domenica 28 febbraio 2021

I regna!

【Gianni Spagnolo © 21II6】
Il mondo de stiàni, si sa,  contemplava l’esistenza di tutta una serie di strane ed ineffabili presenze che si sono poi prontamente dileguate all’affacciarsi della modernità. 
Forse, tipi come il salvanélo, grande esperto nell’ingropare le coe dj muli in stala, poteva aggiornarsi a incatjiare i fili dei telefonini in carica notturna. Le anguane potevano sfruttare la moda di ubriacarsi d’acqua, sguazzandoci come la molecola di sodio della pubblicità.  L’orco era già stato sdoganato da Schrek e gli bastava magari depilarsi un po’, anche nei posti al posterno e parlare politicamente corretto per perpetuarsi nei tempi nuovi. Ma non l’hanno fatto: hanno capito subito che non era più aria e che la razionalità avrebbe fato tabaco de tuto. Questo per stare alle figure un po’ strambe e facete di quel mondo; mondo che però annoverava anche presenze ben più serie e tenebrose, che incutevano timore e rispetto alla sola evocazione. Erano spiriti, spiriti inchieti, spiriti di morti, spettri dell’altro mondo che comunque arrivavano in qualche modo ad interagire col nostro. Cuj chj regnava!
I regna! 
Quand’ero bambino e udivo talvolta questa espressione sulla bocca degli adulti, espressa con un misto di stupore e timore, restavo inbatunìo. Chi jérelo chj regnava? Andove? Come? Parché i regna?
Le storie andavano alla vigilia dei Morti, a quelle riunioni di famiglia con castégne e vin novo che si facevano al ritorno dal cimitero. Mi ricordo quei giorni sempre freddi, uggiosi e un po' inquietanti, specie nel crepuscolo agitato dalle fiammelle dei lumini sulle tombe che noi boce andavamo a tenpelare per strapparne la cera molliccia e come prova di coraggio.  Era lì che si percepiva che c’era un mondo parallelo dove si agitavano spiriti inquieti che riuscivano, in qualche arcana maniera, ad interferire con noi. I morti infatti non se n’erano mai andati, come recita l’incipit di quella poesia di H.S. Holland, che infiora troppe epigrafi: 
"La morte non è niente. Non conta.
Io me ne sono solo andato nella stanza accanto..".
Il fatto è che dalla stanza accanto queste presenze a volte si facevano sentire; eccome se si facevano sentire! Rumori strani, rantoli, porte che si aprivano e cose che cadevano senza apparente motivo. Ecco, era allora che regnavano. In particolari finestre temporali, in qualche circostanza familiare, in determinati stati psicologici, loro facevano sentire la loro presenza; a volte discreta, altre meno, ma ci tenevano a far capire che c’erano.
Non entrerò nei particolari, perché a qualcuno non salti in mente di propormi per un TSO in tempo di Covid, ma io da bambino ho sentito che i regna; ancamassa sa lo go sentìo!
Sordi tonfi nella notte, scricchiolare di vecchie scale di legno, cigolamenti di cùbie, .. passi felpati dall'ossessiva cadenza. Aveva un bel dire, la mia mamma, ca sara stà el vecio Silvio, delà dal muro, che ghe zé cascà la flassa. Nossignori, erano quelli che i règna, ne ero certo.
Da dove derivi questo “i regna” non è poi molto chiaro. Non credo venga dal corrispondente verbo italiano, perché non esiste nel nostro dialetto, mentre  l’espressione rimanda a relitti di tempi assai remoti, quando echeggiavano ancora reminiscenze pagane. 




La pagina della domenica



In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.




