mercoledì 28 giugno 2017

Questa foto è dedicata in particolare a GIORGIO e MAURO Niero da un affezionato lettore del Blog


Provo a mettere alcuni nomi, confido in qualche aiuto per eventuali errori o aggiunte. GRAZIE!
Al momento pensavo ad una cresima, ma mi è stato suggerito che più probabile qualche momento associativo tipo azione cattolica. So che parecchi in foto seguono il blog e sicuramente sapranno essere più precisi.

 1 - GIORGIO TOLDO
 2 - GIORGIO NIERO
 3 - SERGIO LUCCA
 4 - LEONARDO SARTORI
 5 - SILVANO TOLDO
 6 - GUIDO MATTEO LORENZI
 7 - ALFREDO TOLDO
 8 - FAUSTO TOLDO
 9 - WALTER TOLDO
10 - AGOSTINO TOLDO (baga)
11 - MAURO NIERO
12 - ARTURO SPAGNOLO
13 - OLINTO FONTANA
14 - GIAMPIETRO TOLDO
15 - FRANCESCO LORENZI
16 - LORETO TOLDO
17 - MARCO BONIFACI
18 - GINO LUCCA
19 - GIANFRANCESCO GIANESINI
20 - don FERNANDO LORENZI
21 - GIUSEPPE TOLDO
22 - AGOSTINO TOLDO (Cana)
23 - don RUGGERO TOLDO
24 - GIACOMO LORENZI
25 - GASTONE TOLDO
26 - GUIDO BONATO
27 - LUCIO SARTORI

Fassa Bortolo continua a crescere: in arrivo quattro nuove acquisizioni "made in Italy"

Fassa Bortolo continua a crescere: in arrivo quattro nuove acquisizioni "made in Italy"

L'azienda trevigiana, marchio storico dell'edilizia, consolida il suo percorso. Entrano nel suo portafoglio la trevigiana Impa Spa, le vicentine Calce Barattoni e Vilca, e la veronese Q Mix

Fassa Bortolo continua a crescere: in arrivo quattro nuove acquisizioni "made in Italy"
SPRESIANO Fassa Bortolo mette a segno una combinazione virtuosa di acquisizioni mirate, tutte Made in Italy. Per l'azienda trevigiana quello in corso è un anno davvero straordinario, consolidato nelle scorse ore con la chiusura di tre nuove e importanti acquisizioni (Calce Barattoni Spa, Q Mix Srl, Impa Spa), alle quali andrà presto ad aggiungersi la quarta (Vilca spa). 

Calce di purissima qualità per due di queste aziende, una delle quali marchio storico in Italia, che saranno oggetto di immediato revamping produttivo per l’utilizzo di combustibili eco-compatibili e l’adeguamento agli standard Fassa degli impianti produttivi, che saranno rivisti in chiave competitiva e dotati delle migliori tecnologie produttive. Core business per la veronese Q MIX srl, azienda che produce intonaci premiscelati a base di calce idraulica naturale, leganti, e prodotti per bioedilizia. Colori e finiture particolarissime, infine, per la recentissima acquisizione di una delle aziende più qualificate del mercato nazionale delle pitture, smalti e vernici per interni ed esterni sia dell'edilizia che dell'industria, Impa Spa, impresa trevigiana di circa 100 persone con sede a San Pietro di Feletto. 

Con l'entrata in portafoglio di queste aziende Fassa Bortolo arriva ad un totale di 5 siti produttivi di calce, con una capacità produttiva di 2500 tonnellate giornaliere ed un ampliamento di servizio e di gamma alla clientela che oggi è, fortunatamente, sempre più esigente. Una strategia sulla cui bontà si è espressa senza indugi anche la Banca Europea degli Investimenti (BEI), che ha offerto un finanziamento di 40 milioni di euro a sostegno degli investimenti e che in parte potrebbero essere utilizzati in questi progetti. Le politiche di sviluppo di Fassa Bortolo si traducono in una crescita del fatturato che dovrebbe arrivare a fine 2017 con 370 milioni di Euro, per raggiungere poi i 400 milioni  nel 2018 mettendo a regime le aziende acquisite. Confortanti anche le cifre sul fronte dell'occupazione che ha visto un incremento (negli ultimi 2 anni e al netto delle recenti acquisizioni), con 49 nuove assunzioni di cui 29 under 30 per un totale di oltre 1.000 collaboratori che oltrepasseranno i 1.400  se nell'organico si includono anche le aziende acquisite e la forza vendita.

Per il Presidente del Gruppo Paolo Fassa " Nonostante la crisi generalizzata dell'edilizia la nostra azienda ha saputo distinguersi reagendo con professionalità, coraggio e grande determinazione. I nostri clienti ci riconoscono la leadership che ogni giorno ognuno di noi è felice di confermare lavorando seriamente.  Le soluzioni, le risposte, la vicinanza ai nostri clienti sono il motore della nostra passione. Ora stiamo mettendo a fuoco altri nuovi progetti all’estero, e siamo convinti che la crescita che abbiamo consolidato in questi nove anni di crisi in Italia ci permetterà di raggiungere altri prestigiosi traguardi".

Trevisotoday


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I suoni delle Dolomiti



IL PROGRAMMA 2017
dal 7 luglio al 31 agosto tornano I Suoni delle Dolomiti!
24 appuntamenti ambientati anche quest’anno su palcoscenici naturali incantevoli e una ricca proposta musicale.
Oltre ai concerti delle 13, l’edizione 2017 propone 2 concerti all’alba, 1 trekking e un nuovo progetto speciale;
un festival nel festival, la Campiglio special week, per animare cime e fondovalle assieme ad importanti musicisti internazionali.

