[Gianni Spagnolo © 24I3]
Nel mentre si discute e ci si accapiglia sul ritorno dei grandi predatori, non ci avvediamo che tanti piccoli mostriciattoli stanno lavorando indefessamente sottotraccia per modificare il nostro paesaggio.
Orsi e lupi fanno molto scalpore, attirano l’attenzione e richiamano il nostro immaginario collettivo, alimentato dalle ataviche paure delle favole della nostra fanciullezza. Ci fanno invece tenerezza caprioli, camosci e leprotti, salvo quando non impattano improvvisi sulla nostra vettura, o ci devastano l’orto; allora magari arrivano anche le oche, tante! I cinghiali non godono di buona stampa, troppo invadenti e prolifici e devastano i coltivi. Vogliamo la natura bella, rigogliosa e selvaggia, ma non siamo disposti a pagarne il prezzo. Vogliamo trattare gli animali come i cristiani, ma non è detto che loro apprezzino. Loro seguono l’istinto, noi la ragione (almeno così dovrebbe essere), ma non è sempre certo che la ragione abbia ragione.
Anche il mostriciattolo citato in premessa segue il suo istinto ed esegue diligentemente il compito che gli ha assegnato Madre Natura. Lo fa in silenzio e sottotraccia, ma i suoi effetti lasciano il segno, e che segni! Mi riferisco al bostrico tipografo (Ips typographus), un vorace coleottero che, nel suo silenzio operoso, sta colonizzando gli abeti rossi intorno a noi. Potremmo magari pensare che gli aghi color ruggine che ricoprono sempre più queste piante siano legati alla stagione, ma l’abete rosso è un sempreverde, e deriva il suo nome dalla tinta della corteccia e non delle foglie. La verità è che gli alberi con chiome di questa sfumatura stanno morendo, finiranno per perdere tutti gli aghi e diventare grigi: a copàrli, carimìe, a xe proprio sto baéto chìve!
Non si tratta, come per molti esseri viventi di cui si sente parlare ultimamente perché dannosi per l’ambiente, di una specie invasiva: da noi il bostrico è endemico, non un foresto. È un naturale abitante dei nostri boschi, nonché fondamentale per la perpetuazione della foresta come ecosistema. Il suo obiettivo abituale, infatti, sono gli alberi indeboliti, troppo vecchi o in situazioni di difficoltà fisiologica, sotto la cui corteccia scava intricate gallerie, interrompendo il flusso della linfa e avviando così il processo di decomposizione del legno morto.
Questi che sono i normali processi che avvengono nei boschi in maniera equilibrata, sono stati però stravolti da una serie di eventi che hanno favorito il proliferare del bostrico con numeri che non si erano mai visti prima sull’arco alpino. Come mai, quindi, un insetto che popola da sempre i nostri boschi riesce a causare così tanti danni al suo ambiente?
L’epidemia di bostrico ha avuto come causa principale la tempesta Vaia e come concausa la siccità della stagione estiva del 2022. A questo si sono aggiunti i danni da neve che si erano verificati nella stagione invernale 2019-2020. Il 28 ottobre 2018 Vaia ha provocato la caduta di milioni di alberi in diverse regioni: si è trattato di un evento senza precedenti, causato da condizioni particolarmente avverse per gli abeti rossi, che hanno un sistema radicale superficiale, particolarmente vulnerabile alla combinazione di piogge abbondanti seguite da venti straordinariamente potenti. Conseguenza della catastrofe di Vaia è stato il diffondersi del bostrico, che ha trovato un’abbondante fonte di cibo nei tronchi degli alberi abbattuti. Una volta esaurite le risorse a terra, dato che gli alberi sradicati, dopo qualche tempo, non sono più appetiti al vorace baéto, gli insetti si sono riversati negli abeti rimasti in piedi, risparmiati dalla tempesta. Da qui il disastro visibile!
Gli abeti sopravvissuti, infatti, all’inizio hanno resistito all’invasione del coleottero, ma la prolungata siccità e le temperature più elevate del normale, associate alla carenza di pioggia, hanno provocato un terribile stress idrico e il crollo delle loro difese, lasciando campo libero al bostrico.
Pare che anche l’etologia di questo animale abbia avuto un ruolo importante nella sua rapida diffusione. Il bostrico nasce, si alimenta e cresce all’interno dei tronchi colonizzati, rimanendovi finché non raggiunge la maturità sessuale. A quel punto, il bostrico può allontanarsi anche di un paio di chilometri o più per andare alla ricerca di nuove piante sofferenti da colonizzare. Quando invece siamo di fronte a un’epidemia, il suo istinto cambia sensibilmente: per riprodursi, il bostrico non compie più grandi tragitti alla ricerca di piante sofferenti, ma colpisce direttamente quelle sane.
Al termine del suo ciclo riproduttivo annuale, il bao cerca un posto in cui svernare, che può essere all’interno delle gallerie scavate o più spesso nelle scaglie della corteccia. Negli inverni molto freddi la sopravvivenza si attesta intorno al 20-30%, mentre in quelli miti o caldi può arrivare dell’80% o più. Quando le temperature esterne, in primavera, raggiungono i 18°C circa, il bostrico esce e ricomincia un nuovo ciclo.
Nella straordinaria diffusione del bostrico non c’è nulla di intrinsecamente malvagio, e anche se ci fosse, la natura si è evoluta senza tener conto dei nostri principi etici. Per riconoscere che una pianta è stata attaccata, il sintomo principale da osservare è il cambiamento di colore, di solito piuttosto repentino. La chioma, da verde, diventa rossiccia, rosso scuro, infine grigia, poi cadono gli aghi. il bostrico è detto “tipografo” perché scava un sistema di gallerie dalla forma caratteristica e riconoscibile. Sulle Alpi, l’abete rosso è il suo ospite preferito, rappresentando il 99% delle vittime. Nei boschi fortemente colpiti, si possono osservare abeti rossi morti e larici o abeti bianchi vivi intorno.
In fondo, siamo noi che abbiamo creato le condizioni per rendere il bostrico epidemico: se non fosse per la coltivazione dell’abete rosso e per il riscaldamento in atto, il bostrico rimarrebbe lì dove è sempre stato, svolgendo le sue azioni senza interferire con gli interessi umani. I boschi che abbiamo oggi sono il risultato delle piantagioni di abete rosso effettuate a partire dagli anni ’20 dello scoro secolo, e sia Vaia sia il bostrico sono una lezione che dobbiamo imparare e applicare per gestire meglio i boschi nei prossimi decenni. Sarà opportuno andare verso boschi a composizione mista, dove insieme all’abete rosso ci siano altre specie di alberi che possano ricostruire la copertura, ma in modo più resistente. Siamo abituati a vedere il mondo a nostra immagine, convinti che i boschi da noi costruiti siano naturali anche se così non è. Perciò quando un piccolo insetto si rende colpevole di una distruzione che noi operiamo su scale molto più ampie, fatichiamo ad accettarlo. Debellare il bostrico tipografo non è possibile, dobbiamo prenderne atto. Nell’Alta Val d’Astico i boschi di abete rosso sono stati piantumati prevalentemente nei primi anni Settanta, utilizzando le vanéde abbandonate; ad una quota troppo bassa per la specie, nonché con criteri di spaziatura assurdi. Il risultato è quello che vediamo. C’è forse da sperare in Delmo, che da tipografo a tipografo, riesca eventualmente a stabilire un dialogo col vorace baéto e indurlo a più miti consigli.