La seconda domenica di Quaresima, presentando sempre il racconto della trasfigurazione di Gesù, conduce il credente a operare il passaggio dal deserto della tentazione (messaggio della prima domenica di Quaresima) al monte della Trasfigurazione. Passaggio simbolico di un cammino quaresimale-pasquale che si compie in una trasformazione. E se vi è un’unicità non imitabile nella trasfigurazione di Gesù, in cui non è tanto la sua realtà che cambia, ma è la capacità di vedere dei discepoli i quali riescono a scorgere in lui ciò che lui è sempre e in verità, tuttavia a un cambiamento siamo chiamati noi. Il cambiamento che passa attraverso la prova, l’essenzialità, lo spogliamento. C’è un passare attraverso le prove che la vita ci propone che non possono lasciarci indifferenti e che incidono su di noi.

Marco situa la Trasfigurazione di Gesù sei giorni dopo la confessione di fede di Pietro, il primo annuncio della sua passione, morte e resurrezione e l’annuncio della passione del discepolo (Mc 9,2). Marco ricorda anche le ultime parole pronunciate da Gesù sei giorni prima e che riguardano Pietro, Giacomo e Giovanni, ovvero i tre discepoli che Gesù prese con sé e portò in alto sul monte dove poterono assistere alla sua trasfigurazione: “In verità vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza” (Mc 9,1). Che cosa videro Pietro, Giacomo e Giovanni sull’alto monte? Videro Gesù avvolto nella luce divina, ovvero, videro Gesù come l’uomo su cui regna in pienezza Dio stesso, videro il regno di Dio nella sua potenza e maestosità.

In verità, Gesù non sta solo promettendo ai discepoli che essi vedranno da vivi il regno di Dio nella sua persona trasfigurata, ma sta anche dicendo loro che il cammino di sequela dietro a lui esige l’integrazione della prospettiva della propria morte: “non gusteranno la morte prima di aver visto …” (cf. Mc 9,1). Anche il vedere il regno di Dio nella sua potenza non toglie la fragilità della condizione umana e lo scacco della morte. Come Gesù ha appena detto ai discepoli, a chiare lettere, che il cammino dietro a lui comporta per il discepolo sofferenza e perdite (Mc 8,34-38), così ora sta ricordando che la sequela della sua persona si spinge fino alla morte, esige dunque che il credente diventi sempre più cosciente che in quella vita in cui cerca pienezza di senso e di gioia, troverà anche la morte, la fine della vita.

Ecco dunque che sei giorni dopo Gesù conduce con sé su un alto monte tre discepoli. Tra i tanti riferimenti che cercano di rendere maggiormente intelligibile la notazione “sei giorni dopo”, vale la pena di ricordarne una. Nel testo di Esodo 24,9-18, in cui si parla della conclusione dell’alleanza, Mosè sale sul monte Sinai, e vi sale con tre personaggi: Aronne, Nadab e Abiu. La nube, segno della presenza di Dio, copre la montagna per sei giorni e al settimo giorno il Signore chiama Mosè, fa sentire la sua voce e manifesta la sua gloria, gloria che aveva l’aspetto di una fiamma luminosa. Le analogie con il racconto della trasfigurazione sono numerose. Gesù, sul monte alto, fa un’esperienza di tale vicinanza e intimità con Dio che il suo stesso aspetto si svela essere abitato dalla gloria e dalla luce divine.

Notiamo anche che i verbi di cui Gesù è soggetto nel v. 2 (“prendere con sé” e “portare su”) suggeriscono l’iniziativa di Gesù, quasi il suo sobbarcarsi i discepoli, come se li prendesse sulle spalle, e l’introdurli in alto, quasi in un movimento iniziatico. Si tratta di un salire che tende a

