Bore in moja

[Gianni Spagnolo©25C17]

Questo è un tema trattato diverse volte su questo Blog, ma ora l'amico Gino mi segnala lo storico documento in foto che testimonia l'autorizzazione amministrativa ad effettuare una fluitazione di legname sull'Astico nell'anno 1857. 

Siamo nell'epoca antecedente la sistemazione della Singèla per renderla percorribile dai barossi (carri a due ruote trainati da muli), che fu posteriore all'unità d'Italia. Prima d'allora il divallamento del legname dalla montagna si faceva con le menàde, ossia tramite lo scorrimento dei tronchi giù per le valli. Questo trasporto avveniva per gravità lungo i solchi vallivi su appositi canali. Si sfruttava quindi il gelo invernale per sagomare con la neve queste canalizzazioni ghiacciate, con andamento possibilmente naturale. Diveniva artificiale, per mezzo di ponti e canalette, dove invece la natura del terreno lo richiedeva.

Eccoci dunque nel 1857, quando la Valle ricadeva nella giurisdizione del Regno Lombardo Veneto, retto dalla Casa D'Austria.  Il richiedente il permesso di fluitazione del legname sull'Astico è il commerciante Pietro Delai, di Piovene, mentre la destinazione finale sono le segherie di Montecchio Precalcino. Questo approdo non è casuale; è proprio lì, infatti, alle Jare de Montecio, che finiva l'Astico inteso come torrente. Di lì in avanti perdeva questa caratteristica e anche il nome, sperdendosi nelle risorgive dell'alta pianura vicentina e congiungendosi col Tésina. Montecchio Precalcino era quindi strategicamente il porto finale del legname delle nostre montagne, servito da numerose segherie ad uso di paesi e città del Vicentino. Le nostre bande fornivano quindi la materia prima, ossia il legname, ma non la sua lavorazione. Nell'Alta Valle dell'Astico sorsero alcune prime sporadiche segherie consortili solo nel Milleseicento e ad uso prettamente locale, non essendo conveniente il trasporto dei semilavorati (travi, tavolati, reele, ecc.) al piano per lo stato delle vie di comunicazione di allora. Ecco dunque che l'Astico fu per secoli la via di transito più comoda ed economica.

Il documento ci informa anche di quali fossero i porti di questo traffico, ossia "le Poste": la località detta "il Campo" a San Pietro e genericamente "Pedescala".  Il Campo è la spianata allo sbocco della Val dei Mori, allora direttamente incombente sul torrente, situata al termine della Strada Boara. Quest'ultima  veicolava il legname divallato per la Torra fino all'attuale località delle "Grape", dove c'è la briglia dell'acquedotto. Per Pedescala era il luogo prospicente la confluenza dell'Assa nell'Astico, dato che era ovviamente la Val d'Assa il canale naturale di divallamento delle bore. L'aspetto su cui si dilunga il documento, è la prevenzione degli eventuali danni a terzi lungo le rive, cosa purtroppo ricorrente per questo tipo di trasporti.

Vanno perciò fatte alcune considerazioni, per raccordare quella situazione alla realtà attuale dell'Astico, altrimenti è difficile capire la dinamica delle operazioni con l'occhio di oggi. L'Astico non aveva prelievi di sorta, come sono ora gli acquedotti del Civetta e gli altri situati lungo il suo corso; l'innevamento invernale era costante e massivo e garantiva un adeguato regime idrico in primavera, quando lo scioglimento delle nevi in montagna ingrossava il fiume. Le rive erano prive di argini ed esposte alle esondazioni periodiche, ecco perché la località del Campo s'affacciava direttamente sul greto allargato del torrente, non essendoci le strade, gli argini e le costruzioni di oggi. Era quindi sufficiente fa precipitare i tassoni, ossia le cataste di legname accumulato d'inverno, direttamente nell'acqua, non appena il torrente avesse raggiunto un regime idrico sufficiente a garantire la fluitazione.

