martedì 30 aprile 2013

30 aprile 1945 --- sensazioni



Fumo che sale al cielo,
fumo grigio di case bruciate…
Odore di corpi bruciati,
occhi pieni di immagini scabrose…
sangue mescolato alla terra battuta della piazza…

Persone che si incontrano e si chiedono:
“Situ vivo? E la to faméja?”
Sguardi persi nel vuoto, 
persone come impazzite dal dolore
alla ricerca di un piccolo segno 
di riconoscimento dei propri cari...
Urla  disperate e pianti di mamme, 
spose, figlie e sorelle,
urla che riempiono l’aria che sa di morte…
e dopo tanti giorni
 ancora quell’odore di carne bruciata 
che si sentiva tutto intorno…

Poi il rito della sepoltura: 
64 bare allineate con all’interno poveri resti, 
a volte nemmeno sicuri …
tutti vestiti di nero, tutti a lutto, per sempre...

Incomprensibile furia umana,
inconcepibile strage di vittime innocenti,
impensabile il dolore dei sopravvissuti...

Queste sono alcune delle sensazioni 
che mio Papà, di 17 anni, 
scampato al massacro, 
mi ha sempre raccontato.

Ora, solo rispettoso silenzio, 
preghiera, pensieri, meditazione
e … 
basta, 
niente altro … 
non serve altro…



 Lucia Marangoni 
30 aprile 2013

lunedì 29 aprile 2013

La Centenaria di Pedescala

Un traguardo … non da tutti …


102 anni









E’ un avvenimento eccezionale arrivare a 100 anni, ma lo è ancor di più quando la qualità della vita è ancora buona: quantità e qualità sono difficili da trovare assieme. A volte, quando le persone anziane hanno problemi, il protrarsi degli anni, nonostante l’amore che li circonda, diventa una continua agonia per la persona stessa, ma anche per la famiglia che gli sta vicino. 



Luigia Gerosa di Pedescala, che il 3 aprile 2013 ha compiuto 102 anni, è una donna che vive ancora nella sua casa e, nonostante il bagaglio di anni, è presente e lucida. Attorniata dall’affetto dei suoi famigliari (ha avuto 5 figli, ora sono rimasti in 4), ma più di tutto grazie alla vicinanza del figlio più giovane  con la moglie e i due figli, si è sempre sentita al sicuro, curata, accudita, quindi mai da sola. Tutto questo le ha dato la tranquillità per  vivere serenamente le sue giornate. 
Luigia ha sempre avuto una grande fede che ha trasmesso a chi le è stato vicino: fede in Dio e nella Madonna, per questo lei tiene sempre in mano la corona del S. Rosario, che recita spesso. 
Il giorno del suo compleanno c’è stata una gran festa; tanti auguri arrivati da molte persone, la S. Messa celebrata da don Francesco Alberti parroco di Pedescala, con la vicinanza dei figli, dei nipoti, dei famigliari e delle persone del paese che hanno ringraziato insieme Dio del grande dono che Luigia ha ricevuto. 
Poi il rinfresco aperto a tutti per far festa alla più anziana del paese e anche del comune di Valdastico. Certo è che arrivare così a questa veneranda età è veramente un regalo immenso: poter ancora gustare le piccole gioie della vita, gli affetti profondi, vedere che le generazioni della sua famiglia continuano con nipoti e pronipoti, è veramente un desiderio che ognuno di noi vorrebbe cullare …. 
A Luigia quindi vanno gli auguri che i suoi giorni continuino a scorrere sereni e che sia sempre circondata dall’affetto dei suoi cari: credo sia una medicina preziosa e rara!                           


Lucia Marangoni



I "baldi Giovani" di San Pietro

Rosa Fontana di anni 95 (Rosina gala

ed Emilio Toldo (pierassa) di 93

sono le Persone più anziane che sono nate e che tuttora vivono a San Pietro.
Emilio è orgoglioso di "battere" il M° Carlo per 6 mesi... mentre Rosa "batte" la Maria Elisabetta Fontana (Maria di tutuì) per 8 mesi...
Arrivare a questa veneranda età in condizioni "discrete" è una grande fortuna.
Congratulazioni ed Auguri 
di... buon proseguimento... 
verso il traguardo dei 100...
Fontana Rosa classe 1918




Emilio Toldo classe 1920

domenica 28 aprile 2013

Indovinello

Chi indovina dove siamo?