un’unità, a una convergenza, a una comunione. I Padri della Chiesa hanno molto sottolineato il movimento ascensionale come essenziale per giungere a una comunione e contemplazione di Dio in Cristo. Certe spiegazioni mistiche hanno anche colto i tre personaggi come riferimento ad attributi o virtù necessari per salire la montagna della contemplazione: Pietro indicherebbe la saldezza della fede, Giacomo la perseveranza e la costanza anche di fronte alla persecuzione, Giovanni rinvierebbe alla grazia e all’amore. Ma al di là di queste letture allegoriche, è vero che c’è un comune innalzarsi, ma guidati da Gesù, c’è un comune ascendere dei tre discepoli, ma trascinati da Gesù. Gesù li conduce verso un luogo in cui ciò che conosceranno (e di cui Gesù mostra di avere ben coscienza: 9,1), rasenterà l’indicibile, tanto che egli proibirà loro di dire a chicchessia ciò che avevano visto (Mc 9,9). Vi è qualcosa di intimo e di unico che si verifica: la comunicazione della propria identità e della propria unicità da parte di Gesù. La condivisione della sua solitudine più profonda. Qualcosa che rischia di essere micidiale anche per i discepoli. Che significa entrare in questa intimità con Gesù? Che significa per la propria vita, cogliere la gloria del Signore sul volto di colui che ha appena annunciato la propria passione e morte? Che significa per i discepoli essere messi a parte della verità personale di Gesù? Non significa forse uno sprofondare nel cammino di sofferenza dietro a lui? Sì, i discepoli, così vicini alla luce (il nome Tabor, che è il monte che a partire dal IV secolo è stato identificato dalla tradizione bizantina come il monte della Trasfigurazione, significa “vicino alla luce”), comprendono oscuramente il destino di sofferenza e morte che è anche per loro, comprendono altresì che possono integrare questa prospettiva di sofferenza e morte nel loro cammino dietro a Gesù, comprendono ancora oscuramente che questa prospettiva è gravida anche di una promessa di resurrezione. Anche se per loro questa parola e questa prospettiva, “resurrezione”, come annota Marco, restano enigmatiche (Mc 9,10).

Ma comprendono anche, e meglio, chi stanno seguendo. Comprendono meglio l’identità di Gesù. Richiesti in Mc 8,28: “Chi dice la gente che io sia?”, essi riferirono almeno tre risposte: “Giovanni Battista, Elia, uno dei profeti”. Ora Gesù assicura loro che lui non è Elia, anzi Elia compare vicino a lui nella visione sul monte. Gesù assicura che lui non è Giovanni Battista, perché allude evidentemente a Giovanni quando dice che Elia è già venuto e hanno fatto di lui ciò che hanno voluto (Mc 9,13). Del resto, Marco ha già raccontato l’imprigionamento e l’assassinio del Battista (Mc 6,17-29). Gesù è colui con cui conversano Mosè ed Elia, anzi, per rispettare l’ordine messo in atto da Marco, Elia e Mosè. A questo punto Pietro esprime con trasporto la sua felicità, ma la esprime con parole belle, ma che vengono giudicate inadeguate dal narratore che si affretta a chiosare: “Non sapeva che cosa dire” perché erano preda della paura. La nube, segno della presenza di Dio, avvolge allora i discepoli e diviene lei una capanna, una dimora per coloro che volevano fare una capanna per Elia, Mosè e Gesù. Gli eventi suggeriscono di passare dall’esteriorità all’interiorità. Dalla nube viene una voce che chiede ascolto: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7). E dopo la voce, ecco la visione di Gesù solo, con loro soli. E non vedono più nessun altro. E mentre scendono dal monte Gesù li invita a passare dal non-saper-che-cosa-dire al fare-silenzio. Al custodire in sé ciò che avevano visto. Come Maria che deve meditare in se stessa ciò che ha visto e udito per arrivare a coglierne la portata, il senso, il significato (cf. Lc 2,19.51).

L’esperienza della trasfigurazione viene così suggellata dalla solitudine e dal silenzio. La trasfigurazione è certamente esperienza di grande e profonda comunione, ma il testo suggerisce che la comunione si stabilisce attorno a chi sa vivere la solitudine, a chi ha creato comunione in se stesso, a chi ha reso se stesso “comunione”. Del resto anche all’inizio del racconto Marco sottolinea la dimensione di scarto e solitudine: “alta montagna”, “in disparte”, “loro soli” (Mc 9,2). Gesù è solo con i discepoli, Gesù ha portato loro soli, certo scegliendoli di mezzo al gruppo dei Dodici, ma il riferimento è forse a qualcosa di più profondo, a una dimensione in cui l’esperienza vissuta può venire comunicata. C’è una solitudine che è la condizione stessa della comunione. E anche della comunicazione. Come se quel “solo” riferito a Gesù designasse una dimensione di solitudine che nessuna vicinanza e intimità può abolire. Del resto, pur nella prossimità, vi è una grande distanza fra Gesù e i discepoli, distanza emersa quando Gesù ha rimproverato Pietro che mostrava di non capirlo e si rifiutava di accogliere l’annuncio della sua prossima passione e morte. Così quel “soli”

