mercoledì 31 gennaio 2018

Baise-Singela-Strada dei Casteleti-Fratoni-Val dei Mori-Strada dele Nore-Baise











Capitelo
Capitelo de Daniele Lusso
Madonina soto al Sojo Alto
Baito dei Bonati
Una preghiera per Yankee, amico delle montagne
Capitelo de Sant’Antonio de Minai
Indicassion su un fagaro (Riccardo Stefani ne sai qualcosa?)
Visuale dall’Ara de Nosente
Vanità canina.

Alessandro Toldo African

"LA FILANDA" si esibisce alla Casa di riposo di Brancafora

Una volta l'anno non mancano mai di regalare un pomeriggio alternativo agli Ospiti che gradiscono molto, seguendo attentamente. Un repertorio vario ed orecchiabile eseguito con passione e professionalitá. 
Veramente molto bravi!
Un tango "fuori onda", ballato con lo stile dei Cavalieri "di una volta" è stato la ciliegina sulla torta!...

Se a qualcuno può interessare... Odette segnala


Gen 29, 2018
AAA cercasi 289 assistenti di lingua italiana all’estero. Il bando del MIUR
Per un anno scolastico intero chi si aggiudicherà il bando affiancherà i docenti di lingua italiana presso gli istituti scolastici stranieri. C'è tempo fino al 10 febbraio per partecipare
Hai meno di trent’anni? Hai una laurea magistrale con almeno due esami di lingua o letteratura o linguistica di un Paese straniero? Allora puoi pensare di diventare un assistente di lingua italiana all’estero. Il ministero dell’Istruzione sta cercando 289 figure da inviare in Austria, Belgio, Francia, Irlanda, Germania, Regno Unito o Spagna.

Ogni anno, infatti, gli uffici di viale Trastevere gestiscono lo scambio di assistenti di lingue tra il nostro Paese e alcuni Stati europei con lo scopo di promuovere e favorire la diffusione delle rispettive lingue e culture. Per un anno scolastico intero chi si aggiudicherà il bando affiancherà i docenti di lingua italiana presso gli istituti scolastici stranieri e, analogamente, un contingente di assistenti provenienti dai Paesi partner svolgerà lezioni in compresenza con il docente di lingua e cultura straniera nelle scuole italiane selezionate d’intesa con gli uffici scolastici regionali competenti.

I requisiti e le date da ricordare

La domanda va compilata online entro il 10 febbraio e tutte le informazioni e le indicazioni utili sono reperibili nella sezione dedicata del sito del MIUR (qui tutte le informazioni). Tra i requisiti fondamentali per la partecipazione c’è la cittadinanza italiana; il non aver compiuto il trentesimo anno d’età; non essere già stato assistente su incarico del ministero; essere libero da impegni relativi agli obblighi militari e da rapporti di impiego o di lavoro con altre amministrazioni pubbliche. Ma non solo: chi punta a diventare assistente deve aver sostenuto due esami nelle materie sopra indicate, e altri due relativi alla lingua o alla letteratura o alla linguistica nei settori tecnico scientifici indicati nel bando .
Una notizia positiva è che per tutti gli assistenti è riconosciuta una borsa di studio di importo variabile da parte del Paese ospitante. Una bella opportunità per i giovani che vogliono sperimentarsi, lasciare per un periodo l’Italia, mettersi alla prova in un’altra realtà mettendo a disposizione le proprie competenze e conoscenze acquisiti nel sistema d’istruzione italiano

martedì 30 gennaio 2018

Questa costruzione si trova a Piovene in Via Libertà, ma passa abbastanza inosservata, io la ricordo come Castel Manduca, posso sbagliarmi?








Quest’edificio costruito intorno alla metà dell’Ottocento venne realizzato su progetto dell’architetto Antonio Caregaro Negrin. Antonio Caregaro Negrin, architetto di fama e molto in voga all’epoca, venne incaricato nel 1853 dal nobile Fraccaroli e dalla moglie Verlato di costruire un palazzo, che doveva avere tre piani, numerose finestre, delle torrette e doveva spiccare per eleganza.

Le notizie e la sua storia si interrompono nella seconda metà dell’Ottocento come pure la volontà degli antichi proprietari di portare a compimento questa dimora che sarebbe stata di certo fuori dagli schemi ed estremamente pregiata. Le cause di non dare seguito ai lavori sono dovute probabilmente ad un trasferimento della famiglia a causa dell’epidemia di peste, o da attività lavorative lontane, o da una probabile unione in matrimonio risolutrice causata dall’arrivo imminente di un figlio.

Non fu finito in effetti per ragion che rimangono abbastanza misteriose, la leggenda narra che il nobile fosse appassionato di magia nera e che, durante i lavori di costruzione dell'edificio, una bambina morì colpita da una trave che stava per essere issata. Secondo alcuni il fantasma della bambina aleggia ancora da queste parti senza trovare pace tanto che questo palazzo in paese è conosciuto da tutti come il "castello degli spiriti".
Particolarità:
Se si osserva la facciata di Palazzino Fraccaroli, si possono facilmente notare alcune mensole di pietra rette da statue con fattezze diaboliche nella parte centrale della facciata fronte strada, appena sopra gli archi delle 3 porte. Queste grottesche figure altro non sono che semplici contrafforti, anche se secondo la leggenda sarebbero state collocate in determinati punti della costruzione, per tener lontane le energie negative dalla casa e dai suoi abitanti.

Durante la prima guerra mondiale venne adibito a usi militari, ma la guerra era vicina, Piovene venne bombardata, gli stabilimenti del Rossi distrutti e la popolazione evacuata. Alla fine della guerra l’ala sinistra era distrutta.

lunedì 29 gennaio 2018

Consiglio Comunale


‘I nostri servizi sanitari a rischio, ma nessuno vuole denunciarlo. I cittadini devono saperlo’




I  politici bassanesi alzano la voce e battono i pugni. 
L’Alto Vicentino tace e subisce.

“Disservizi e mancanza di professionalità di primo piano, primari inclusi”. Secondo Carlo Cunegato capogruppo di TesSiamo Schio in consiglio comunale, è quanto ha rilevato la Commissione Sanità di Schio che però, a oggi, non ha reso pubbliche le sue analisi.