CLICCA QUI PER VEDERE LA LISTA DEGLI EVENTI

NON È LA SOLITA MUSICA
Da ventitre anni il Trentino organizza e propone un festival di musica in alta quota. Decine di appuntamenti che durante l'estate toccano alcuni dei luoghi più incantevoli delle Dolomiti. Sono prati, conche, palcoscenici naturali che accolgono famosi musicisti provenienti da tutto il mondo che si esibiscono in ogni genere musicale, dal jazz alla classica, dalla world music alla canzone d'autore. I luoghi dei concerti sono nelle vicinanze di rifugi alpini, malghe e vette così ogni appuntamento diventa anche occasione per godere il piacere di un’intera giornata in quota, provando l’ospitalità delle terre alte, i piatti della gastronomia, o semplicemente cercando il relax e il divertimento con la famiglia e gli amici.
L'accesso attraverso sentieri ben segnalati vi permette di raggiungere i concerti in autonomia o con l'accompagnamento delle Guide Alpine del Trentino che vi racconteranno il territorio e vi condurranno attraverso itinerari poco conosciuti in totale sicurezza.
Il programma è pensato per offrire mete adatte a tutti: avvicinamenti facili per i più piccoli, accessi affrontabili da persone disabili, così come percorsi che richiedono un po' di fatica in più, ma spesso è possibile usufruire di comodi impianti di risalita.

I concerti si svolgono nel primo pomeriggio (ore 13) ma alcuni iniziano al sorgere del sole (ore 6): le Albe delle Dolomiti sono diventate uno degli eventi più attesi dell'estate con la possibilità di raggiungere la vetta ancora immersi nel buio o di pernottare in rifugio. In entrambi i casi due esperienze che ricorderete a lungo! Se volete invece vivere un rapporto ancora più intenso e intimo con la montagna e la musica, il festival propone anche i Trekking: itinerari di più giorni lungo i sentieri di uno dei vari gruppi dolomitici del Trentino, in compagnia delle Guide Alpine e dei musicisti con cui condividerete la quotidianità del cammino e della vita in rifugio. Nell'alternanza di fatica e meraviglia c'è la continua scoperta del paesaggio e della grande musica proposta in situazioni intime, a tu per tu con i musicisti che in quei giorni saranno vostri compagni d'avventura alla conquista delle vette.