con cui sono definiti i discepoli può far appello a una dimensione a cui saranno rinviati proprio dall’incontro sul monte. Scendendo dal monte Gesù dirà loro di non comunicare a nessuno ciò che avevano visto, e il silenzio della discesa dal monte è anche il segno di una solitudine ancor più profonda in cui essi sono invitati a entrare. Iniziata nella solitudine, la trasfigurazione termina nel silenzio. Perché spesso solo il silenzio consente di non deteriorare la qualità dell’esperienza spirituale e delle relazioni, l’intensità e la profondità dei vissuti. La solitudine e il silenzio consentono così al credente di entrare nella conoscenza di Gesù e di partecipare della luce che dal suo volto promana e può illuminare il suo cammino costellato di difficoltà e di contraddizioni.

LA FRASE

Iniziate a fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. 

E all'improvviso vi sorprenderete a fare l'impossibile

SNOOPY


 

sabato 27 febbraio 2021

In gual note, .. mejo scrivare!

【Gianni Spagnolo © 21II4】

Tarè che la riva in gual note!… Diceva mio padre prevedendo la neve, guardando verso il cielo lattiginoso e annusando l’aria che si faceva frizzantina. Ogni tanto lui se ne usciva con qualche arcaismo che m’incuriosiva, specie se non l’avevo mai sentito prima. Cosa significava quell’in gual, o ingual, o qualcosa dal suono analogo? O meglio, il senso lo capivo, voleva dire evidentemente: verso, all’approssimarsi di qualcosa, prima di; ma da dove veniva quell’espressione? Era talvolta sulla bocca dei  vecchi, anche di mia nonna, tipo: vardé tusi d'essar casa in gual note. Che era un invito ad andar casa prima che facesse buio. Biòn essar in sima ala Singéla in gual dì! Era la raccomandazione di partire presto per andare in montagna e giovarsi di tutte le ore di luce.
Espressioni così non le ho mai più sentite fuori dal paese. Nei dialetti veneti non ho trovato riscontri, perciò è probabile sia un localismo. Neanche nel Cimbro pare ci siano riferimenti, pur potendo essere una corruzione di innghian, Ingang (entrare, andar dentro, ingresso), o innghem (imboccare), che potrebbero adattarsi entrambi al contesto.
Vabbé, fermiamoci qui! 
Eppure la nostra civiltà è basata sulle lingue: dall’accadico, all'ebraico, al latino, passando per il greco. Si è tagliato il capello in quattro su ogni loro espressione, lemma o segno grafico, ma della minuscola civiltà analfabeta nostra non se n’è occupato mai nessuno.  È rimasto e ha avuto credito solo ciò che è stato scritto, null’altro. Salvo non mettersi a scavare, ma i nostri reperti erano tutti deperibili, varatì! La scrittura rappresenta il vero discrimine fra ciò che è degno di considerazione e ciò che non lo è. Sappiamo tutto dei contorti e fantasiosi miti fondativi dell’antica Grecia, finanche di Babilonia, per non parlare degli antichi Egizi, vecchi di millenni. Inutile dire della Torah, la Legge per antonomasia, messa per iscritto oltre 25 secoli fa, ma della nostra gente praticamente niente. Nessun Leonida, nessun Ulisse, nessun Davide e men che meno Augusto hanno mai albergato fra di noi e se mai ce n’è stato qualcuno, anche di piccolo piccolo, non ha lasciato traccia scritta. Ma noi siamo perdenti, si sa! Lo siamo sempre stati e non c'è da stupirsi se non abbiamo mai meritato menzione. Persino i popoli barbari, tanto temuti e infine vincitori, hanno lasciato scrivere la loro storia dai nemici romani e in latino; e non è detto che l'abbiano scritta giusta. Quel che non è stato redatto, semplicemente non è stato. Sarebbe tuttavia interessante conoscere gli eventi non attraverso quel che è stato scritto, ma semplicemente da quel che è stato e basta. 
Il punto è che  in passato scrivevano i pochi con solida cultura e formazione e perciò raramente a vanvera. Oggi invece chiunque può scrivere qualcosa, e in molti anche a vanvera, come il sottoscritto. Chissà dunque che idea si faranno di noi nel futuro. Mi sa tanto che i posteri capaci di leggere uno scritto saranno anch'essi in pochi, dovendo essere acculturati per decifrare una scrittura che nel frattempo sarà stata superata dalla cultura effimera dell'immagine, così come noi oggi con i caratteri cuneiformi. Però è proprio fantastico il potere della parola scritta! Ancamassa, ciò!