Lo sostiene (ed è disposto a fare battaglia per rendere pubblici i risultati derivanti da confronti e analisi) l’ideatore della commissione stessa, e proprio Cunegato invoca responsabilità da parte degli altri membri e del mondo politico, che a suo dire dovrebbero divulgare quanto scoperto e, soprattutto, correre ai ripari. Parlando di primari che non ci sono, di professionisti andati in pensione e mai rimpiazzati, Cunegato ha spiegato: “Se Bassano si muove perché manca un primario, a Santorso la situazione è ben più grave. Manca il primario di ortopedia e per ora c’è solo un facente funzione. Manca da molto tempo  il primario di geriatria, con un facente funzione in servizio da 2 anni. Lo stesso accade per oculistica, che rimarrà senza direttore a Santorso, perché è stata scelta la direzione del primario di Bassano. Per quel che riguarda dialisi e  urologia i primari sono di  Bassano, in psichiatria c’è il facente funzioni a Santorso, ma la direzione è di Bassano”.

La decisione del consigliere scledense di spingere a rendere noti i risultati ottenuti dalla Commissione, arriva di seguito alla critica mossa alla ex Ulss 4 da parte del gruppo del sindaco di Bassano Riccardo Poletto, che ha accusato l’Ulss Alto Vicentino di usare i soldi bassanesi per pagare il project financing.

“Nel Bassanese la politica sta  giocando un ruolo assai diverso rispetto all’Alto Vicentino – ha commentato Carlo Cunegato – Sono preoccupati del rilancio dell’ospedale e lavorano insieme ad una cordata di imprenditori che nel tempo hanno donato e offerto macchinari e collaborazioni, che tengono vivo il rapporto e le collaborazioni. Questo significa farsi valere, mostrare interesse, chiedere ed esercitare pressioni, ovvero innescare una dialettica positiva con la direzione, perché i problemi vengano risolti al più presto”.

Continua Cunegato: “Per quanto riguarda la situazione dei servizi territoriali: è andato in pensione il responsabile del servizio di neuropsichiatria infantile e ad oggi non è stato sostituito. E’ andata via un’altra dottoressa dalla neuropsichiatria infantile e non è stata sostituita.  Un servizio di fondamentale importanza, con tutti i problemi dei bambini e dei nuovi bisogni, senza i neuropsichiatri è drammatico. Dopo  un anno è arrivato da poco lo psicologo del Centro di salute mentale di Thiene, mancano  gli psicologi ai consultori di Thiene e Schio e manca lo psicologo della tutela minori di Thiene.  Infine non è stato sostituito il primario del Serd, dove per ora c’è un facente funzione e pare che ne assuma la Direzione quello di Bassano”.

La Commissione Sanità, richiesta da Carlo Cunegato e approvata in consiglio comunale, con lo scopo di osservare da vicino che cosa succede nell’ospedale di Santorso e garantire ai cittadini sicurezza nel comparto sanità. Commissione che non era nata sotto la migliore stella a causa di divergenze di opinioni sulla presidenza, affidata a Marco Tolettini. Una nomina che aveva deluso Cunegato, che aveva denunciato il timore di non riucire ad avere una commissione sufficientemente libera e capace di denunciare eventuali mancanze o disservizi. “Quando un anno fa, di fronte ai rischi della fusione per  incorporazione del nostro ospedale con il San Bassiano, manifestammo le nostre paure, qualcuno disse che eravamo dei  sobillatori. Da una mozione di Tessiamo Schio è nata l’unica commissione di studio e ricerca sull’evoluzione della sanità nel vicentino. Tuttavia la maggioranza di Orsi, per meglio controllare il processo, ha voluto dare la presidenza a Forza Italia. L’obiettivo della commissione, per come la avevamo proposta, era esercitare una sana pressione nel caso ci fossero dei disservizi o dei problemi. Ci troviamo da Maggio 2017 ma, nonostante la nostra sollecitazione, niente è stato ancora reso pubblico. Spero e confido venga fatto al più presto. Non voglio tradire il lavoro di squadra fatto e quindi non dirò nulla di quanto emerso in quel contesto, ma ritengo doveroso rompere questo silenzio e rendere pubbliche alcune inaccettabili deficienze. Questo silenzio è assordante – ha concluso Carlo Cunegato –  
La denuncia  e la critica non sono fine a se stesse, ma servono per sollecitare una soluzione rapida, perché con la salute dei cittadini non si scherza. Non possiamo assistere al depauperamento dei nostri servizi sanitari e tacere”.

Anna Bianchini AVOL

Perchè non ci ribelliamo più?