martedì 27 giugno 2017

Vi spiego la città dell’Alto Vicentino


Nascerà la città dell’Alto Vicentino, 200 mila anime, oltre 16 mila imprese, in gran parte manifatturiere, con oltre 120 mila occupati, un sistema di aziende partecipate tra i più efficienti del Veneto, con Avs e Ava in evidenza?
Il forte incentivo del POR previsto dal Fesr 2014-2020, asse 6, in sei azioni specifiche (egovernment, trasporto rotabile, edilizia residenziale pubblica, cohousing per persone in povertà estrema) e dedicato nella fase iniziale all’egovernment tra i 38 comuni dell’area, può favorire la costruzione di questa unica città dell’Alto Vicentino, destinata a diventare la quarta del Veneto.
Grazie alla coesione istituzionale, dimostrata dai Sindaci degli ultimi 20 anni, l’Alto Vicentino gestisce in forma associata servizi di grande rilievo, con buoni risultati tecnici ed economici (dall’acqua e dalla depurazione, al ciclo dei rifiuti, alla polizia locale, al socio sanitario, alle connessioni informatiche).
Anche nella gestione del territorio si sono creati i Pati per armonizzare gli strumenti pianificatori (Piani degli Interventi) dei singoli comuni e garantire la conservazione del territorio, dei beni storici, dell’acqua e dell’aria, l’oculata gestione di nuove unità residenziali, il recupero delle zone industriali.
Ora si apre una triplice sfida culturale economica e amministrativa.
La sfida culturale tocca l’identità collettiva: in un mondo globale serve pensare globale, ma agire localmente. Serve non rimuovere le proprie radici, non dimenticare mai chi eravamo noi cittadini dell’alto vicentino…
La cultura del nostro territorio è una cultura che, pur inevitabilmente inserita nella cultura “globale”, con i pregi ed i limiti dell’evoluzione economica, vive alcune specificità del passato, legate al mondo rurale, quasi come un riflesso condizionato. È vero che il cattolicesimo “scorreva nelle vene e si imprimeva nella memoria” dei nostri cittadini: e da esso si alimentava il culto della famiglia, il culto della laboriosità, la generosità e la voglia di essere utile.
“Era fondata su valori solidi sentitamente vissuti, solidali anche perché bisognosa del reciproco aiuto; conservatrice di beni naturali e di conquiste materiali. Fatta di uomini che lavoravano caparbiamente affrontando tutte le difficoltà, ma che sapevano accettare le sconfitte ed erano consapevoli che la morte fa parte, per legge, della vita”. Era una cultura viva, non supinamente prona a subire tante proposte che vengono dal di fuori le quali disturbano, sviano, appiattiscono tutti. È la cultura che ha guidato il passaggio dall’economia agricola, all’economia mista prima, a quella industriale e artigianale poi, che ha legato le persone ai propri campanili; che ha prodotto “una fabbrica per campanile” e nel sistema dei servizi “un ospedale o una Casa di Riposo per campanile!” Di quella cultura restano, nell’Alto Vicentino, tre elementi importanti: il culto della laboriosità e del fare, la voglia di essere utile, l’attaccamento alle proprie radici.
La sfida economica alimenta la creatività, la visione tecnica di alto profilo di una parte del sistema manifatturiero. Quest’ultimo ha investito anche in anni di crisi, ha grande capacità nell’affrontare i mercati (l’export ha un trend in aumento negli ultimi 5 anni) alla quale, talora, corrisponde un affievolimento delle istituzioni nell’accompagnare e sostenere questo sviluppo.
Il nostro è un territorio che ha vissuto uno sviluppo economico tumultuoso.
Uno sviluppo che sembrava essersi inceppato con la grande crisi del 2008 e con la recessione del 2011. Ma che conta ancora su 16.000 unità produttive nei 38 Comuni, gran parte delle quali imprese individuali; operanti soprattutto nel manifatturiero, nelle costruzioni e nei servizi, con un’occupazione complessiva pari al 60% della popolazione attiva e con un tasso di disoccupazione dimezzato rispetto alla media nazionale.
E’ un territorio dove oltre l’80% dei cittadini ha un’abitazione in proprietà, dove ogni 1.000 abitanti c’è uno sportello bancario, oggi un po’ più malandato di ieri.
E’ un territorio che ha visto concentrarsi quasi l’8% dell’industria Veneta, fino alla fine degli anni ’90, e che oggi ha davanti a sé la sfida di valorizzare l’ambiente e di garantire la riqualificazione dei propri beni. Queste due sfide infatti, per un’area come l’Alto Vicentino, sono un vantaggio competitivo per attrarre e mantenere sul posto cittadini (per la prima volta in diminuzione tra il 2010 ed il 2015) professionalità, iniziative economiche.
Nel XVIII e XIX secolo i primi insediamenti proto-industriali si distribuirono lungo la Pedemontana proprio per la qualità dell’ambiente naturale (le risorse idriche in particolare) e questo portò un vantaggio competitivo importante. Poi lo è stata la minor congestione urbana rispetto ad altre aree.
Nel prossimo futuro potrebbe esserlo un nuovo ciclo produttivo legato a tecnologie avanzate e pulite, allo sviluppo tempestivo del progetto Azienda digitale 4.0, o ad un’agricoltura di qualità, alla ricomposizione urbanistica collegata alle tutele idrogeologiche delle parti più fragili, ad un turismo di nicchia alimentato dall’enogastronomia e dall’agricoltura di qualità, dal patrimonio artistico esistente, messo in rete con i circuiti più importanti, alimentato dalla cultura con i parchi letterari e musicali da lanciare nei circuiti nazionali.
E potrebbe esserlo con un sistema commerciale che recupera sulla grande distribuzione attraverso la qualità dell’offerta e con l’indotto turistico organizzato; con una formazione scolastica e professionale già oggi di buon livello che dovrà meglio integrarsi con il sistema produttivo e terziario per mantenere in loco i nostri giovani. Alternanza scuola lavoro, Erasmus anche alle Superiori, bottega scuola artigianale, contenuti didattici moderni, sono possibili strumenti utili.
La sfida amministrativa, che parte da una posizione di vantaggio, deve andare oltre l’esistente.
Costruire una città unica, mantenendo i municipi (alcuni gradualmente si fonderanno nei prossimi tre anni) significa intanto avere un organismo di governo nella Conferenza dei Sindaci in grado di impostare e condividere tutte le principali questioni sovracomunali; far interagire i sistemi informatici dei singoli municipi; utilizzare le professionalità dei comuni in ambito intercomunale favorendo forme di rotazione del personale tra comune e comune; gestire in modo unitario gli affidi dei servizi.
Significa usare il Pati in modo sempre più “spinto” perché questo è lo strumento essenziale della gestione territoriale necessario a rimarginare le ferite laceranti del territorio, a riqualificarne gli angoli compromessi dallo sviluppo; garantire una risposta coordinata alla mobilità che sarà la vera grande priorità non appena l'Autostrada Pedemontana funzionerà, assieme alla stabilizzazione del governo del sistema sanitario oggi fonte di preoccupazione, e alla gestione unitaria e completa di tutti i servizi sociali affidata all’Azienda Ulss 7.
Una Conferenza dei Sindaci “forte” di questo ruolo di cabina di regia e di organizzazione di risposte sovracomunali, diventa pertanto la scelta istituzionale principale, coadiuvata dalle rappresentanze economiche e del volontariato più rappresentativo, nei vari settori. Il nuovo “Consiglio Comunale” della città unica.
Una città che dovrà affrontare anche la sfida di avere una propria “cassaforte” finanziaria. Il rilancio della già esistente Fondazione di Comunità (sede a Montecchio Precalcino e sin qui orientata prevalentemente sul sociale) anche in ambiti economici, formativi, turistici, sul modello delle Fondazioni lombarde, sarà alimentato da un utilizzo diffuso della responsabilità sociale d’impresa, da risorse dedicate da specifiche progettualità europee e nazionali, da un uso selettivo e coordinato del 5 per mille.
Alberto Leoni

domenica 25 giugno 2017

La Valle dell'Astico








Il commento che segue è destinato al post di Irma Lovato sulla Val Posina. Per sbaglio era stato messo in un altro post e mi pregavano di spostarlo. Lo farò più tardi, perchè stamattina la connessione sente la burrasca... ;-))).
Nel frattempo prendo spunto dallo stesso per farne un post specifico e tentare di intavolare un po' di discussione. 