SNOOPY


 

giovedì 25 febbraio 2021

Tiracamìnti

【Gianni Spagnolo © 21I23】

Le bretelle sono nate verso la metà del Millesettecento, con lo scopo di sostenere i pantaloni.  All’epoca si portavano nascoste dal gilet, per questo sono rare le raffigurazioni pittoriche di questo accessorio. Il loro primo vero testimonial fu Benjamin Franklin, celebre scienziato e padre fondatore degli Stati Uniti, che fu anche ambasciatore in Francia. In questa circostanza si presentò a corte con un paio di originali pantaloni sostenuti da due fasce di stoffa: le bretelle. La curiosità, e la novità che suscitarono nell'elitè nobiliare francese, furono il trampolino di lancio per la loro diffusione. Le prime bretelle erano fatte da due strisce in stoffa o in pelle leggera che si incrociavano nel dorso e che venivano agganciate al pantalone con uno strano sistema a molla con ganasce d’ottone, che ne permetteva una limitata elasticità. Con l’introduzione del caucciù le bretelle si evolsero, diventando elastiche e confortevoli. Nel corso della Grande Guerra cominciarono però ad essere sostituite dalla cintura che, usata nella divisa dei soldati, si diffuse poi della moda popolare maschile. Le bretelle furono per tutti gli anni '20 un obbligo per l’abito formale dei ceti più elevati, mentre la cintura rimase da allora l'accessorio preferito dalle masse. I pantaloni a quel tempo erano ancora senza passanti, una dotazione  che s’imporrà infatti solo a partire da quegli anni. 

La mia generazione credo sia stata l’ultima a portare le tirache.

Io odiavo le tirache!

La prima volta che misi la cintura fu una liberazione epocale, mi stavo emancipando da tutta quella moda imperante da noi negli anni sessanta, quali: le braghe curte al denocio, la roba de lana fata su misura che la becava tuta, le calse de lana grossa co l’astico da mudanda emostatico, le fanéle cole màneghe longhe, le mudande col patelòn verto, le baréte cole reciàre e così via. 

Su misura poi era per modo di dire. La roba veniva confezionata con l’eterna precauzione che il bocia paràva, cioè sarebbe sperabilmente cresciuto e quindi andava fatto tutto più grande, col risultato che non c’era mai niente che ti cascasse giusto. Ed era comunque fortunato chi non aveva fratelli più grandi. Le tirache allora le nava de oro, dato che tenevano su anche un sacco. 

Se poi le mojéche dele tirache non si chiudevano bene perché le jera dò de susta, bastava fare una falda sulla braga e .. voilà, che si rimediava il problema. Tsé, magari! Il massimo del fastidio capitava d’inverno, quando, dopo un movimento brusco, ti saltava la tiraca e rimbalzava oltre la spalla sotto il maglione di lana antiproiettile e bisognava prodursi in contorsioni animalesche per recuperare il tirante e fissarlo al suo posto.

