martedì 9 ottobre 2012

El persegàro de Coppi





“Jovàni sensa tusi” da Piovene, così mio padre chiamava un suo compagno di lavoro alla Lanerossi,  aveva il cannocchiale puntato verso il Còsto, la strada che dall’Altopiano di Asiago scende a tornanti discese e curve leggére fino a Caltrano  per poi proseguire verso la pianura. Seguiva in piedi la discesa di una corsa ciclistica che quell’anno passava dalle nostre parti e faceva una rudimentale telecronaca per chi gli era vicino e non poteva vedere così distante. ”I vien xò come sciopetà e in testa ghe xé na maglia verde” commentava con la voce eccitata dal momento e dal ruolo che aveva assunto, di cronista improvvisato. Doveva essere una corsa importante, una tappa del “Giro d’Italia” o il “Giro del Veneto” perché c’era tanta gente stipata sulla terrazza della casa che mio padre stava ampliando e che si affacciava sulla strada che da Caltrano, in salita, porta a Chiuppano. Parecchie persone erano appollaiate sul grande cartellone pubblicitario con il marchio della “Lanerossi”, una grande R rossa, piantato  sul ciglio  poco distante dalla casa. Qualche ardito si era arrampicato sui rami dei platani che in fila costeggiavano per qualche centinaio di metri quel viale polveroso e sconnesso. Mio padre era un po’ preoccupato che la terrazza, da poco costruita, potesse cedere sotto il peso di quei “ramenàti” e “tendeva”, cioè controllava che qualcuno approfittando della confusione non gli “fregasse” le fragole o le ciliegie in quei giorni, belle rosse, che tanto aveva curato e seguito. Lo inquietava anche il pensiero che nel “punaro”  tutte le “cioche” che stavano covando potessero “desbandonare el gnaro”,  disturbate dal frastuono e dalla confusione e che la “cavra” che era “piena, disperdesse”. Insomma, lui, più che i corridori aveva in mente la sua piccola economia domestica e certo la festa che doveva essere il passaggio di una corsa diventava un lavoro supplementare. Per l’occasione si erano affacciati sulla strada molti che di solito poco si vedevano fuori delle loro occupazioni quotidiane, presi dai lavori dei campi, dagli animali e dalle mille incombenze. Severino Balìn, Gabrèle e Gasparo dal Màjo, Cente , Giovàni e Tony da Bessè, Guerin Bacioni, Piero Alfiero, Tita Andrighetto e Doro dal Ponte  si erano uniti alla festa, confusi nella folla variopinta ed allegra. C’era gente da tutti i paesi vicini che assiepava la strada. Io ero piccolo, forse avrò avuto quattro, cinque anni, ma mi ricordo abbastanza bene del trambusto di quel giorno. La testa della corsa  era preceduta da un corteo di macchine pubblicitarie, di moto e di polizia che passavano tra le ali di folla e distribuivano oggetti e volantini  gettati casualmente sulla gente. Appena qualcosa veniva gettato si faceva una ressa forsennata, col rischio, per qualcuno, di essere arrotato dalle macchine della carovana. Volavano scatolette, caramelle, formaggini,  bibite in lattina, penne, biscotti, berretti e quant’altro. Era una sagra per tutti e i più scalmanati sapevano gettarsi dove pioveva quel ben di Dio. Mio padre aveva il suo bel da fare per controllare, altro che penne e biscotti, aveva un diavolo per capello, rosso “imbrasà”. “Bisògna ca stae ténto parchè no i ghin combine qualche d’una de bona” continuava a ripetere buttandosi di qua e di là. Passata la fiumana delle macchine e delle scorte, cominciavano ad apparire i primi corridori, alla testa del gruppo. Avevano maglie rosse, gialle, verdi, con scritte Legnano, Bianchi, Faema, San Pellegrino ed altre in uno sciame colorato e confuso.  Passavano lenti su per quella salita a buche e polvere e la folla poteva ben scandire i nomi di chi ansimava dallo sforzo. C’erano scritte sui cartelli e sulla strada con i nomi dei corridori, spesso con la n e la z malamente “roverse”.” I scoréda dalla fadiga” commentò rozzamente un uomo accanto a me. Sentii un lieve disagio a quelle parole, anche perché vidi in quel momento un corridore accostarsi ad un albero ed orinare in fretta bagnandosi le gambe. In effetti lo sforzo era tanto su quelle biciclette pesanti da spingere su quelle strade.  Magni, Nencini, Baldini, Anquetil, Milano, sfilavano tutti i grandi in mezzo ai gregari e alla polvere. ”Jovàni sensa tusi” continuava la sua cronaca bislacca e stramba, citava nomi di corridori, maglie pubblicitarie, mi sa anche inventandosi qualcosa, pareva Mario Ferretti quello che in televisione commentava il “Giro d’Italia”.  