 
"Un po' struggenti le tue parole, ma è la descrizione esatta della mia tanto amata Valle: la Val d'Astico. Mi piacerebbe leggere anche delle proposte, delle idee, qualcuno che suggerisca, ci bastoni, ci indichi dove abbiamo sbagliato e come potremmo... NON MORIRE.
La parola rassegnazione non mi è mai piaciuta!!!"

La morte della Val Posina

Ciao Carla,
sono a te per chiederti la cortesia di pubblicare questo mio scritto sul tuo Blog; non mi sono mai permessa di farlo, ma c'è una ragione che mi impone di chiedertelo. Questo scritto amaro, di non facile stesura, ma di trasparente denuncia, l'ho inviato al Giornale di Vicenza che oggi l'ha pubblicato tagliando a propria discrezione più parti e modificandone il finale tanto da travisarne completamente il contenuto e il mio intento.
Grata se tu potrai pubblicare il mio scritto in versione integrale.

LA MORTE DELLA VAL POSINA

E' tutta racchiusa in quest'immagine, la fragile bellezza della Val Posina: nell'alchimia misteriosa ed impalpabile di un arcobaleno, dove fili di luce si intrecciano e si abbracciano e baciano infinite e minuscole gocce d'acqua, dove il semplice camminare del sole modifica colori e certezze.
L'arcobaleno è per sua natura costruito sull'attimo; il suo esserci è frutto di eteree presenze e così è pure per la Val Posina: crogiolo di delicata e generosa natura e non visibili presenze, di storia tessuta dall'abile sapienza, conoscenza, pazienza e fatica dei nostri avi.
Ma la bellezza è fragile, si sbriciola, frana e cade su se stessa come le masiere abbandonate che cedono sotto l'incuria ed il passare inesorabile delle stagioni.
La fragilità della bellezza sta nell'essere silenziosa, nel non gridare il suo bisogno di attenzioni e di cure: vorrebbe essere capita semplicemente guardandola.
Ma non è così e vedo ed assisto allo sciuparsi, all'appassirsi, allo sgretolarsi lento ed inesorabile della Val Posina: vedo avanzare la morte, senza falce, ma con tante facce.
Scorgo il suo avanzare incalzante nei sentieri che si chiudono; nelle case abbandonate e in quelle vissute solo d'estate; nei fiori raccolti con disprezzo e negli animali uccisi per divertimento.
La vedo in coloro che la scelgono quale ultima tappa del loro cammino: quando si onorano dal sapersi ricoperti dalla terra negra della Valle, ma la stessa terra non l'hanno saputa amare e sceglierla per viverci, scaldandola con la loro presenza.
La vedo nei boschi tagliati malamente, dove conta solo la legna che ci si procura e si vende e non la cura del territorio fragile, prezioso e bello.
Vedo la morte della Valle nella chiusura di una piccola casta che si è fatta potere cieco e sordo.
Vedo la morte di questo luogo dentro le borse dei passeggiatori domenicali, che, traboccanti di ogni bene gratuito della terra, ritornano in città incuranti del danno compiuto e inconsapevoli che la vera bellezza per essere apprezzata andrebbe raccolta con gli occhi e con l'anima.
La vedo nelle donne che vengono violate e nella giustizia che è ben più lontana dei 50 chilometri fisici.
La trovo nelle parole di quel Consigliere Comunale che non esita a definire dei concittadini trasferitesi da Vicenza “Rifiuti di città venuti ad inquinare la Valle”: c'è la morte dell'umanità in queste parole oltre all'amara conclusione che non esiste nemmeno più la decenza come prerogativa di chi rappresenta le Istituzioni!
Muore la Val Posina quando nel centenario della Grande Guerra smantella il suo Museo per far posto ad una fabbrica di borsette con la scusa dell'introito di una manciata di soldi d'affitto.
Colgo la morte del paese attorno a me quando la consapevolezza dei cittadini nel vedere e sentire un qualcosa di iniquo non trova una corrispondente azione civica, ma si adagia nel quieto vivere.
Ho toccato con mano la morte della Valle quando al sopralluogo d'Istruttoria per la costruzione della centralina idroelettrica sul Pasubio (in Val Sorapache) nessun Consigliere Comunale né di Minoranza né di Maggioranza erano presenti!
La vedo avanzare baldanzosa nelle grandi e costosissime opere pubbliche, che fanno colpo e accolgono consensi immediati, ma effimeri e poi nella sostanza non creano nulla per la comunità, né per il futuro della Val Posina.
Vedo la morte della Valle in coloro che dicono di amarla attraverso una pagina facebook e poi nel concreto non la vivono, non la curano e i “mi piace” sono false e facili esternazioni.
L'ho respirata nella parole di quei genitori che spronano i propri figli ad andarsene: come se il futuro fosse unicamente oltre la galleria!
La vedo ogni notte la morte, aggirarsi con saggia pace sulla Val Posina dormiente; e la Valle dolcissima e tenera, struggente e feconda, unica, preziosa e fedele amica mi sussurra: 
“Non temere piccola donna: la morte non mi fa paura, sopravviverò alla stoltezza umana!”

