lunedì 4 luglio 2016

Buttiamola un po' in vacca...

Ho sempre avuto passione per gli animali che popolavano i nostri paesi al tempo della mia fanciullezza: galline, conigli, maiali, capre, capretti, vacche, vitelli, cavalli, ecc.  A casa mia erano rimasti soltanto i primi due; della capra e del maiale restavano solo le stallette e dei muli di mio nonno qualche consunto finimento in granaio. 
Cionondimeno, fra i sei e gli otto anni, ero diventato l’ombra di Toni Nicola (Antonio Toldo), becàro del paese e mediatore di bestiame.  Mi aveva preso a benvolere e mi portava pazientemente con sé quando andava ad accudire le bestie o a prelevarle nelle varie contra’ e paesi della Valle e a volte fin su a Lavarone e Folgaria. Verso Pasqua si andava prendere i capretti e ho ancora impresso il terrore nell'attraversare la traballante passerella sull'Astico che portava alla stalla del Talchino (Germano Munari, fabbro e majaro di Casotto). Sovrintendevo pure alla loro macellazione, previo un pudico allontanamento nel momento più cruento dell’operazione. Intanto ero diventato anche l’incubo di mia Madre: in ogni stagione puzzavo costantemente di stalla. Ancor oggi questo sentore è, se così si può dire, la puzza che preferisco.

C’erano due appuntamenti principali allora, che smuovevano tutta la bociarìa del paese: il carico delle vacche per le malghe e il loro ritorno dalla monticazione, quando restavano a pascolare nei prati in attesa di tornare nelle stalle con la brutta stagione. Era quello il tempo del “ténder vache”, lavoro specifico dei vecchi o dei bambini, nei pomeriggi liberi dalla scuola e ancora assolati dall’incipiente autunno.  Mi piaceva da matti star seduto sui prati, arricchendo d’intarsi il mio bastone da pastore (mitico quello di bagolaro intrecciato, con la punta svasata), ad osservare il pascolo di quelle placide bestie dagli occhi buoni. Peraltro, il ténder vache era sempre stato il rito d’iniziazione al lavoro per tutte le generazioni precedenti, quando era d'uso mandare i fanciulli e le fanciulle del paese presso qualche bacàn degli Altopiani a pascolare e accudire il bestiame. Non era veramente un lavoro, perché si trattava di bambini che ricevevano per compenso solo cibo e alloggio, ma un modo di sgravare per un po’ le famiglie dal loro mantenimento e fargli capire da subito come girava la vita.

In paese allora c’erano principalmente mucche e animali da cortile; pochi erano ormai rimasti i maiali e ancor meno le capre.  Le vacche erano principalmente di razza Bruna o Grigio Alpina, qualche Rendéna, qualche pezzata dall’indefinibile identità. La maggior parte delle famiglie ne possedeva una, spesso due, ospitate in stalle talvolta anguste e certamente non omologabili ai moderni criteri d’allevamento. Mi rammento ancora di quando, sul far della sera, venivano condotte ad abbeverarsi alla fontana in piazza e lasciavano la loro firma sul giovane asfalto delle strade. Poi arrivò l’acqua corrente pure nelle stalle e anche questo rito antico finì nei ricordi.
Tuttavia questo bestiario era di importazione relativamente recente; nei secoli precedenti in Valle, come nei circostanti Altopiani, era la pecora a farla da padrona, insieme alle capre e ad un tipo di bovino autoctono oggi dimenticato: la Vacca Burlina*
Di pecore a San Pietro non mi ricordo ce ne fossero ai miei tempi: ne vidi un paio solo a Rotzo. Fino al primo ottocento invece, se ne contavano duecentomila esemplari nei soli 7 Comuni, che alimentavano l’industria laniera che Alessandro Rossi, il cui padre proveniva da Santa Caterina di Lusiana, sviluppò poi grandemente nella Pedemontana ponendo le basi dell’industrializzazione di tutto quel territorio. Siamo abituati a pensare ai nostri paesi, valli e montagne popolate di bovini, che fatichiamo ad immaginarceli invece invasi dagli ovicaprini, ma fu proprio su queste umili bestie che camparono per secoli le nostre genti, specialmente la capra, per cui la Val d’Astico deteneva il primato dell’allevamento nel Vicentino fino agli anni trenta dello scorso secolo.
Gianni Spagnolo
XXX-VI-MMXVI