Nella discesa del Còsto per proteggersi dall’aria fredda si erano sistemati sotto la maglia una pagina di giornale che ora nella salita cercavano di togliersi perché lo sforzo  li scaldava. I corridori a quei tempi passavano per i paesi e gli scenari erano un po’ questi tra folle di tifosi e galline che tagliavano la strada, tra sbarre abbassate dei binari abbassati e mucche o pecore che tranquillamente invadevano la carreggiata. C’era anche chi si preoccupava di dare conforto ed acqua a quei poveri atleti, ma non sempre erano ben accetti. Si racconta che in un giro d’Italia, inizio anni ’50, quando ancora correvano Coppi e Bartali, Bepi Federle si fosse preparato una pompa per annaffiare i corridori. Non la classica secchiata e via, proprio una cosa industriale. Bartali alla vista di tanta abbondanza si dice abbia estratto la pompa per gonfiare e sferrato una randellata al generoso Bepi. Altri più brutalmente narrano che Bepi si prese un calcio nelle “balle”. Erano storie che alimentavano i miti e che per anni trattenevano nei paesi quegli eroi che sennò passavano troppo in fretta. C’era anche chi si preoccupava di spingere alla vista di tanta fatica, ma capitava anche che il malcapitato preso di mira dal gesto di generosità finisse per terra. Un anno, al passaggio del Giro d’Italia, i corridori si fermarono a dissetarsi sulla fontana che zampillava vicino all’”Osteria dalla Pipa” a Chiuppano. Dei corridori invece si precipitarono dentro alla “Trattoria alla Riva” e mio padre si ricordava che tra quei corridori c’era Serse Coppi, il fratello del grande Fausto. Erano storie e leggende qualche volta gonfiate dalla fantasia che facevano delle corse un avvenimento che movimentava i paesi ancora coricati sui ritmi lenti e pigri degli anni che precedevano quelli del “Boom”. Erano occasione di festa e di allegria e di esse si parlava nei giorni dell’attesa  riempiendo di particolari i giorni a seguire. Anche un semplice gesto, un piccolo oggetto conquistato diventavano storia e memoria. Mi raccontava un mio amico di Caltrano che in un passaggio per il paese di una corsa agli inizi degli anni ’50 vi erano i grandi di sempre: Coppi  e Bartali, Magni ecc…. Coppi se ne scendeva mangiando “un persego” e all'altezza del cimitero gettò l’osso sul ciglio della strada. Seguì la scena un tifoso individuato poi nella persona di Damiano Sola. Damiano in un gesto che racchiudeva tutto il sentire e la poesia di quei tempi raccolse “l’osso” e lo piantò nel suo orto. Crebbe una pianta che diede per anni buoni frutti ; attraversò i decenni e vide il cambiamento di paesi e di persone. Purtroppo fu sacrificato nel 2005 per far posto ad una casa senza poesia e senza mito. Una fine triste, anche questa specchio  dei tempi che stiamo vivendo. Parlando un giorno con chi conosceva meglio la storia, era tutto confermato fuorché invece di Coppi il corridore pareva essere stato Magni. Altro grande della storia del ciclismo. Non importa che fosse Coppi o Magni, rimaneva questa tenera storia che volevo non fosse persa tra le pieghe del tempo che passa. Mio padre invece ricordava che quella volta che aveva concesso la terrazza per vedere meglio la corsa, qualche “ramenato gli aveva spaurà la cavra” la quale uscita nell’orto gli aveva mangiato quasi tutte le fragole comprese le piante e che il  cartellone pubblicitario con la scritta Lanerossi era crollato sotto il peso dei “sbregamandati” arrampicatisi fin lassù. I pezzi di legno, poi, finirono a fare da tetto al cesso di “canari” che in quel tempo avevamo su un angolo dell’orto. Restarono là per anni finché il nuovo gabinetto con l’acqua calda e fredda sul lavandino , orgoglio e vanto di mia madre, sarebbe stato la frontiera moderna che cancellava il vecchio. Il giro era tutto questo, portava una ventata di novità e di allegria anche a chi come mio  padre si  affannava a controllare che non gli “netassero l’orto”, come una tempesta “de majo”. Nonostante “la tendita”, “el panseta da Carrè”, finché mio padre si era “imbaucà” a seguire la corsa, gli aveva “netà su la siaresara ”.Ricordavamo insieme queste storie e ne ridevamo volentieri. Era un’altra Italia, che ancora si appassionava per le gesta di atleti  che faticavano, combattevano, ma in fondo erano ancora uomini, anche se poi si chiamavano, Coppi, Bartali, Magni ecc… e andavano su fino a sfiorare il cielo…per entrare nella storia, passando per paesi, rotaie, salite e leggende.


                                                                    Maurizio Boschiero

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