Irma Lovato Serena

Posina, Vicenza, 21 giugno 2017

La morte della Val Posina


Ciao Carla,
sono a te per chiederti la cortesia di pubblicare questo mio scritto sul tuo Blog; non mi sono mai permessa di farlo, ma c'è una ragione che mi impone di chiedertelo. Questo scritto amaro, di non facile stesura, ma di trasparente denuncia, l'ho inviato al Giornale di Vicenza che oggi l'ha pubblicato tagliando a propria discrezione più parti e modificandone il finale tanto da travisarne completamente il contenuto e il mio intento.
Grata se tu potrai pubblicare il mio scritto in versione integrale.

LA MORTE DELLA VAL POSINA

E' tutta racchiusa in quest'immagine, la fragile bellezza della Val Posina: nell'alchimia misteriosa ed impalpabile di un arcobaleno, dove fili di luce si intrecciano e si abbracciano e baciano infinite e minuscole gocce d'acqua, dove il semplice camminare del sole modifica colori e certezze.
L'arcobaleno è per sua natura costruito sull'attimo; il suo esserci è frutto di eteree presenze e così è pure per la Val Posina: crogiolo di delicata e generosa natura e non visibili presenze, di storia tessuta dall'abile sapienza, conoscenza, pazienza e fatica dei nostri avi.
Ma la bellezza è fragile, si sbriciola, frana e cade su se stessa come le masiere abbandonate che cedono sotto l'incuria ed il passare inesorabile delle stagioni.
La fragilità della bellezza sta nell'essere silenziosa, nel non gridare il suo bisogno di attenzioni e di cure: vorrebbe essere capita semplicemente guardandola.
Ma non è così e vedo ed assisto allo sciuparsi, all'appassirsi, allo sgretolarsi lento ed inesorabile della Val Posina: vedo avanzare la morte, senza falce, ma con tante facce.
Scorgo il suo avanzare incalzante nei sentieri che si chiudono; nelle case abbandonate e in quelle vissute solo d'estate; nei fiori raccolti con disprezzo e negli animali uccisi per divertimento.
La vedo in coloro che la scelgono quale ultima tappa del loro cammino: quando si onorano dal sapersi ricoperti dalla terra negra della Valle, ma la stessa terra non l'hanno saputa amare e sceglierla per viverci, scaldandola con la loro presenza.
La vedo nei boschi tagliati malamente, dove conta solo la legna che ci si procura e si vende e non la cura del territorio fragile, prezioso e bello.
Vedo la morte della Valle nella chiusura di una piccola casta che si è fatta potere cieco e sordo.
Vedo la morte di questo luogo dentro le borse dei passeggiatori domenicali, che, traboccanti di ogni bene gratuito della terra, ritornano in città incuranti del danno compiuto e inconsapevoli che la vera bellezza per essere apprezzata andrebbe raccolta con gli occhi e con l'anima.
La vedo nelle donne che vengono violate e nella giustizia che è ben più lontana dei 50 chilometri fisici.
La trovo nelle parole di quel Consigliere Comunale che non esita a definire dei concittadini trasferitesi da Vicenza “Rifiuti di città venuti ad inquinare la Valle”: c'è la morte dell'umanità in queste parole oltre all'amara conclusione che non esiste nemmeno più la decenza come prerogativa di chi rappresenta le Istituzioni!
Muore la Val Posina quando nel centenario della Grande Guerra smantella il suo Museo per far posto ad una fabbrica di borsette con la scusa dell'introito di una manciata di soldi d'affitto.
Colgo la morte del paese attorno a me quando la consapevolezza dei cittadini nel vedere e sentire un qualcosa di iniquo non trova una corrispondente azione civica, ma si adagia nel quieto vivere.
Ho toccato con mano la morte della Valle quando al sopralluogo d'Istruttoria per la costruzione della centralina idroelettrica sul Pasubio (in Val Sorapache) nessun Consigliere Comunale né di Minoranza né di Maggioranza erano presenti!
La vedo avanzare baldanzosa nelle grandi e costosissime opere pubbliche, che fanno colpo e accolgono consensi immediati, ma effimeri e poi nella sostanza non creano nulla per la comunità, né per il futuro della Val Posina.
Vedo la morte della Valle in coloro che dicono di amarla attraverso una pagina facebook e poi nel concreto non la vivono, non la curano e i “mi piace” sono false e facili esternazioni.
L'ho respirata nella parole di quei genitori che spronano i propri figli ad andarsene: come se il futuro fosse unicamente oltre la galleria!
La vedo ogni notte la morte, aggirarsi con saggia pace sulla Val Posina dormiente; e la Valle dolcissima e tenera, struggente e feconda, unica, preziosa e fedele amica mi sussurra: 
“Non temere piccola donna: la morte non mi fa paura, sopravviverò alla stoltezza umana!”

