e larici, collegando i suggestivi e omonimi baiti. Si raggiunge quindi il Rifugio Sette Selle in circa 1:30h. E' un appoggio della SAT di Pergine, recentemente rinnovato e situato in bella posizione ai margini del bosco, che merita senz'altro una sosta [2014m].
Opzione A): Si percorre quindi a ritroso il sentiero di salita per circa 15 minuti, per poi deviare a sx intercettando il sentiero n. 324 che conduce al Lago di Érdemolo. Il percorso si snoda con saliscendi attraversando la testata della valle e permette di ammirare dei begli scorci sulle Dolomiti del Brenta. in un paio d’ore  raggiungiamo il suggestivo laghetto di Érdemolo, piccolo specchio d'acqua a forma di cuore incastonato in una profonda conca glaciale [2024m]. Lì vicino c’è anche l’omonimo rifugio privato, che però è chiuso dal 2012. Un tempo quel laghetto era circondato da nevai anche in primavera-estate e l’acqua ne rimandava i riflessi in tutte le sfumature azzurre del cobalto. L'area si presta ad una sosta ristoratrice e magari anche rinfrescante. Da li si scende lungo il 325 fino alla base di partenza in un'oretta circa. A quota 1700m troviamo a dx la diramazione che porta brevemente alla miniera-museo della Gruab. 
  • L'itinerario A) è lungo 10 Km, si percorre in circa 4:30h con un dislivello altimetrico di 880 m.
L'escursione si può svolgere ovviamente anche in senso contrario, come pure è possibile salire semplicemente al lago seguendo il sentiero 325 e fare ritorno per il medesimo tragitto dell'andata.

Opzione B): Volendo, alla Gruab ci si può arrivare anche dal Rifugio Sette Selle, evitando di andare al lago, ma scendendo direttamente sul sentiero 343B, che scende a dx dopo circa un quarto d'ora di percorrenza sul 324 verso il lago, con un percorso più breve e meno impegnativo. 
  • L'itinerario B) è lungo 5,9 Km, si percorre in circa 3:00 h con un dislivello altimetrico di 460 m, quindi alla portata anche di famiglie con bambini.
Buon Giro!
Note:
La miniera dell’Erdemolo (de Gruab va Hardimbl) è visitabile con  visita guidata che spiega la vita e il duro lavoro dei minatori-Canopi-Knòppn all’interno di quella miniera, che è stata coltivata tra il 1400 e il 1650. Durante la visita è possibile scoprire le varie tecniche di scavo, gli strumenti utilizzati e i diversi minerali estratti. Si avrà cosi modo di vedere le molteplici venature della roccia, l'incessante sgocciolio dell’acqua e la parte sommersa dell'impianto, rendendolo un viaggio istruttivo nelle viscere della terra, specie per i bambini. La Gruab va Hardimbl  può essere vista solo con visite guidate per 5 persone alla volta (misure Covid-19). Alla miniera si accede attraverso l’utilizzo di impermeabili e caschetti messi a disposizione da parte del museo. A partire dalle ore 10 è prevista una visita guidata ogni 45 minuti. Chiusura alle ore 18. I giorni e gli orari di apertura sono variabili a seconda della stagione, quindi è preferibile informarsi preventivamente ai seguenti recapiti:
Tel. 0461-55005
https://www.umpalai.it/miniera-dellerdemolo/

Come vivrebbero le api se non le avessimo addomesticate e costrette nelle arnie che costruiamo per loro. Cioè come sarebbero in natura.





(segnalato da Cesco coga)

martedì 15 settembre 2020

Le crisi





14 settembre 2020
Crisi di nervi-ultimo banco
di Alessandro D’Avenia
(segnalato da Piero Pettinà) 
 