"Mi chiamo Irene, ho 26 anni e sono un'architetta. Mi sono ‘licenziata’ da uno studio in cui ho lavorato nove mesi, quando ho capito che stavo per perdere la dignità, facendomi trattare come un’incapace che non avesse voglia di lavorare. Ho messo le virgolette perché per licenziarsi si dovrebbe avere un contratto, utopia in uno studio di architettura, in cui al massimo si può scegliere se essere un ‘dipendente con partita Iva’ o un ‘collaboratore occasionale’, così occasionale da lavorare minimo otto ore al giorno tutti i giorni".
"Vivevo così male in quello studio che passavo le mie serate a mandare curriculum e ho fatto vari colloqui. Sono arrivata quasi a divertirmi, quando, in sede di colloquio, oltre al chiedermi se sono sposata (ma queste storie le abbiamo già sentite da molte altre...) un architetto è arrivato a chiedermi se vivo da sola o con i miei genitori, sostenendo che ‘alla fine se vivi con i tuoi che spese vuoi avere…’: dialogo che mi ha lasciata talmente attonita da non riuscire nemmeno a rispondergli. E’ impensabile immaginare che una persona a ventisei anni voglia crearsi una vita?".
"Ma il punto è che oramai è diventato così normale che ci siamo abituati, perché si sentono storie di ragazzi che lavorano gratuitamente, quindi bisogna ‘ritenersi fortunati di poter lavorare, almeno si impara qualcosa’. E’ diventato talmente normale che ci sentiamo in dovere di ringraziare che ci venga offerto un lavoro, come se ci venisse fatto un piacere e non fossimo noi a fare un piacere a loro, lavorando per pochi euro al giorno".
"Ci siamo dimenticati che il lavoro è un nostro diritto, così come è un nostro diritto andare a fare una visita medica o prenderci un giorno di ferie, così come sposarci o fare dei figli: stiamo abbandonando dei diritti che sono stati conquistati con fatica dai nostri genitori, perché non siamo più in grado di ribellarci. Quale sarà il prossimo diritto a cui rinunceremo? I nostri figli quali altri perderanno?".
"Se tutti coloro che lavorano in situazioni simili alla mia, o peggiori, un giorno smettessero di lavorare, chi porterebbe avanti il lavoro che stanno facendo? Come farebbero senza di noi? Dobbiamo renderci conto che siamo indispensabili, ma soltanto se siamo tutti assieme, perché se io smetto di andare a lavorare, il giorno dopo il mio capo ‘ne trova altri dieci fuori dalla porta’, come mi sono sentita rispondere molte volte".
"Qualche tempo fa un’amica mi disse: ‘Organizziamo la rivoluzione!’. Mi venne da sorridere come se mi stesse chiedendo un’assurdità, come se parlasse di una cosa anacronistica. Mi chiesi perché oggi non facciamo più sentire le nostre idee: siamo diventati forse la generazione dei non-coraggiosi? Ringrazio mio padre di avermi trasmesso la voglia di dire la mia opinione, pur non sapendo se avrà qualche esito. Non importa, mi dico, e mi cresce la voglia di lanciare un appello: 
"facciamola davvero la Rivoluzione!".
Irene Meneghelli web 
(segnalato da Odette

Assemblea annuale Alpini gruppo di S. Pietro


Non so voi, ma io mi sento sempre di più "in man dela pòja" su ogni fronte...


Non sono piú tra noi



domenica 28 gennaio 2018

Sangue italiano - cuore celeste e bianco




Qualche giorno fa in un articolo di "Carriolante" c'era scritto: "Prendre tout a la rigolade" quello che vedo da una decina di giorni nelle vie principali di Cordoba (Argentina) corrisponde benissimo a questo detto, solo che qualche volta le cose sono più serie e possono avere delle conseguenze nell'avvenire di un paese.
Ho letto che sono 75 le sigle di partiti riconosciuti per le prossime elezioni politiche. Non so se il partito (USEI) ne faccia parte però fino ad oggi é il solo che si vede sui tabelloni della città. Sicuramente che all'approccio delle elezioni, altri partiti si faranno vivi, in Sud America come pure dappertutto dove ci sono Italiani.
Siamo 4,3 milioni di Italiani iscritti a l'AIRE forse più (Comune di Valdastico + di 500) con diritto di votare, quasi sempre il risultato elettorale degli emigranti è determinante per la formazione della maggiranza parlamentare, perciò é una cosa seria, é difficile fare capire al cittadino che vive in paese oppure in una città italiana le ragioni del voto dell'Emigrante. Molti di questi, sono discendenti da Italiani che richiedono la nazionalità italiana, perchè sentono l'amore verso il Paese dei loro nonni, ma anche il desiderio di avere quel passaporto (Europeo) che permetterà loro di viaggiare più facilmente. Il nome di questo partito (USEI) non vorrei prenderlo con derisione, anche se per noi Veneti può prestarsi all'ironia... altri partiti si manifesteranno, ognuno con il suo programma, però penso che la maggioranza dei cittadini Italiani residenti in Italia non conoscano i problemi degli Emigranti, come pure noi Emigranti non conosciamo tutti i problemi dei connazionali residenti in Italia. Quando penso agli Emigranti, oppure ai figli di questi che per amore del Paese vengono tutti gli anni, mantengono il decoro delle loro case, spendono i loro soldi, pagano le loro tasse normalmente, fanno in modo che il Paese viva, e malgrado questo... qualche volta sorgono delle incomprensioni!!! Leggo con grande attenzione il Blog perchè mi interesso alla vita del Paese, però sul voto degli Emigranti, sia communale che politico, c'é una crepa che si é formata e forse fa comodo a certi poteri. In tutti i casi, tanti auguri per una buona caccia al voto.
Giulio Lucca Parigi
NB: Sangre Italiano corazon celeste y blanco == Sangue Italiano cuore celeste e bianco