Irma Lovato Serena

Posina, Vicenza, 21 giugno 2017

sabato 24 giugno 2017

La notte di San Giovanni - (dal web)

Il canto del gallo, quelle mattine chiare e profumate di rosmarino, svegliava la vallata con le ultime, tardive stelle ancora sul colle del bosco e si sentiva quell'eco lontano risuonare di cortile in cortile, ed appariva impalpabile, antica, come l'aria fresca dal sapore di rugiada che resisteva in quelle prime ore assopite nella tenera foschia, finché i raggi del sole non raggiungevano ogni stelo d'erba. Il borgo addormentato iniziava a brulicare di vita dopo quei richiami ripetuti alla vita, i quali davano poi il via alle dure giornate di lavoro nei campi. Gli uomini e le donne del paese, stanchi, giungevano a sera e per riconcilirsi con la natura che tanto li affaticava con un sole feroce e padrone delle ore, restavano fuori nella quiete notturna, nei cortili o sotto i pergolati profumati di lillà pendenti, a mangiare ed a godere delle notti chiare e piene di stelle. I bambini erano invece soliti da sempre giocare tutto il giorno nei prati roventi oltre il calare del sole, in quei giorni di pieno solstizio d'estate, in cui la notte ed il buio sembravano non arrivare mai. Nel borgo si respirava un'aria di fatica e di lavoro, col grano biondo che ondeggiava leggero sotto un mite e tenue soffio di vento che giungeva, come gli anziani avevano sempre sostenuto, dal mare. I pomeriggi volavano lenti, tra il pigolare delle  nuove rondini, nate dopo il ritorno in casa degli uccelli e le donne tessevano cantando a più voci, melodie antiche, in un dialetto ormai lontano. Tutte però, avevano un compito particolare e ne parlavano solerti, agitate, dalla breve notte del solstizio, in cui il chiarore azzurro pareva sfumarsi con un celeste, grazie all'opera di un pittore dalle giganti dita che cambiava repentinamente al cielo la tonalità. Descrivevano infatti le opere ed i gesti degli anni precedenti, quando erano impegnate nel rendere il giusto omaggio alla notte di San Giovanni, il patrono del paese.  Per la notte del santo infatti, erano solite recarsi alla fontana del paese, un vecchio abbeveratoio in pietra posta accanto alla chiesa, sotto l'ombra fresca di un pino mediterraneo, e riempire delle ciotole di rame o di coccio, portate da casa. E durante le prime ore della mattinata, dopo il canto del sapiente gallo, raccoglievano fiori ed aromi, nei loro orti e nei prati ancora ingentiliti dalla rugiada. Quel rito contadino antichissimo veniva tramandato di nonna in nipote e diveniva una notte magica, nella quale il santo Battista avrebbe benedetto quell'acqua profumata d'estate. Su ogni davanzale, al calar del sole, si vedevano le ciotole piene di colori di giugno: rose rubino, rosa tenue, bianche, fiori di sambuco e di ibiscus, qualche testa di garofano, peonie, grosse teste di papaveri rossi, e poi alloro, salvia, rosmarino, menta romana e basilico. Tutti gli odori del borgo erano racchiusi in quell'acqua nella quale nel silenzio della notte, San Giovanni avrebbe imposto la sua benedizione e con cui tutti i membri delle numerose case coloniche si sarebbero lavati il viso la mattina. Quel rito antico e pieno di mistero vedeva tutti i bambini affaccendarsi nei boschi, nei giardini e negli orti per scegliere il fiore più bello, più grande e più profumato e donarlo alla nonna che, dopo il segno della croce, lo poneva in acqua. Immaginavano il giovane Battista, dai ricci mori e coperto con delle pelli, camminare per quelle vie e benedire l'acqua il cui profumo si mescolava con gli odori dei vicini, del grano e della pineta e forse del cielo. Nel silenzio del camminare del santo, l'acqua tremante era mossa dal vento che sembrava cullarla, spostava i petali con le sue lunghissime dita, mescolava ed intrecciava gli atomi per crearne un unico e sempre diverso di minuto in minuto e modificarlo col soffio leggero. Mentre, nel silenzio della notte, rotto unicamente dai richiami d'amore della volte, il vento invertiva colori ed odori, nell'acqua vi si specchiavano le lucciole durante la notte, nella loro danza per trovare l'amore, lo guardavano curiosi i gatti e gli uccelli notturni, ne guardavano il luccichio se dentro vi cadeva il riflesso di una stella. Anche la perpetua, in ricordo della sua fanciullezza alla quale guardava con nostalgia profonda, aveva posto fuori dalla sua piccola stanza, una ciotola con i petali delle rose e dei papaveri, piccoli steli di lavanda e qualche fiore selvatico raccolto intorno alla chiesa, il finocchio selvatico ed il timo raccolti in pineta ed il rosmarino che al parroco avevano donato. La sua ciotola di rame, un regalo della nonna, brillava ad ovest non appena il sole era tramontato e lei, inginocchiata a pregare, aveva rivissuto la sua infanzia e le corse in mezzo al grano per trovare i papaveri rossi e forse sì, un antico petalo scese in quell'acqua benedetta, chiara e odorosa di vita e di memoria, dove al mattino, mentre pregava, trovò i petali a formare un sorriso.

giovedì 22 giugno 2017

“El Scaldabagno”

Un simpatico e ironico racconto di Alessio Rizzato da Lugo. (dal web) 
(Chissà quanti di noi han vissuto le stesse cose!)

Ci lavavano il sabato pomeriggio, in cucinìn, dentro il mestélo.
Se si spussàva o si era onti in altri giorni, ci lavavano a rate, solo però dove serviva: inutile netàr sul néto!

Per l’acqua calda: se si usava il mestélo, si metteva  una pignaàta grande di acqua  sul fogo, dentro i cerchi della fornéla, a scaldare;  sennò bastavano un paio di mestoli della vaschetta della fornéla, che era scaldata dal caldo, prima ch’el scapàsse sù par el tubo del camìn: automatico!
Fin che ero mi solo, me mama faceva anche presto lavàrme;  poi sono arrivate le mie sorelle e allora c’era da scaldare tanta acqua sui cerchi della fornéla, anca due pignàte. Per fortuna che io non sono mai stato broà nel mestélo perché, prima de buiàre l’acqua,  me mama metteva dentro il suo gùmio e, se si scottava lei, allora zontàva alcuni mestoli di acqua fredda e così veniva tiepida e andava ben.