La canzone del riscatto


PREMESSA 







Nel settembre dell’anno 1940 le due Frazioni di San Pietro e Pedescala, furono staccate dal comune di Rotzo e assieme agli ex comuni di Forni e di Casotto, andarono a costituire un nuovo comune cui fu assegnato il nome di Valdastico.

La delimitazione territoriale del nuovo comune si formò quindi dalla riunione del censuario dell’ex Comune di Forni, dall’ex Comune di Casotto (ricompreso tra la Val Grassa e la Val Torra) e da una parte del comune di Rotzo (ricompreso dalla Val Torra fino alla Val dei Cavalli) che le due Frazioni di San Pietro e Pedescala si erano portate in dote.

Con questa nuova delimitazione gli abitanti delle due frazioni si ritrovarono nel nuovo comune con tutte le loro proprietà private.

Rimaneva da stabilire cosa fare dell’esteso territorio montano, compreso le malghe, costituito dal Vecchio Patrimonio locato nel censuario del comune di Rotzo e il nuovo Patrimonio (acquisito nell’anno 1927) localizzato in Comune di Asiago.

Iniziarono da subito gli incontri e le discussioni, anche parecchio animate , tra la comunità di San Pietro e Pedescala da una parte e il Comune di Rotzo dall’altra, volta a definire la gestione di queste proprietà.

L’argomento era alquanto delicato poiché l’uso e le rendite di tale Patrimonio costituiva la fonte primaria per la sussistenza delle famiglie nelle rispettive comunità.

All’alba dell’anno 1948, si stavano prendendo delle importanti decisioni che potevano influire e perpetuare nel tempo sistemi di gestione non graditi da tutte le parti in causa.

All’esterno dei Palazzi dove si discuteva del futuro assetto di queste montagne, la popolazione insorse chiedendo a gran voce di essere partecipe nelle decisioni che implicavano la loro sopravvivenza anche nel loro nuovo Comune.

In questa situazione storica oggi pubblichiamo 
“La canzone del Riscatto” che l’esimio ufficiale postale di San Pietro, scrisse e fece appendere nei luoghi pubblici a difesa dei diritti conclamati.
  
P.S. Non trovando l’accordo, in seguito le parti Comune di Valdastico e Comune di Rotzo, si ritrovarono in Tribunale e dopo vari gradi di Giudizio, la causa terminò nell’anno 1967 con la tuttora vigente “Sentenza Terracina”.
Giorgio Slaviero


LA CANZONE DEL RISCATTO



Su Fratelli, su Compagni
su, insorgiamo affratellati
ci dan forza gli Antenati
a difendere il nostro suol

Sono nostre le montagne
le montagne degli Avi
su insorgiamo, su da bravi
per il diritto e per l'onor

Pel diritto calpestato
non siam vili, non ignavi
la fierezza degli Avi
ci sostiene e vincerà

Colla forza del diritto
il diritto sacrosanto
su leviamo il nosto canto
affrontiamo la viltà
Se il diritto, se le leggi
son derise, a noi ragione
colla forza e coll’unione
il diritto ci darà

Su Fratelli, su compagni
nella forza rinsaldati
I nostri Avi son tornati
Per difesa dell’onor

Su coraggio, su Fratelli
che nel giorno del riscatto
per noi torna il nuovo fatto
il trionfo dell’onor




Valdastico, 21 maggio 1948

Toldo Pietro  (Piero Posta)

sabato 27 aprile 2013

Nemo a funghi











Dei némo a ze sonà le quatro”...
Immancabile ogni volta dovevo svegliare il Socio, per fortuna era veloce a vestirsi e senza un minimo di colazione filava giù per le scale come un razzo.