Una musica che viene dal cuore

La farina. Mi ci sporcavo sempre. A mia nonna restava attaccata sul grembiule. Ci rimaneva per ore. Toccare la pasta non mi era permesso. Potevo solo toccare la farina in un angolo della tavola di legno. Farina e acqua, niente più. Mia nonna invece faceva la pasta, quella vera. Il rito era sempre uguale. La tavola di legno veniva estratta da sotto il tavolo. Si fissava bene. Sopra al tavolo erano pronte: uova, farina, un bicchiere con un po’ d’acqua, una ciotola con del sale. Era sempre di domenica. Domenica d’inverno cobalto, dura come il freddo che scendeva a gelare tutto, a coprire con il suo ghiaccio anche i più piccoli fili d’erba. Tutto pronto. Il matterello consumato di generazioni di bisnonne al lato del tavolo. Tutto pronto dunque. Un bel mucchietto di farina sulla tavola e un bel buco in mezzo scavato con le mani. Il suono delle uova che si rompono e dolcemente affondano nella farina. Una forchetta anche, l’avevo dimenticato. Una forchetta per sbattere le uova, un pizzico di sale, un goccio di acqua. Appena appena quel tanto che basta per ammorbidire la pasta. La delicatezza delle mani nel spingere la farina a poco a poco e l’impasto. Le mani che si appiccicano sulla pasta che piano piano comincia a formarsi e continuando a lavorare la fanno diventare liscia. Quelle mani. Le mani di mia nonna, scarne, che sembrano pronte a cedere da un momento all’altro con quella fede di un matrimonio che fu, che si intravede tra gli stracci di pasta e il bianco della farina. Mani che lavoravano l’impasto con una tale poesia che non ho mai più visto. Mentre la pasta riposava, sempre se non avevo combinato qualche guaio potevo usare il matterello, per stendere la mia piccola pallina di impasto fatta solo con acqua e farina. Le uova costavano e non potevano essere sprecate. Mia nonna mi spiegava come girare il matterello. Ci mettevo tutto l’impegno del mondo, perché mia nonna era una  tosta e voleva sempre che le cose venissero fatte bene. E soprattutto doveva essere sempre tutto pulito e organizzato. Poi il matterello lo prendeva lei. E allora era una musica. Era come se la migliore orchestra del mondo suonasse la musica più bella del mondo. Non l’ho mai detta a mia nonna questa cosa. Era una musica bellissima. Quando era lei a stendere la pasta ad ogni tocco la pasta toccava la tavola di legno e usciva dal matterello con un rumore che in dialetto si chiama ‘lu schioccu’. Quando aveva raggiunto la giusta rollata la pasta era fina, stesa bene e pronta. Allora si decideva se fare i tortellini o i ravioli o i maltagliati o, più spesso, le tagliatelle. Si arrotolava la pasta e si tagliava col coltello. Si stendeva sulla tavola con un pizzico di farina. Quello era il mio ruolo, spargere il pizzico di farina sulla pasta per non farla attaccare. Quando sono diventata grande abbastanza ho potuto fare anche io finalmente la pasta, passando prima per l’impasto, la stesa, la chiusura dei tortellini, e il taglio delle tagliatelle rigorosamente a mano e col coltello. Così quando i giudici di MasterChef Professional in Uk mi hanno chiesto perché non avevo usato la macchina per fare le tagliatelle, io non ho avuto il coraggio di dirglielo. Non sono riuscita a rispondere che una macchina per fare le tagliatelle non solo non l’avevo mai usata, ma forse nemmeno mai vista. Perché per fare la pasta ci vuole la musica, non una macchina, ma la musica. Una musica che viene dal cuore.
simpatica storiella che anch'io ho vissuto
trovata nel web

Blasoni inviati da Ody



sabato 27 gennaio 2018

Il giorno della memoria


RICORDARE IL GIORNO DELLA MEMORIA CONTINUANDO A COMMETTERE GLI STESSI ORRENDI CRIMINI E' SEGNO EVIDENTE DI UNA ENORME IPOCRISIA MONDIALE. LE PAROLE E LE FRASI CHE ESCONO DALLA BOCCA DI CHI HA IL POTERE DI DECIDERE, SUONANO COME BOMBE ATOMICHE NEL CUORE E NELL'ANIMA DI CHI STA SUBENDO CONSEGUENZE DI ORRORE E DI MORTE. 
QUESTA GIORNATA ABBIA UN VERO SENSO PER TUTTI. 
(Enrico Galimberti)


Terezin è un villaggio a 60 Km da Praga. 
E’ diventato tristemente famoso poiché fu trasformato in un ghetto dove venivano raggruppati i bambini ebrei prima di essere smistati nei vari campi di sterminio.
Nel ghetto di Terezin fu concentrato il maggior numero di prigionieri-bambini, compresi i neonati. 
I bambini di Terezin scrivevano soprattutto poesie.
Dei 15.000 bambini transitati per il campo di Terezin se ne salvarono meno di un centinaio: la maggior parte di essi morì nel corso del 1944 nelle camere a gas di Auschwitz.
Ariella Rossi-web 



Filo Spinato
Su un acceso rosso tramonto,
sotto gl'ippocastani fioriti,
sul piazzale giallo di sabbia,
i giorni sono tutti uguali,
belli come gli alberi fioriti.
E' il mondo che sorride
e io vorrei volare. 
Ma dove?
Un filo spinato impedisce
che qui dentro sboccino fiori.
Non posso volare.
Non voglio morire.





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Per non dimenticare




Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte. 

Quando ci chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da buttare. Era un momento terribile. Bastava un cenno ed eri salvo, un altro ti condannava. Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti a due SS e a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata. Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la loro coscienza. Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che voleva dire “avanti”, ed eri salva. Io pensavo solo a questo quando ero lì, a quel cenno. Ero felice quando arrivava, perché avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere. Ricordo la prima selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice. «Forse mi manderà a morte per questa…» pensai e mi venne il panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma, cercando di restare calma, risposi che ero italiana. Trattenevo il respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile. Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità.”


Tratto da "Fino a quando la mia stella brillerà", di Liliana Segre


                          Se Dio esiste, dovrà chiederci perdono (scritto su un muro di Auschwitz)




C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
Schulze Monaco
c’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald
più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald
servivano a far coperte per i soldati
non si sprecava nulla e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas
c’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald
erano di un bimbo di tre anni
forse di tre anni e mezzo
chissà di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto
lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini
li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perchè i piedini dei bambini morti
non crescono
c’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald
quasi nuove
perchè i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.

di Joyce Lussu



La mia odissea

Dino Faccio era una persona mite, buona e solare; l'ho sempre chiamato zio anche se non c'erano legami di sangue, ma lui aveva condiviso con mio papà i primi anni di militare quando, con la banda accompagnavano al fronte i soldati. 
Fatti prigionieri, son stati separati, e lo zio Dino è finito ad Auschwitz! Al ritorno è entrato a far parte del corpo bandistico di Dossobuono (VR) e scriveva poesie nel suo dialetto, come quelle raccolte in questo testo. Come abbia fatto, dopo tale esperienza, a rimanere l'uomo che io ho conosciuto, mi rimane un mistero o forse un regalo delle vie infinite della Vita. Nei primi anni '60 è venuto alla ricerca di mio papà: non avevamo più avuto contatti reciproci. Presentatosi nel cortile di casa, come mi raccontava mia mamma (io non ero ancora nata), ha chiesto se Lovato Gugliemo era vivo, e lei che non sapeva chi fosse e con il suo spirito gli ha risposto... "A meno che non sia morto in questo momento, gli ho appena portato il caffè sù nel Marascion: sta potando le viti." E lo zio Dino si è messo a piangere...
E poi Gugliemo e Dino non si sono più separati!
Irma Lovato Serena

Il giorno della memoria “corta” – l’olocausto indiano che nessuno vuole ricordare




Ma noi vogliamo ricordare anche un altro genocidio volutamente dimenticato, infatti nessun telegiornale di regime ne parla, né tanto meno si sente parlarne nei nostri libri di storia usati a scuola o sarebbe il caso di chiamarla “sQuola”.