Quando el Popà gà fatto la casa nova non è più stato doparàto il mestélo, perché aveva costruito anche il bagno, con la vasca bianca, con le mattonelle che si potevano anche bagnare, no come el muro del cucinìn  che, se veniva bagnà dai sguassi, veniva  subito la muffa. La vasca era grande e se sbrissiàvo  navo finire anca sotto acqua e avevo paura di negàrme dentro.

In bagno non c’era la fornéla e l’acqua calda veniva fuori da sola dal rubinetto e anche dal suo telefono, che faceva un bel sprusso, mejo del sguassaròto de l’orto.

Giù in scantinato c’era come un sommergibile, che si vedevano  ai cinema de guera, messo però in piedi e non butà, come i sommergibili veri. Era “lo scalabagno”.  Quel mestiero lì non scaldava mica il bagno, ma l’acqua,  e non aveva i cerchi, come la fornéla.

Il sabato impissàvano el scaldabagno. Aperta la portelèta mettevano dentro  un puchi  de bachìti de viséla. Anca se il fassinàro era pieno de fassìne, anca  piene de tereìjne e degli anni prima, avevano sempre paura di finire i bachìti, perché dicevano che el scaldabagno magna tanto e quando segnava quaranta gradi non mettevano più sotto né bachìti, né altra legna e l’acqua scaldà doveva bastar par tuti.

Anca il mio caro zio Pasquale aveva uno scaldabagno, anche se non aveva il fassinaro perché le viséle non le aveva intorno casa. Lui scaldava l’acqua a scarpe.  Era intelligente. Recuperava le scarpe rote che non si potevano più giustare.  Se erano di coràme bastava un paio di scarpe per portare l’acqua a sinquanta gradi. Se le scarpe erano di pessa ne occorrevano due paia, si  brusàvano  anche le suole di  gomma o di plastica: tanto, Pasquale in Germania, in tempo di guerra,  aveva visto bruciare... e poi la diossina non era ancora stata inventata…

Lo scaldabagno non scaldava però le stanse, e d’inverno  vedevo il fià in camera mia.

Scaldava  solo l’acqua del bagno, disèvano. Dopo molti e molti anni  hanno scoperto, per sbaglio, che era calda anche  l’acqua del seciàro, se si apriva il rubinetto con la fasséta rossa. I miei aprivano sempre e solo, per non rovinare tutti e due i rubinetti, quello con la fasséta azzurra e pensavano che l’altro fosse di riserva. Massa novità nela casa nuova e, tutte in un colpo, non potevano essere capite e si è continuato a broàr sù i piati e i bicèri  scaldando l’acqua sulla fornéla.

Son vegnésto vecio istesso!

Lessio da Lugo

PiRuBi stitico blues

martedì 20 giugno 2017

La fienagione - di Sebastian Toldo

Perché forse non tutti sanno che... Quei bei prati che ora vedete ordinati, verdi e simili ad un campo da golf, in realtà hanno subito una lenta trasformazione... Ed è sempre grazie al lavoro di noi agricoltori, se ad un certo punto, tutto diventa più vivibile e curato...
Allergia o meno, la fienagione va fatta. E, allergia o meno, quando arrivi ad imballare il fieno e ad annusare il suo profumo... non c'è Chanel n. 5 che tenga!






E quante scale cromatiche in quello che dovrebbe esser "solo fieno". In realtà ogni stelo, ogni colore appartengono a erbe diverse... La Natura non smette di dipingere i nostri giorni...


lunedì 19 giugno 2017

Noi diciamo BASTA!




Prolungamento dell'A31 - OK del Consiglio Comunale di Cogollo del Cengio

Con nove voti a favore e uno contrario, il Consiglio comunale di Cogollo del Cengio ha approvato l’ordine del giorno sulla progettazione definitiva del prolungamento verso nord dell’autostrada A31 Valdastico. Nella delibera il Comune ha definito le condizioni irrinunciabili per assicurare funzionalità viabilistica, sostenibilità e salvaguardia dei valori naturalistici, storici, culturali e paesaggistici del proprio territorio. In particolare si è chiesto lo spostamento del casello denominato “Cogollo” verso la zona industriale di Seghe di Velo, e il generale abbassamento del tracciato autostradale, in modo da allontanarlo il più possibile dal centro abitato e dalle frazioni.
G.M.F. GdV

Delibera del Comune di Pedemonte




Applausi a Massimiliano Toldo (african)



Calo demografico


GdV
segnalato da Irma

venerdì 16 giugno 2017

Il paese con una sola abitante: “Il silenzio mi fa compagnia”

Paolina Grassi compirà 91 anni il 28 agosto. Il marito è morto nel 1993 e l’ultima delle sue quattro sorelle nel 2016. Ha figli e nipoti, che però non vivono a Socraggio.

Ora che non c’è più neanche il cane Fido ad abbaiare festoso, il silenzio ti viene incontro già dopo l’ultima curva. «Un silenzio bellissimo», dice la signora Grassi. «Soprattutto di notte. È quello il momento in cui puoi ascoltarlo meglio. Mi fa compagnia quando non riesco a dormire. Non senti un motore. Fuori dalla finestra della mia stanza è completamente buio, ma in alto il cielo è pieno di migliaia di stelle».  