Il paese era addormentato e una sottile brezza stemperava la calura di fine estate, la fontana della piazza ci salutava con il suo allegro gorgoglìo, fatto il pieno alle borracce, via di buon passo verso la Singéla

La scuola iniziava il primo ottobre e settembre era il mese dedicato alla ricerca di funghi: rossi, satéle, brise, fìnferli erano i nostri più cari amici, i posti sempre quelli, da cima Singéla fino a Camprosà sopra strada, al ritorno sotto strada o per il monte Cucco di Posellaro; qualche volta ci perdevamo, ma non in modo tragico, anzi ci ridevamo sopra. 


Una volta dopo aver vagato per ore senza sapere dove eravamo, sbucammo in una strada bianca, dovevamo decidere se andare a destra o a sinistra; una Ape car proveniva verso di noi, fermammo il mezzo e chiedemmo lumi al conduttore che ci indicò la direzione e dopo poco tempo ci ritrovammo a Mandrielle, circondati da soldati americani che giocavano alla guerra, in particolare restammo stupiti a osservare l’abilità di un tipo che lanciava la baionetta contro il portone della stalla delle mucche: ogni tiro la lama si conficcava nel legno, dimenticammo i funghi e la fantasia galoppò alla carica.



Non poteva essere altrimenti, ragazzi di undici, dodici anni cresciuti a indiani e pistoleri,  alla vista di tende, mezzi militari, armi di vario genere, soldati in assetto da combattimento, per noi era come essere al luna park. Chi non si ricorda verso la fine degli anni 60, dal Trugole si guardava verso il Toraro
illuminato a giorno, ci si immaginava la base militare con i suoi soldati e adesso gli vedevamo da vicino per la prima volta, adrenalina al massimo. Ma torniamo a quel giorno di caccia al porcino, una giornata strana e inconsueta ci stava aspettando, da subito notammo che qualche luce di troppo era accesa nelle case vicino alla macelleria dei Giacomelli e delle persone che si muovevano in modo frenetico verso via Giare, alla sera ci dissero che un giovane del posto aveva avuto un serio infortunio, difatti da quella notte la sua bellissima Alfa Romeo spider rossa non rombò mai più per le strade del paese. Alla sorgente prima del Sojo alto era ancora buio, dopo un piccolo sorso benefico alzai lo sguardo e scorsi due sagome simili a porcini di grossa taglia, incredibile, ma raccolsi due splendidi boleti proprio sopra la sorgente, un posto strano per la crescita di funghi, davvero strano. 


L’alba ci colse sulla cima della Singéla, la natura si stiracchiava e guardando verso la curva della Manetta notammo che una figura non conosciuta stava arrancando verso di noi. Decidemmo di aspettare il camminatore solitario, dopo poco con un passo felpato ci raggiunse, era Bepi Pretto (cagnéta) armato con la cicca pendente ci disse di non andare per funghi perché la luna non era buona. 

Io e Daniele ci guardammo, sorrisetto di convenzione e arrivederci all’amico Bepi. Naturalmente non bevemmo la sua storia e dandogli il vantaggio di due, tre minuti ci mettemmo sulla sua strada sapendo che l’amico era un


ottimo cercatore di funghi. Girata la val del Trugole ci tuffammo nel bosco del monte Cucco, con un occhio per terra e uno a Bepi che ci precedeva di cento metri, con curiosità notammo che ogni tanto si piegava a terra dopo aver preso un rametto di abete, 
scoprimmo meravigliati che con quel gesto copriva dei carpanotti, forse  per permettere la loro crescita di nascosto, raccogliendogli magari giorni dopo, più maturi e grandi. Apriti cielo, avevamo fatto bingo, seguendo la nostra guida fino alla malga Camprosà raccogliemmo una sporta di giovani e prelibati piccoli porcini, tutti nascosti abilmente, ma non certo allo sguardo di due piccole volpi.