Perché il massacro dei nativi americani non viene ricordato?

Forse perché non fa notizia? Non frutta soldi? Non sono stati scritti diari delle memorie in merito? O forse perchè gli stessi che domani verseranno lacrime per le vittime dei campi di sterminio nazisti, sono gli stessi che qualche generazione fa portarono morte, abusi e violenza, laddove regnava un popolo LIBERO
Un popolo senza prigioni né delinquenti, un popolo in armonia con la Natura…
Vi riporto una testimonianza scioccante:

Il massacro dell’Acqua Azzurra

“Vedevo gli indiani che cercavano di fuggire in tutte le direzioni, trascinandosi bambini, donne sanguinanti, uomini già chiaramente morti, ma che le loro squaw non volevano abbandonare…

La Cavalleria sopravveniva alle loro spalle e li spingeva verso i soldati appiedati che tiravano su di loro con calma, caricando e ricaricando a turno i moschetti… Quelli che riuscivano a fuggire, venivano inseguiti e finiti dai dragoni a cavallo…

I guerrieri cantavano il canto di guerra e si lanciavano contro i soldati, cadendo dopo pochi passi tra pallottole che ronzavano dappertutto come vespe furiose…
Cinque figure accovacciate sotto un cespuglio saltarono fuori, aprendosi le vesti sul seno per fare vedere ai soldati che erano donne, ma i soldati le inseguirono facendole a pezzi, tagliando via prima un braccio, poi una gamba e divertendosi a mozzare i loro seni con le sciabole…

Un gruppo di donne, saranno state cinquanta o sessanta, si erano rifugiate in una piccola grotta e mandarono fuori una bambina piccola con uno straccio bianco in mano per chiedere pietà… La bambina fu subito decapitata da un fendente di sciabola…

I soldati sembravano impazziti, correvano e sparavano e mutilavano…

C’era chi mutilava anche i morti, tagliando via i testicoli ai maschi e dicendo che ne avrebbero fatto una borsetta per il tabacco… Qualche ufficiale gridava basta, fermatevi in nome di Dio, siete soldati dell’esercito degli Stati Uniti, ma quegli uomini non erano più soldati, erano diventati come cani idrofobi…

(Capitano John Todd a proposito del massacro dell’Acqua Azzurra, 1855)

Sono passati ormai quasi 200 anni da quel terribile quanto inutile massacro.
L’uomo bianco è sempre lo stesso... ignorante e criminale come allora, ora gli “indiani” sono diventati le popolazioni della Palestina, dell’Iraq, del Libano, dell’Afghanistan, della Somalia, della Siria, dell’ Iran…

L’uomo bianco che conquistò l’America dei nativi con la violenza, ora uccide per il petrolio, esporta democrazia, guerre…
Quell’uomo bianco ora sventola la bandiera stelle e strisce… il genocidio continua... 
Eppure non ci sono giorni della memoria per tutte queste vittime innocenti...

Ora tocca a noi, figli di quell’uomo bianco tanto ignorante e violento, porre fine a questa catena…

Il giorno della memoria “corta” – l’olocausto indiano che nessuno vuole ricordare!

Gli Indiani d’America popolavano l’intero continente americano, dalle gelide lande dell’Alaska fino alla punta meridionale del continente, la Terra del fuoco, gelide terre in prossimità dell’Antartico. L’olocausto compiuto nei confronti di questi popoli, non fu solo lo sterminio di milioni di persone, ma fu anche qualcosa di più profondo, ovvero la totale distruzione delle loro avanzatissime culture, molto più in contatto con la natura, la conoscenza delle piante e le leggi dell’universo. Per avere un’idea della loro meravigliosa etica vedi il “Codice Etico dei Nativi Americani”.

Il massacro iniziò praticamente pochi anni dopo la scoperta del continente americano (solo Colombo ne ucccise circa mezzo milione) e si concluse alla soglia della Prima Guerra Mondiale. Quindi si sviluppò lungo un periodo di tempo molto vasto e difficilmente delimitabile. Le modalità del genocidio sono state molte e diverse, dall’eccidio vero e proprio di intere comunità, sterminate sistematicamente con le armi, da eserciti regolari o da soldataglie criminali assoldate alla bisogna per mantenere pulita l’immagine dei governi ufficiali,  alla distruzione delle piante e degli animali per impedire che gli indiani si nutrissero.



fonte: http://lapillolarossa15.altervista.org/olo1074-2/

Bosco verso Luserna via Belfiore

- Antonella Toldo -

Marghera in festa per i 100 anni del Marco Polo - 25-1-2018

foto di Domenico Giacon scattata dal Monte Grappa - il faro sale fino a 11.000 mt

venerdì 26 gennaio 2018

Per non dimenticare... Nikolajewka: la vittoria della disperazione

L'ultima battaglia della nostra ritirata di Russia, la battaglia della disperazione e della salvezza per sfondare lo sbarramento sovietico a Nikolajewka, iniziò all'una di notte del 26 gennaio 1943. 