Ora sorge una domanda: chi erano gli zattieri che guidavano questo tipo di condotte sul torrente? erano locali o foresti al servizio del commerciante di turno? Sicuramente tutto il lavoro di taglio, divallamento e conduzione del legname alle "poste" era svolto dai nostri compaesani d'allora e costituiva l'attività economica stagionale principale della nostra gente. Si occupavano anche della fluitazione?

Non saprei dire, dato che non conosco tradizioni in merito in paese, se non qualche fugace accenno. Qualcosa di materiale mi pare sia emerso, se non ricordo male, in occasione del primo "Ritorno dal Bosco".  Allora, nel fornito museo all'aperto dei Toldo Africàn, venne esposto una pertica con una picca uncinata finale, che era l'attrezzo con cui gli zattieri governavano il legname sul fiume. Una specie di lungo sapìn con una punta in testa: l'uno serviva per agganciare le bore, mentre l'altro per allontanarle. Era un lavoro tutt'altro che banale, che richiedeva grande esperienza ed equilibrio. L'impeto e l'imprevedibilità del fiume, unita alla gran massa del legname in movimento, poteva infatti creare non pochi danni agli argini e alle prese di mulini, folli e magli che si trovavano sulle rive. Penso quindi che questo tipo di operazioni fossero appaltate a gente foresta, specializzata in questo tipo di condotte, come lo erano gli zattieri della Val Brenta, dove questa attività era tradizionale e lo è rimasta fino ad epoche più recenti della nostra.

Qui val la pena di fare una riflessione, peraltro già fatta spesso su questo Blog: noi siamo cresciuti nel mito della Singèla",  dei cavalari e di quant'altro c'è girato attorno. Questa è l'epopea percepita dal paese e ben rappresentata dalla manifestazione del "Ritorno dal Bosco". Però essa rievoca solo una piccola parte delle vissuto e delle tradizioni della nostra gente: diciamo circa gli ottant'anni che vanno dal 1876 al 1956. prima d'allora non c'era la Singèla (intesa come via del legname trasportato dai barossi con i muli) e quindi neppure i cavalari, intesi come i moderni camionisti. Cavalli e muli servivano all'estrazione a strascico dei tronchi dai boschi per il loro accumulo nelle are di partenza delle menàde. I buoi parimenti a trascinarli in valle fino alle "Poste". 

Poi c'era il lavoro di preparazione delle menàde, che sicuramente ripeteva procedure affinate e sedimentate da secoli e delle quali abbiamo perso memoria. Questo perché, mentre i cavalari erano i nostri nonni e ci hanno tramandato le loro vicissitudini che sono così entrate nell'immaginario collettivo paesano, i menadòri erano i nostri trisavoli, dei quali purtroppo non sappiamo quasi niente.

In merito alle fluitazione del legname, ho scritto diversi post in vari anni; per chi fosse interessato ad approfondire può esserne interessante la rilettura, può scorrere i seguenti link:

 1.- On poche de menàde; 2.- Mestieri perduti; 3.- La strada Boara; 4.- Contra' Basso






Commenti

  1. Deriva da qui il nostro detto: sempre le solite menade?

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  2. documento eccezionale, grazie a Gianni e Gino

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  3. Storia….grazie per questo scritto.Non si finisce mai di imparare

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  4. Ti ricordi Gianni come si chiama l’attrezzo? Mio papà ne andava fiero ma non ricordo se fosse “di famiglia”.

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  5. Risposte
    1. Non ho trovato riscontri in merito. Un attrezzo simile, la ranghina, serviva per la paglia, ma la picca degli zattieri della Brenta si chimava sapìn, come quelli più grandi che conosciamo noi. Nell'Astico però non potevano fluitare le zattere di tronchi, bensì bore libere, perché l'alveo era troppo stretto e tortuoso. Quindi è plausibile l'uso di una picca di governo diversa. Indagherò meglio su contesti più comparabili.

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  6. I menadori del Piave chiamavano quell'attrezzo "angér", quindi è molto probabile che da noi lo chiamassero ranghiéro. Ci ritorneremo su...

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