So di certo che la faccenda fece il giro delle osterie e per un certo periodo stemmo alla larga dalla contrà Lucca, terra natia del nostro amico. Era bello andare a funghi a piedi da S. Piero, troppo bello, oggi tutti in macchina, l’esercito americano non bazzica più sulle nostre montagne, in compenso c’è l’esercito dei cercatori di funghi. Se penso a notti dormite nel bosco della Porta, solo per essere i primi a entrare in bosco, a funghi rossi buttati via a decine per far posto nella borsa a satéle e porcini, che tempi… 
Oggi per trovare un po’ di funghetti devo anche pagare… nato in piazza e vissuto in paese fino a trent’anni dovrei versare l’obolo al pari di un abitante di Chioggia,  ma per favore…
Piero Lorenzi

giovedì 25 aprile 2013

Gioco - le carte

Le OSTARIE de Pedescala


Nel secolo  scorso tante le “Ostarie” che  hanno fatto parte della storia del paese; ricordiamo quelle che per lungo tempo  lo hanno animato.

“AL CICLAMINO”   da“Providi”
“AL MONUMENTO”  dala Giovanéla (Ivone)
“AL GRILLO D’ORO” da Grijo
“AL BELVEDERE” dala Madalena “Barbina”
“AL CERVO”  da Tati

Ognuna di queste osterie aveva una sua particolarità, se da Tati si poteva guardare la televisione (cosa eccezionale!) e giocare a calcetto balilla,  Grijo e Providi  erano fornite di “corte delle bocce” che erano molto frequentate specialmente al sabato e alla domenica; le due che rimanevano, dala Giovanéla e dala Barbina il gioco più in voga era quello delle carte anche se, in tutte le osterie, le magiche carte giravano senza sosta fra i tavoli. Ma, il posto dove più ci si trovava per questo gioco, era senza dubbio dalla Madalena “Barbina” al Belvedere, dove si radunava il maggior numero di uomini, anche dai paesi vicini.

“ Nebbia bassa… sapore intenso di fumo, odore  di vino, pugni sui tavoli, imprecazioni e urli che si sentivano anche dalla strada….
Il gioco delle carte nell’osteria, era come un vortice che prendeva completamente i giocatori. La paròna andava avanti e indietro, tra i tavoli portando i quarti di vino e alla fine di ogni partita, il perdente pagava…
Attorno ai tavoli, qualche bocia che stava a guardare per cercare di capire mosse e segreti di quel gioco che tanti appassionava…
All’ora di cena, le mogli, stanche di aspettare, apparivano sulla soglia e cercavano di far opera di convincimento verso i propri uomini… convincerli a mollare tutto non era affatto facile! Briscola, chi fa più, chi fa meno, foraccio…
Le partite si susseguivano una dopo l’altra, si perdeva la misura del tempo… ancora una e poi un’altra… è l’ultima poi si va a casa…
Quante parole dette per dire!
Quando i tavoli, uno dopo l’altro si liberavano e l’osteria si svuotava, la calma tornava tra le mura intrise di fumo e nell’aria carica di quel sapore ormai perduto…
Ma la sera successiva, sarebbe stata un’altra serata dove le magiche carte avrebbero dato la speranza di vincere, avrebbero imprigionato tra le loro spire  i giocatori che con qualche lira in tasca avrebbero ancora una volta cercato di avere la buona sorte, in compagnia di un gioco che ad ogni partita è sempre diverso… le carte girano e non si sa mai dove si posa la fortuna....
Un’altrà particolarità di Pedescala era il gioco del “§inquilio”; nelle contrà o nelle piazze, gruppetti di donne si radunavano per giocare e passavano così i pomeriggi in compagnia…


Lucia Marangoni




Appuntamenti a Pedescala



mercoledì 24 aprile 2013

Il vecchio lampione


La fila di lampioni lungo la strada di periferia si faceva sempre più…lenta e la distanza tra un lampione ed il successivo si allungava mano a mano che quella strada si inoltrava tra i campi, dove l’erba era di quel verde che solo dopo le piogge di primavera è così lucente.

Ed eccolo l’ultimo lampione, proprio appena oltrepassato un incrocio: solo, di un colore che strideva tra le nuvole fiorite della stagione più attesa, grigio come un cielo triste di nubi non trafitte dal sole ma neppure gonfie di pioggia, grigio come stanze di case abbandonate da voci e grida di bimbi….grigio e solo!