La signora Paolina Grassi compirà 91 anni il 28 agosto. Ha vissuto tutta la sua vita su questa montagna della Valle Cannobina, al confine con la Svizzera. È l’ultima residente di un paese quasi scomparso dalle mappe, il cui nome intero è Casali Socraggio. Il suo portone è quello con il numero 27. «C’erano l’osteria, la rivendita e il fornaio. C’era la scuola elementare. Nella mia classe eravamo in 36. Quando sono nata, il 28 agosto del 1926, tre famiglie avevano dieci bambini. Noi eravamo cinque sorelle: Santina, Domenica, le gemelle Silvia e Giovanna, io ero la più piccola. Mamma mi aveva partorito sull’Alpe Badia, a mille metri di altitudine, dove papà aveva le bestie, faceva il carbone e essiccava le castagne nel graticcio».  

Le giornate della signora Grassi seguono il ritmo delle stagioni. Potrebbero sembrare monotone, ma a lei sono sempre bastate. «Faccio colazione alle 8 con una grande tazza di caffellatte e un pacchetto di cracker. Poi devo dare da mangiare alle galline, c’è da pulire la chiesa, devo prendere le erbe, fare il fieno, lavorare con il rastrello e il falcetto, riempire la gerla di legni per la stufa. L’insalata selvatica va tagliata fine. È un po’ duretta, ma buona».  

A pranzo, un risotto. Dopo, un pisolino con le braccia conserte sul tavolo. La tv è foderata perché non prenda polvere, tanto è sempre spenta. Anche il telefono fisso a rotella, l’unico, ha una piccola copertura di misura. Sulla vetrina della credenza ci sono le foto dei figli, dei nipoti e del cane Fido («è stato come un figlio negli ultimi anni»). Il frigo Zoppas, la panca per mangiare accanto al camino acceso, se fa freddo.  

L’ARRIVO DEI TURISTI 

È tornata l’estate. In paese stanno salendo i villeggianti. Sono 12 tedeschi, 2 svizzeri, un italiano di Gallarate e uno di Arona. La signora Grassi chiacchiera benvoluta da tutti, circondata da fiori e piante rigogliose, perché il bosco ormai ha quasi ricoperto le case. La rosa che le regalò il figlio maggiore, quello partito per la Sardegna come carabiniere ausiliario. Il giglio selvatico sulla parete maestra. La robinia, il castagno, il rovere, il tiglio che profuma di miele: «A giugno metto a seccare le foglie all’ombra, in autunno ne faccio tisane».  

Giù a valle, pensionati tedeschi vestiti in pelle nera solcano la strada su motociclette fiammanti, fra ristorantini di lusso, divanetti a bordo lago e pedalò rarefatti nella bruma del pomeriggio. La signora Paolina non ha mai visto quel mondo sottostante. Canobbio, il Lago Maggiore, i motoscafi Riva. Non ha mai sognato New York e neppure sconfinato in Svizzera: «Al massimo sogno di salire ancora una volta sul monte Zeda. Ma sono quarant’anni che non posso più andarci, e va bene così. Sono di buon carattere. Ho fatto solo due viaggi. Uno a Novara per accompagnare mio marito in ospedale, l’altro a Macugnaga per accompagnare il prete».  

Racconta dei camosci e dei cinghiali, delle volpi che danno la caccia ai gatti. Del fatto che non nevichi quasi più. «Nel 1985 mio marito Luigi aveva misurato 92 centimetri di manto bianco». Una sola volta al mese va al supermercato a fare la spesa, grazie all’aiuto della nuora Lucia. Compra quello che serve. Scongela una pagnotta al giorno. Un ricordo felice è quello di un capodanno dopo la guerra, con la famiglia riunita e il cappone in tavola: «Il ripieno era la cosa più buona. Luigi metteva un salamino, uova, pane grattugiato, verza, poca farina».  

E la paura? Cos’è, per lei, la paura? «Quando c’erano i rastrellamenti dei tedeschi. Avevo 18 anni. Volevano bruciare il paese perché si erano rifugiati i partigiani. Un aeroplano volava basso. Avevo paura dei bombardamenti».  

AL CINEMA 2 VOLTE NELLA VITA 
  
È andata soltanto due volte al cinema con la scuola elementare, non ha mai letto un libro, ma racconta orgogliosa di quella canzone che aveva inventato all’alpeggio. «Era una canzone per gli inglesi, contro i fascisti. Diceva che le città di Torino, Milano, Firenze e Bari avrebbero festeggiato la liberazione. Mi era venuta alla testa sentendo i discorsi dei grandi, quelli che leggevano i giornali».  
Il marito, un tempo alpino in Jugoslavia, è morto nel 1993, l’ultima sorella nel 2016. Quasi un secolo se n’è andato sulla montagna. Il futuro è questo silenzio perfetto. «Desidero solo la salute dei miei figli e dei miei nipoti. E spero che le gambe mi sorreggano fino alla fine. Andare in una casa di riposo non mi piacerebbe. So che trattano bene gli anziani, ma lì dentro mi sentirei rinchiusa in prigione. Io sono come le nostre pecore, nata per vivere all’aria aperta».  

(Ha collaborato Teresio Valsesia)  
Niccolò Zancan - la stampa 
 

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...