Il Corpo d'Armata Alpino, accerchiato da reparti corazzati, aveva cominciato a ripiegare dalla linea del Don il giorno 17: in quel momento, il generale Gabriele Nasci, comandante del Corpo d'Armata, poteva contare su 57.000 uomini, nelle divisioni "Cuneense", "Julia", "Tridentina" e "Vicenza". Dopo nove giorni di combattimenti e di marce in condizioni ambientali tremende, nella neve ora gelata ora sabbiosa in cui si affondava sino al ginocchio, e con un freddo fra i 30° e i 40° sottozero, le nostre truppe si trovarono decimate. Migliaia di alpini erano morti e migliaia erano stati catturati dai russi. Il 25 gennaio, vigilia della battaglia di Nikolajewka, secondo una relazione del comando del Corpo d'Armata, la situazione era la seguente: "La divisione "Cuneense", durante la sosta notturna a Derkupsakaja, è circondata da ingenti forze corazzate russe e di essa non si hanno più precise notizie: certo è che il giorno 25 gennaio scompaiono dalla lotta anche i reparti della divisione "Cuneense" e "Vicenza". La "Julia" più non esiste dal giorno 22. Rimane organica la sola "Tridentina", anch'essa duramente provata e paurosamente ridotta in fatto di uomini efficienti, di armi e di munizioni: ad ssa si accodano migliaia e migliaia di sbandati, non tutti armati, in parte congelati, stremati, che si trascinano più che camminare". In queste condizioni, la "Tridentina" arrivò verso le 15 del 25 gennaio nel grosso villaggio di Nikitowka, ai margini della vasta piana nevosa che porta a Nikolajewka. Alle spalle della divisione veniva l'immensa colonna dei quarantamila sbandati. Erano italiani, ungheresi, tedeschi che avevano perso il contatto con i propri comandi e fuggivano il combattimento, in attesa che i pochi reparti uniti aprissero loro la strada verso ovest. A Nikitowka, i battaglioni della "Tridentina" ebbero una breve sosta, la prima dall'inizio della ritirata. Il colonnello Giuseppe Adami, comandante il 5° Reggimento Alpini, così ricorda quel giorno: "Concorre a ridare fiducia agli uomini il sole, l'assenza del vento, la temperatura alquanto mitigatasi, la frequente presenza ai lati della pista di isbe, la possibilità di trovare in esse in abbondanza pane, miele, uova, pollame, patate e rape. Gli alpini, dopo tanto digiuno, possono finalmente sfamarsi. Lo spirito si risolleva e le speranze si rinvigoriscono". La mia compagnia, la 46^ del Battaglione "Tirano" (5° Alpini). Si disperse fra le isbe in cerca di un posto caldo per dormire, dopo notti e notti trascorse all'addiaccio. Eravamo partiti il 17 gennaio in trecentoquaranta e a Nikitowka ci ritrovammo in un'ottantina, di cui una decina feriti o congelati gravi. Tutti eravamo più o meno congelati. Il nostro equipaggiamento, già disastroso all'inizio della ritirata, era ridotto a brandelli. Durante gli otto giorni di marcia, quasi tutti avevano gettato gli scarponi di tipo "standard", uguali per la Russia come per l'Africa, perché i piedi congelati gonfiavano, e li avevano sostituiti con strisce o involti di coperte. C'era anche gente scalza o con i piedi fasciati di paglia. Sotto i cappotti con l'interno di pelliccia indossavamo divise di falsa lana, dura come spilli. Gli unici indumenti caldi erano le calze e le maglie che c'eravamo portati da casa nostra la momento della partenza dall'Italia. L'armamento, già insufficiente e superato, era stato in parte abbandonato sin dal primo giorno di ritirata per alleggerire le colonne. Avevamo conservato soltanto le armi individuali (il fucile modello 1891), qualche mitragliatore, poche mitragliatrici arrugginite, bombe a mano e scarse munizioni. Non esistevano slitte di dotazione, come invece avevano i tedeschi. Le nostre erano quelle portate via ai contadini russi, rozze e pesanti. Per fortuna, i muli c'erano, e furono la nostra salvezza. Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio, la temperatura riprese a scendere e ritornò quella degli altri giorni, sui 30° sottozero. Io dormivo in un'isba alla periferia di Nikitowka, verso Arnautowo. Eravamo una trentina, accatastati uno sull'altro. Con me stavano il comandante della compagnia, tenente Giuseppe Grandi, di 29 anni, di Limone Piemonte, e i sottotenenti Antonio De Minerbi, di Roma, Mario Torelli, genovese, e Raffaele De Filippis, di Campobasso. Verso l'una sentimmo gli scoppi vicini, come di bombe a mano. Qualcuno disse che c'era l'allarme, am eravamo disfatti e nessuno ebbe la forza di alzarsi. In quel momento era iniziata la battaglia per Nikolajewka. Ad Arnautowo, un gruppo di case situato su una piccola altura ad un chilometro circa da Nikitowka in direzione di Nikolajewka, forze russe avevano attaccato all'improvviso il Battaglione "Val Chiese" del 6° Alpini e la 33^ Batteria del Gruppo "Bergamo". Contemporaneamente, altri reparti sovietici, affiancati da bande partigiane, avevano assalito a colpi di mortaio e di cannone anticarro il lato sud-ovest del nostro villaggio. Noi non sapevamo nulla. Alle 4 del mattino il mio battaglione s'incolonnò pensando che finalmente iniziasse una marcia di trasferimento, una giornata relativamente tranquilla, senza essere di nuovo costretti a combattere per aprire la strada alla sterminata massa dei 40 mila sbandati che ci seguiva dall'inizio della ritirata. Il "Tirano", come battaglione di punta, si avvicinò ad Arnautowo su una pista in leggera salita. Per la prima volta il reparto marciava ordinato. Come sempre, gli sbandati si erano fermati a Nikitowka ed esitavano a seguirci, forse perché avevano compreso che i russi ci stavano aspettando al varco. All'improvviso, piovvero sulla nostra colonna alcuni colpi di anticarro. Venivano da Nikitowka, alle nostre spalle. Vidi slitte e muli saltare in aria, e alpini morti e feriti. Ci fu un attimo di smarrimento, poi ci riordinammo e le compagnie del "Tirano" mossero in formazione d'attacco verso le isbe di Arnautowo. Il primo di noi a trovare gli alpini del "Val Chiese" e gli artiglieri del "Bergamo" morti nei combattimenti della notte fu il sottotenente Torelli che cadde sotto il tiro dei russi con tutti i suoi uomini. Dopo di lui, partì il battaglione: la 49^ Compagnia a sinistra, la 46^ al centro e la Compagnia Comando con la 48^ a destra. Lo scontro durò violentissimo sino alla tarda mattinata. Gli ufficiali andarono all'assalto alla testa dei loro alpini, con le armi che per il gelo si inceppavano. Il capitano Franco Briolini, di 35 anni, bergamasco, comandante la 49^, morì. Il mio comandante, tenente Grandi, e il tenente Giovanni Alessandria, di 26 anni, di Diano d'Alba, comandante la Compagnia Comando, vennero feriti gravemente. Caddero fra gli altri, i sottotenenti Giuliano Slataper. 