giovedì 17 novembre 2022

On poche de menàde

 


Da un po’ di tempo, al sopraggiungere dell’autunno, arriva puntuale anche la nostalgia del Ritorno dal Bosco. È questa una rievocazione storica che ha lasciato il segno nella nostra comunità, e non solo. Un evento corale che coinvolgeva l’intero paese e faceva riemergere d’incanto memorie sopite e antichi attrezzi, strumenti e abbigliamenti.

Rievocava l’epopea della “Singèla”, quando su quella strada si articolava l’economia del paese nell’indissolubile rapporto della nostra gente con la montagna. In realtà la Singèla incarnò questo legame per un tempo relativamente breve, ossia dal 1870 al 1950 circa, un ottantennio in cui il trasporto del legname venne effettuato con i barossi trainati dai muli.
La memoria di come avvenisse prima il divallamento del legname è andata ormai persa, come pure le sue modalità e tradizioni, essendo un vissuto dei nostri bisnonni e non più dei nonni. Avveniva attraverso le menàde, che caratterizzarono lunghi secoli della nostra storia paesana; assieme alla fluitazione dei tronchi lungo l’Astico fino alle segherie situate nella Pedemotana, cosa che oggi ci sembra impossibile, a giudicare dalla portata del torrente. Eppure….
Qualcosa è rimasto nella toponomastica, che riporta qualche termine riferito alle menàde: Menaòre, Strodo fra i du menaùri, Menaòr dj Salti, Menaòr del Chestele, ecc. Luoghi situati ai lati e sopra il Sojo, utilizzati prevalentemente per il legnatico. Il menaòr maggiore, quello che raccordava con l’Altopiano e permetteva un divallamento diretto, rimaneva tuttavia il solco vallivo della Val Torra, dal ponte de Rossato fino a quello delle Sléche.
Di questa via abbiamo già scritto in precedenti post, cui si rimanda:

Vediamo invece come veniva effettuato il taglio del bosco e la preparazione dei tronchi (bóre) per le menàde.
Il taglio delle piante, prevalentemente pìssi e avìssi, ma anche làrese e fagari, veniva fatto interamente a mano, un lavoro pesante e pericoloso che faceva affidamento sulla forza fisica e sull'esperienza. Allora gli alberi venivano abbattuti con la scure e il taglio era effettuato molto in basso, vicino al terreno. Poi con menaròti e róncole si tagliavano i rami e con lo scorsarólo veniva tolta la corteccia; infine si sezionavano i tronchi a misura con i segùni a dó man. Dopo queste operazioni, le bóre dovevano essere portate a valle attraverso il bosco, un'impresa impossibile da far completamente a mano. L'ingegno e il lavoro di generazioni aveva pertanto dato vita a soluzioni in grado di rendere più agevole l'impresa. L’intestazione delle bore a corona, il traino fuori dal bosco col balansìn tirato dai muli, in ultima con l'impegno di improvvisate teleferiche; non ultimo il trasporto a coppie, dove necessario. Fortunatamente c’erano le valli, dove approntare delle sorte di canalizzazioni di tronchi su cui far scorrere le bore: le menàde appunto!

Erano queste strutture parzialmente in legno, sorta di "canalizzazione" fatta con grossi tronchi che guidavano la bóra contenendola al proprio interno. Qualora ci fossero da affrontare delle curve, l'inversione del moto ai tornanti avveniva con un ramo morto in contropendenza, in cui la bóra si fermava per inerzia. Il rampin del boscaiolo provvedeva poi a riavviarla verso il basso. Il trasporto a valle si faceva preferibilmente d'inverno; il canale veniva riempito di neve per poi essere bagnato e lasciato gelare. Il condotto diventava molto scivoloso e garantiva lo scivolamento dei tronchi dalle alte quote fino al fondovalle con relativa facilità. Ecco che allora sule testate delle valli si accumulavano grande cataste di legno, i cosiddetti tassòni, pronte per essere poi divallate con le menàde non appena l’inverno lo consentiva. Analogamente venivano impilate a valle, sugli spalti prospicenti l’Astico, in attesa che lo scioglimento delle nevi a primavera ingrossasse il torrente e consentisse la fluitazione. 

Le bóre erano tagliate con un margine di tolleranza di circa 18 cm per compensare i danni provocati sulle testate dei tronchi durante le fasi di esbosco dallo sbattere fra loro o contro i sassi. All’operazione di sezionatura seguiva la fase di scortecciatura. Veniva tolta a mezzo di accette la corteccia dal tronco. Ed era forse la fase peggiore,  perché, mentre in estate quando le piante le sùa, la corteccia si toglie facilmente col scorsarólo, in primavera ed in autunno è come tagliare legno e l'operazione diventava lunga e laboriosa. La scortecciatura era propedeutica a ridurre l’attrito e a favorire lo scivolamento, oltre che a migliorare l’essiccazione e ridurre gli attacchi dei parassiti.
Sempre utilizzando l’accetta veniva praticata sulle testate dei tronchi la cosiddetta “corona” (smussatura delle testate). La corona era tripla ovvero venivano praticati tre cerchi di smussi successivi per arrotondarne il profilo. Veniva praticata specialmente nei tronchi più grossi, mentre sui cimali bastavano smussi fatti alla meno peggio. L’operazione di smussatura era svolta di solito dai boscaioli più esperti e con le menàre gussà ben pulito. 

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