«La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, fa violenza al suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi è l’incompetenza. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Nella crisi emerge il meglio di ognuno». Il primo giorno di scuola scrivo alla lavagna le parole che vorrei illuminassero l’anno da inaugurare e costringo i miei alunni a impararle a memoria, perché ricordino le coordinate della rotta in ogni istante della navigazione. L’anno scorso avevo scelto Sant’Agostino: «Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra». Quest’anno, dato il clima poco allegro, ho scelto invece le parole di un fisico che amava studiare, ma non amava la scuola: Albert Einstein. Mi sembrano perfette per affrontare la paura che ci sta paralizzando e per trasformarla in una sfida. Le soluzioni fisiche non bastano mai, servono quelle metafisiche, perché l’epicentro dei terremoti esistenziali non è in superficie: o cambiamo visione del mondo o avremo sofferto invano. La vita si ribella a schemi e strutture che le imponiamo, soprattutto se, con il passare del tempo, questi schemi e queste strutture non sono più d’aiuto, anzi sono diventate una trappola. A scuola questo è ormai più che evidente.
Il dono che ci fanno le crisi è una rivelazione dolorosa: attraverso la ferita il tessuto della vita ci mostra come vuole essere curato e non più trascurato. Per questo c’è bisogno di mani accorte. «Crisi» è infatti un termine d’origine greca che, fin dall’Iliade, indicava il gesto di separare, nelle spighe, il grano dalla pula: il primo darà pane, il secondo paglia. Un pensiero acritico, cioè privo di crisi, pasticcia tutto: non riconosce la differenza tra la pula e il chicco, tra un banco e un ragazzo. Si parla da mesi dei banchi e del loro distanziamento, necessità risolvibili con un po’ di competenza e buon senso, invece questi discorsi hanno occupato, fino al ridicolo, tutto lo spazio che dovevamo impegnare a raccogliere il grano, che a scuola è ciò che siamo impegnati a far crescere: le vite di maestri e studenti. L’epidemia dell’incompetenza, di fatto, a scuola c’è da anni. Quattro esempi tra i tanti: dal 1999 solo tre concorsi per reclutamento (per legge dovrebbero essere triennali), l’anno scorso 150mila (quest’anno si toccheranno le 250mila) cattedre scoperte su 850mila (precari e supplenti costano meno), 15% di abbandono scolastico, insegnanti di sostegno insufficienti. Sono gli effetti di un sistema sempre in ritardo e non regolato sulle persone, ma su criteri asetticamente economici e interessi politici, avallati spesso da cittadini disinteressati. Eppure la moltitudine di regole che ci sta soffocando in queste ore segnala il centro di gravità: proteggere la vita. Quale vita abbiamo protetto in questi anni, a scuola, con la stessa determinazione con cui compriamo banchi e mascherine? Anche se riusciremo a non fare ammalare nessuno, riusciremo a far crescere qualcuno? Quanti studenti e maestri si spengono perché nessuno si occupa veramente di loro, mettendoli in condizioni di insegnare e imparare come si deve? Il malessere è prima ancora «mal essere»: se in questi anni avessimo curato chi vive la scuola con lo stesso impegno profuso per sanificarla, la scuola forse oggi sarebbe più sana. Ricordiamoci però che le regole servono a proteggere la vita, non bastano a dare la vita, che nasce e cresce con relazioni generative e qualità professionale. Una scuola ridotta a intrattenimento mattutino, contenitore asettico di vite, distributore di pillole per cervelli senza corpo e futuro, non è un vivaio di vocazioni ma di frustrazioni. «La scuola deve educare al pensiero critico»: lo avrete sentito dire sino alla nausea. Ma se «critico» non significa rendere capaci di trovare l’essenziale, la scuola educa solo al pensiero caotico e manipolabile.
Fino a nove anni Einstein anticipava sottovoce una frase prima di pronunciarla perché aveva gravi difficoltà espressive. Non parlava quasi per nulla e questo modo di essere «originale», che lo rendeva «strano» agli occhi degli insegnanti, lo portò a sviluppare un’immaginazione senza pari, il segreto delle sue scoperte: sin da bambino sognava di andare alla velocità della luce per scoprire come si vedesse il mondo. E con questo sogno, mai tradito, scoprì la relatività. Dopo la laurea si guadagnava da vivere in un noioso ufficio brevetti in cui, sbrigato il lavoro da fare, coltivava la sua vocazione alla fisica e così, a 25 anni, scrisse, proprio in quel polveroso ufficio, i quattro articoli che hanno cambiato la visione del mondo. 
Buona crisi a tutti, sperando non sia solo di nervi...



Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...