21 anni, triestino; Giuseppe Perego, 23 anni, di Sondrio; Lorenzo Nicola, 26 anni di Piossasco (Torino) e Giovanni Soncelli, 28 anni, di Sondrio. Alla fine i russi ripiegarono verso Nikolajewka. Noi restammo a raccogliere i feriti presso le isbe di Arnautowo. Grandi, colpito all'addome, era steso sulla neve, nel freddo. Cantava, cantava con un filo di voce e voleva che i suoi uomini cantassero con lui la canzone del capitano ferito. All'intorno giacevano decine e decine di alpini morti. Fra essi il sergente maggiore Stefano Robustelli, di 27 anni, di Grosio (Sondrio); il caporalmaggiore Cesare Marchetti, 25 anni, e il caporale Attilio Colturi, 24 anni, entrambi valtellinesi, e Giovanni Tiraboschi e Giuseppe Traina, ventenni. La strada per Nikolajewka era aperta. Nella tarda mattinata arrivò il generale Luigi Reverberi, il valoroso comandante della "Tridentina", accompagnato dal colonnello Adami. Reverberi aveva 51 anni, era vestito come noi, con uno strano berretto di pelo alla russa. Stremato ma ancora combattivo ed energico, ordinò alla divisione di proseguire. Mentre il "Tirano" contava i propri morti e tentava disperatamente di risolvere l'angoscioso problema del trasporto dei feriti, quarantamila uomini sfilarono davanti a noi, correndo con slitte e muli, senza degnarci di uno sguardo. In testa, come sempre, marciavano i pochi reparti organici della "Tridentina" . Al tramonto, i resti della mia compagnia - quattro slitte stracariche di feriti gravi, seguite a piedi da poche decine di feriti leggeri, di congelati, di disperati - si affacciarono per ultimi sulla piana di Nikolajewka. La città era già avvolta nel primo buio. Per arrivarvi, bisognava scendere un breve declivio e poi superare il trincerone della strada ferrata, sul lato est. Dietro stava la linea avanzata russa con le armi anticarro, mortai, mitragliatrici. In complesso, le forze sovietiche ammontavano a circa una divisione. L'attacco a questo caposaldo era già iniziato sin dal mezzogiorno, quando noi ci trovavamo ancora ad Arnautowo. Il Battaglione "Vestone" del maggiore Bracchi e il Battaglione "Val Chiese" del tenente colonnello Chierici, affiancati da una batteria del Gruppo "Bergamo", avevano tentato di superare la ferrovia, ma erano stati bloccati dal fuoco nemico. Reverberi chiedeva l'intervento dell'"Edolo". Soltanto quest'ultimo, al comando del maggiore Belotti, poteva portarsi all'attacco perché noi del "Tirano" ci eravamo attardati nella marcia. I resti di un gruppo corazzato tedesco aggregato alla "Tridentina" e comandato dal maggiore Fischer, appoggiavano l'azione con due cannoni controcarro semoventi e due carri armati leggeri. Arrivarono due aerei sovietici. Ronzarono a lungo, volando così bassi che si vedevano le stelle rosse sotto le ali. Dai motori usciva un po' di fumo. Molti credettero che gli aerei fossero stati colpiti; invece erano le vampe delle mitragliere di bordo che sparavano sulla massa nera che oscillava nella piana. Mentre si combatteva sotto il tiro degli anticarro e delle mitragliere russe cercando di superare il terrapieno, il generale Nasci ordinò di gettare in avanti tutto il peso della sterminata colonna degli sbandati. Migliaia di uomini, in uno spaventoso groviglio di slitte e muli, rotolarono urlando verso il trincerone della ferrovia. Alla testa erano i generali Reverberi e Giulio Martinat, capo di Stato Maggiore del Corpo d'Armata Alpino. Con loro erano i capitani Giovan Battista Stucchi e Giuseppe Novello e altri ufficiali della "Tridentina". Martinat cadde tra i primi mentre portava gli uomini all'assalto. Aveva 52 anni. Un artigliere alpino del gruppo "Bergamo", Sandro Goglio, che oggi abita a Cuneo, ricorda che mentre correva verso Nikolajewka vide il generale Martinat steso sulla neve, con il braccio destro puntato in avanti verso la città. Morì anche il tenente Giovanni Piatti, di 33 anni, di Como, della 48^, l'unico comandante di compagnia del "Tirano" uscito incolume da Arnautowo. Caddero centinaia e centinaia di alpini. Soltanto il 5° ebbe 576 fra morti e dispersi, e 414 feriti o congelati. Verso le 18, l'enorme colonna, superato convulsamente il trincerone della ferrovia, travolse la linea di resistenza sovietica e si gettò verso le isbe ancora difese da centri di fuoco nemici. Non si sapeva dove alloggiare le centinaia di feriti, perché tutte le case erano invase dagli sbandati oppure occupate dai soldati russi. Anche per i sovietici, sopraffatti dalla massa enorme di italiani piombata sulla città, esisteva il problema della sopravvivenza. Anche loro erano provati dai combattimenti, con molti feriti, paralizzati come noi dalla temperatura a 30° sottozero. In questo ambiente, in certi settori della città si stabilì quasi una tregua forzata. LO SCRITTORE MARIO RIGONI STERN, ALLORA SERGENTE MAGGIORE DELLA 55° DEL "VESTONE", ENTRO' IN UN'ISBA OCCUPATA DAI SOLDATI RUSSI. AVEVA FAME. UNA DONNA GLI PORSE UN PIATTO DI LATTE E MIGLIO. RIGONI STERN MANGIO' SOTTO LO SGUARDO DEI SOVIETICI, POI RINGRAZIO' ED USCI'. Alle due di notte del 27 gennaio, con un grido che rimbalzò da un'isba all'altra, arrivò l'ordine di lasciare Nikolajewka. Riprendeva la ritirata verso ovest, verso