Anche la luce della sua lampada era talmente fioca che pareva dovesse spegnersi da un momento all’altro; forse, nell’arrivare a lui, esauriva la sua forza e poi, tanto, a chi mai poteva interessare quella luce? Tutti transitavano velocemente lungo quella strada, anche se sterrata, e quasi tutti in automobile, e si sa bene che i fanali, nel buio della notte, illuminano ben più di un lampione mentre, con la luce del giorno, non ne serve davvero altra!

Lui però si sentiva solo, triste e pure abbandonato;  la sua vernice era screpolata in più punti ed era anche parecchio ammaccato: quanti sassi schizzati dalle ruote o lanciati dai ragazzi che lo sceglievano come bersaglio!

Ma già, neppure quei ragazzi, ormai, giocavano più: li vedeva sfrecciare in motorino e ne aveva un po’nostalgia…avesse almeno potuto piegarsi, come filo d’erba, e sull’erba lasciarsi cadere! Macchè, lo avevano infisso ben saldo nel terreno, e poi addirittura cementato, e la sua struttura metallica vibrava appena quando le folate di vento erano talmente forti da portare fino a lui il tocco dei rami degli alberi vicini, che, senza rendersene conto, lo accarezzavano con le loro fronde.

Ma lui, lui sì che se ne accorgeva, ed attendeva quei rari momenti per provare mille sconosciute sensazioni, e sperare. e sognare, senza sapere di farlo.

Nello scorrere dei giorni arrivò una sera di maggio; la lampada che si era appena faticosamente e fiocamente illuminata, d’un tratto si spense. Il lampione sentì subito il freddo strano del buio; senza la sua piccola luce non vedeva nulla, e la notte gli faceva pure paura perché, così, non l’aveva ancora conosciuta. Stava chiedendosi quanto avrebbe dovuto attendere per il sorgere del sole quando sentì un tremolio proprio lì, sulla sua lampada, un movimento trepido e strano, un sospiro leggero, e d’improvviso….ecco….una luce diversa, palpitante, che si muoveva ed assumeva forme dolci e vive.

Lui non capiva, non riusciva proprio a capire, finchè non udì una voce allegra e sorpresa: “…guarda, c’è un lampione alle lucciole, guarda lassù!... invece di scegliere siepi di campo e foglie di brughiera hanno preferito quella lampada per chiamarsi ed incontrarsi ed amarsi e vivere!”

Ed altrettanto d’improvviso il buio svanì: il lampione sentì, per la prima volta, il profumo delle rose di primavera che danzava nell’aria come farfalle e vide il pulviscolo dorato, lasciato dal sole, che scintillava nella notte.

E le stelle?  Le stelle parevano palpitare, e non solo sul tappeto del cielo, ma anche sulla lampada di un silenzioso, solitario, grigio ma finalmente tanto felice lampione di… periferia.


Ada Agostini

El deputato


Co l'era in fàbrica
el mancava spesso,
e quando el ghe zera,
l'era sempre al cesso.

Par lu, laorare
zera 'na soferensa
el le gà provà tute
pur de stare sensa:

Par cojonarlo
del so passato
i lo ciamava
el deputato.

Par qualche tempo
l'è stà anca in presòn
e lì el gà studià
la so situassiòn:

"Se me meto in lista
e me fasso votare,
gavarìa finìo
de tribolare."

Vardè, se votè
chel bruto mona,
ghin sarà uno de manco a Schio,
ma uno de pì a Roma.


Augusto Bertoldi

par rìdare e par pensàre...
parole sensa pretese...
grassie a chi le lese.
Gò scrito ste cassàde
par far do sganassàde,
le lesémo in compagnia
par schersàre in alegrìa.
Mai e pò mai gavarìa pensà 
che un'anima bona
le gavarìa publicà...

martedì 23 aprile 2013

L'oro, la bomba e il bosco proibito




Dove c’erano cantieri di lavoro con ruspe e varie macchine, ogni tanto c’eravamo anche noi. Il tam tam correva veloce e nel dopo scuola guardare il rullo o la macchina asfaltatrice intenta a sbuffare catrame diventava un passatempo, anche istruttivo. 
Quella primavera il nostro obbiettivo era la strada dei Costa, un cantiere di allargamento e asfaltatura era partito da poco e diversi operai locali si prodigavano a costruire il muro che dalla val dell’Orco scende verso il paese. 