  • In merito alla VACCA BURLINA, riprendo di seguito in estratto una monografia realizzata dall’Assessorato all’Agricoltura della Provincia di Vicenza, che illustra il progetto di reintroduzione di questi bovini nel nostro territorio effettuato presso l’azienda agricola La Decima di Montecchio Precalcino. Abitando in quei pressi, la cosa mi ha incuriosito e così ve la propongo.
La “Burlina” è una popolazione bovina autoctona del Veneto, che costituiva, fino al 1930 circa, uno dei rari esempi di razza da latte più diffusa negli allevamenti dell’Altopiano di Asiago, dei Colli Berici, dei Monti Lessini, del Monte Grappa, sia versante vicentino che trevigiano, (nel censimento del 1931 la consistenza raggiungeva i 15.000 capi in Veneto). Attraverso lo studio dei caratteri anatomici e morfologici, i confronti con altre razze e sulla base di notizie storiche, molti zootecnici hanno formulato diverse ipotesi in merito all’origine della razza Burlina, ovvero che derivasse dalle Frisone dello Jutland o che provenisse da est causa gli scambi che la Serenissima intratteneva con i Balcani. 
Una certezza è che nel 1800 esistevano nel territorio vicentino animali di razza Burlina con tutte le caratteristiche delle razze da latte alpine, come ad esempio la testa piccola, gli occhi sporgenti, estrema rusticità ed una notevole capacità di adattamento ai pascoli più impervi e “magri”, mantenendo comunque una buona capacità lattifera.

All’inizio del novecento e precisamente tra i due conflitti bellici mondiali all’insegna di un cosiddetto miglioramento del patrimonio zootecnico nazionale da Roma, precisamente dal Ministero dell’Agricoltura, giunse l’ordine tassativo dell’abbattimento dei razzatori burlini che stando agli ordini romani dovevano essere sostituiti da razzatori di razza Svitt o Bruna Alpina; Questo con l’intento di migliorare la produttività medesima. Nonostante ciò negli anni ‘30, alcuni allevatori determinati a conservare la razza Burlina, contravvennero alle disposizioni di legge, alcuni pagando anche con la prigione, perché non avevano provveduto all’abbattimento dei tori Burlini. 

Mario Rigoni Stern ne’ “Le Stagioni di Giacomo” racconta che le donne dei 7 Comuni, nel 1933, per riavere i propri mariti rinchiusi in prigione, scesero in piazza al grido “Viva Mussolini, Viva i tori Burlini”. 
Di fronte a questo insolito e furbo accostamento, neanche il fascismo tanto poté: grazie alla caparbietà degli allevatori del tempo la razza Burlina, pur registrando una notevole riduzione della consistenza numerica della popolazione, riuscì a sopravvivere. Un’altra tappa significativa della storia è costituita dalla Prima Guerra Mondiale che, combattuta sull’Altopiano durante la Strafexpedition nell’estate del 1916, costrinse gli allevatori allo spostamento di intere mandrie. Durante la Grande Guerra sull’Altopiano di Asiago, e non solo, la Burlina era quasi completamente scomparsa, talvolta si assisteva alla requisizione dei bovini per soddisfare le esigenze alimentari dei soldati, i quali, molto spesso provvedevano alla loro macellazione direttamente in montagna. 
Sul nome Burlina vi sono varie ipotesi: alcune attestano che il nome Burlina, come affermato dall’illustre studioso danese Johu Zimmermann il quale sulla base dei suoi studi storico geografici attesta che il nome della nostra vacca sia stato attribuito in parallelo nella figura della regina Burhlina regnante danese e proveniente dalle regione dello Jutland. Altre attestazioni vedono invece il nome Burlina derivare dalla forma cimbra che indicava la persona corpulenta con l’appellativo burly (corpulento); altri invece in maniera grossolana coniugano il nome Burlina con il particolare muggito della stessa in quanto il generoso apparato boccale ne amplifica il muggito medesimo. 
Dal latte della Burlina si ricavano i famosi formaggi Morlacco e Bastardo del Grappa, oggi riproposti come prodotti tipici del territorio.

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