la salvezza. A noi ufficiali toccò il compito più straziante: scegliere tra i feriti quelli da portare con noi, i meno gravi, per i quali v'era qualche speranza di salvezza. Gli altri, colpiti all'addome o al torace, dovevano essere abbandonati. Nel buio la disperazione aumentò. I nostri compagni urlavano, non volevano essere abbandonati. Qualcuno, strisciando nella neve, arrivava fino alle slitte e si aggrappava, implorando, piangendo. Così fece uno dei migliori della 46^, l'alpino Rinaldo Tironi, di 30 anni, valtellinese. "Tenente, tenente" mi gridò. "Sono Tironi, non mi riconosce? Non mi abbandoni!". Lo lasciammo nel freddo. Era una legge bestiale alla quale non potevamo sottrarci. Il nostro comandante di compagnia, tenente Grandi, morì poco prima dell'alba, appena fuori l'abitato di Nikolajewka, dopo un'agonia senza lamenti. Il suo cadavere rimase sulla slitta sino al mattino del 28, quando lo seppellimmo sotto un palmo di neve. Lo sbarramento principale era stato superato. Camminammo ancora per cinque giorni e cinque notti, nel freddo polare e nella tormenta, incontrando diversi centri di resistenza nemici, sotto i continui attacchi della caccia sovietica. I piloti russi volavano indisturbati: mai, dall'inizio della ritirata, era comparso anche un solo aereo italiano, neppure per cercarci. In testa continuò a marciare la "Tridentina" , seguita dalla colonna ininterrotta degli sbandati che si allungava nella steppa per una profondità di circa 30 chilometri. Il 31 gennaio, presso Wosnessenoeka, trovammo pochissime ambulanze con il generale Gariboldi, comandante dell'Armir. Caricammo sui veicoli i feriti più gravi. C'era anche un alpino con un braccio amputato ad Arnautowo che si era trascinato per sei giorni con il moncone congelato. Il freddo lo aveva salvato dalla cancrena. C'erano pure alcuni tedeschi, in tuta bianca. Ne fermai uno e gli chiesi se voleva darmi la sua pistolmachine per un pacchetto di sigarette. Accettò. Ormai l'arma non gli serviva più. Come straccioni, passammo davanti al generale Gariboldi, curvi, a gruppetti, con le coperte sulla testa. Ci guardò. Sfilavano i resti della sua armata. Con noi c'era anche suo figlio, sottotenente del 5° Alpini. Percorremmo altri 700 chilometri a piedi, sempre incalzati dai russi che stavano avanzando. Il 1° marzo raggiungemmo Gomel. Diciassette giorni dopo eravamo in Italia. La nostra tragedia era finita. Per andare in Russia, nell'estate del 1942 erano state necessarie duecento lunghe tradotte; per ritornare in patria, nella primavera del 1943, bastarono 17 brevi convogli ferroviari. Nikolajewka fu una grande vittoria, la vittoria della disperazione. La battaglia venne combattuta e vinta dalla "Tridentina", ma anche la "Cuneense", la "Julia" e la "Vicenza" contribuirono con il loro sacrificio alla salvezza del grosso del Corpo d'Armata Alpino. Pur operando in posizioni di fiancheggiamento e di retroguardia, queste tre unità impegnarono ingenti forze sovietiche alleggerendo in questo modo la pressione sulla divisione di Reverberi. Il 27 gennaio, i resti della "Cuneense", ormai all'estremo limite della resistenza umana, furono circondati e catturati a Valuiki. I superstiti del Corpo d'Armata Alpino, tornati in Italia, raccontarono la loro esperienza. Parlavano con entusiasmo della popolazione ucraina e con odio degli "alleati" tedeschi. Citiamo da una relazione dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito Italiano: "La popolazione ucraina - per pietà, simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe - fu sollecita nell'alleviare sofferenze, offrì da mangiare, vestire e possibilità di riposo ai soldati dell'Armir". Come si comportarono i tedeschi? Dice la stessa relazione: "Dalle isbe, a mano armata, venivano cacciati i nostri soldati per far posto a quelli tedeschi; nostri autieri, a mano armata, venivano obbligati a cedere l'automezzo; dai nostri autocarri venivano fatti discendere nostri soldati, anche feriti, per far posto a soldati tedeschi; dai treni carichi di nostri feriti venivano sganciate le locomotive per essere agganciate a convogli tedeschi; feriti e congelati italiani venivano caricati sui pianali dove alcuni per il freddo morivano durante il tragitto, mentre nelle vetture coperte prendevano posto militari tedeschi, non feriti, che, avioriforniti, mangiavano e fumavano allegramente quando i nostri soldati erano digiuni da parecchi giorni. Durante il ripiegamento, i tedeschi, su autocarri o su treni, schernivano, deridevano e dispregiavano i nostri soldati che si trascinavano a piedi nelle misere condizioni che abbiamo descritte; e quando qualcuno tentava di salire sugli autocarri o sui treni, spesso semivuoti, veniva inesorabilmente colpito col calcio del fucile e costretto a rimanere a terra". Ricordo che il 30 gennaio, appena fuori dalla sacca, i tedeschi delle retrovie si divertivano a fotografarci. Era quasi come se il nostro disastro fosse una loro vittoria e ci segnavano a dito con disprezzo. Il 9 marzo, a Slobin, il maggiore Gerardo Zaccardo adunò il Battaglione "Tirano" e ci parlò della tragedia e della ritirata: "È un insulto per i nostri morti parlare ancora di alleanza con i tedeschi: dopo la ritirata, i tedeschi sono nostri nemici, più che nella guerra del 1915". Il messaggio dei superstiti fu la condanna dell'assurda politica di guerra del fascismo. Questo spiega perché le popolazioni delle valli che avevano visto morire i loro figli in Russia si schierarono subito, d'istinto, con la Resistenza. Così avvenne nelle vallate di Como, dove bruciante era il ricordo dei quattordicimila caduti e dispersi della "Cuneense". I partigiani lottarono contro i nazi-fascisti anche per conto dei fratelli, dei figli, degli amici che erano morti in Russia. 

Nuto Revelli Da "La Stampa", n.22, gennaio 1963



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[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...