Pietro Lucca ha posto questa targa nel punto dove c'era la galleria






Notammo subito che il muro avrebbe chiuso per sempre la galleria, fatta per cercare l’oro e dispiaciuti del fatto, per l’ultima volta ci avventurammo in quel budello buio. 

Si noti sul muro la targa


La galleria non era molto lunga, trenta metri di roccia umida e argillosa ci separava dal fondo,  che stranamente sembrava ricoperto d’oro. L’effetto ottico era dovuto dalle goccioline di umidità che ricoprivano la roccia, le quali, ricevendo una debole luce dall’esterno brillavano e ci illusero di aver trovato l’oro. Ricordo che con un po’ di emozione  toccammo quelle gocce d’acqua e delusi  tornammo fuori. 

Non eravamo del tutto usciti, che notai sulla mia sinistra, uno strano barattolo di ferro che spuntava dall’argilla, lo presi e fra lo stupore generale scoprimmo che era una granata, di quelle difensive della prima guerra mondiale. Subito il nostro spirito di avventura si mise a correre e il desiderio più grande fu quello di farla scoppiare, il problema era dove e come. Per fortuna ci venne incontro la sorte che vedendo la stupidità del nostro progetto, mandò un operaio del cantiere a risolvere il problema. Era l’ex panettiere del paese,  prese la granata e con un lancio (a dire il vero debole e pericoloso) la gettò sotto il ponte della val dell’orco con l’intento di farla scoppiare. Con le mani sulle orecchie attendevamo il rumore dello scoppio, ma... nulla di tutto questo, la faccenda si faceva sempre più pericolosa, adesso occorreva recuperare la bomba e “smaltirla” con un altro sistema. Tengo a precisare che dal peso e dalla qualità di conservazione, la bomba era certamente carica e pur sempre un oggetto da trattare con delicatezza.


Nel frattempo gli operai ci allontanarono in malo modo dalla zona, ma farla a noi indiani non era cosa da poco e ci appostammo nelle rive sopra la strada in attesa del seguito della faccenda. A quel punto il nostro intento era quello di recuperare il reperto bellico, lo sguardo non si staccava dalla zona del ponte e un piano di recupero era già in progetto. Non ci fu dato il tempo, Osvaldo prese di nuovo la bomba e la pose nel primo angolo del muro, subito dopo la valle, il getto di cemento la coperse e tutto finì. Quando passo di lì mi viene in mente sempre questo fatto e toccando il punto esatto dove dorme la nostra bomba, penso a quanto  siamo stati fortunati a vivere la nostra gioventù,  in un paese dove ogni giorno potevamo inventarci  un’avventura diversa.
bosco di Eraldo





Non contenti della fine dell’ordigno bellico ci buttammo al boschetto di Eraldo, una rupe ricoperta di aceri e carpini sulla sinistra della valle dell’Orco, sotto il capitello dei Costa. Quel giorno eravamo un po’ nervosi e ci sfogammo in un modo strano e fuori dal comune. Purtroppo in quei tempi si usava gettare l’immondizia nelle valli e nelle pozze abbandonate e anche la valle dell’orco non sfuggiva a questa usanza e ogni tanto si trovavano dei giornali con foto di donnine avvenenti, niente di scandaloso guardando i tempi moderni, ma tanto bastò. Dal nostro nascondiglio segreto prendemmo dei giornali, strappammo tutte le foto più “scandalose” e quando gli operai finirono la giornata il cantiere si ritrovò pieno di queste foto. La nostra vendetta era compiuta, non è dato a sapersi lo stupore degli operai vedendo un tale misfatto, so solo che noi indiani dela piassa ridemmo soddisfatti della nostra impresa. Il pomeriggio, passando in bicicletta e facendo finta di niente, vidi che tutto era sparito e tutto taceva. La cosa ci piaceva e tempo dopo, a cantiere finito, tutti gli alberi del boschetto di Eraldo si ritrovarono addobbati di foto di quel tipo. Per un certo periodo il luogo diventò la meta preferita dei nostri vagabondaggi.

Piero Lorenzi

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...