Cose che voi umani di oggi neanche v’immaginate!



Foto del 1972 - il 50esimo della classe del 1922

 


01 - Don Francesco Zago

02 - Assunta Pesavento

03 - Maddalena Pretto

04 - Celso Alessi

05 - Mario Costa

06 - Battista Pertile

07 - Rita Righele

08 - Clelia Spagnolo

09 - Luigia Stefani

10 - Luigia Cerato

11 - Emilia Fontana

12 - Caterina Spagnolo

13 - Mario Lucca

14 - Giovanni Lorenzi

15 - Fulvia Lorenzi

16 - Elio Lucca

17 - Francesco Toldo

18 - Giovanni Toldo


(foto da Gianna Lucca)

SNOOPY


 

martedì 23 febbraio 2021

El carrarmato

【Gianni Spagnolo © 21II5】
Con l’esperienza maturata sul campo mi sa che avrei dovuto servire nei Carristi, invece di perdermi via come assaltatore degli Alpini. Già, perché m'ero applicato fin da bocia alla progettazione di cararmati sempre più progrediti e veloci. Capitava in quelle interminabili giornate autunnali dalla pioggia incessante, quando mia madre o mia nonna si dedicavano a tricotare o a repessare. Allora si apriva quello scrigno magico che era la casseta dei feri di ogni brava massaia: la scatola cucito.
Già la struttura di quella scatola di legno di faggio dai grandi manici, con i cassetti incernierati fra loro che scivolavano disciplinatamente ai lati durante l’apertura, era tale da attirare l’attenzione del Leonardo in erba che ero. Poi quello che c’era dentro: gucie, gucini, botùni de tute le fate, pesséte, portagucie, pontapeti, rochei, .. e po l’ovo da calsa, l’uncineto, ecc.  No, non avevo la vocazione dello stilista, per carità, ma solo la periodica necessità di controllare il consumo dei fili sui rochèi. 
A ghéa a l'ocio el rochelo. 
Non vedevo l’ora che finisse, per farmelo dare per la costruzione del cararmato. Talvolta ne anticipavo l’esaurimento avvolgendo di nascosto i fili rimasti su qualche altro rochelo di colore simile. Col bianco e col nero, che allora erano prevalenti, se nava de oro, anca se a ciapàvo le mìe quando me mama la se catàva col filo xoncà in man.
Le mie attività di costruzione bellica non erano perciò molto ben viste in casa, anche perché poi monopolizzavano l’uso dela tola. Il rocchetto di legno di faggio, liberato da quell’inutile filo avvolto, era oggetto di attento studio per incidere le capéte sui suoi rialzi laterali. Si trattava di fare delle tape regolari col corteléto, accessorio indispensabile che ognuno di noi aveva allora in scarsèla e non abbandonava mai. Poi bisognava recuperare i ástici per la trasmissione. Lì occorreva un po’ improvvisare perché non c’erano mai della misura giusta e bisognava intorcolarli; inoltre erano spesso veci e i te restava in man da gnente.  C’erano quei da mudanda, ma non andavano per niente bene. Infine serviva un toco de matita, na sicoléta o un fuminante per caricare per bene il meccanismo e far da timone. Per fare in modo che la potenza elastica venisse erogata in modo costante, bisognava interporre sul fascio degli elastici una rondella di cera ricavata segando una candela, a mo' di freno. Era un'arte anche saper parar torno pulito i astici, tirandoli al limite ma evitando che si rompessero. Erano un paio gli aspetti di fisica e meccanica che condizionavano la buona riuscita del progetto: l’autonomia e la mobilità rettilinea del mezzo. In sostanza il cararmato doveva procedere diritto e fermarsi per ultimo. Si, perché il mezzo veniva messo a punto in casa e collaudato sulla tola, ma era poi nelle gare con gli amici che doveva esprimere il massimo della potenza. Per questo servivano astici boni e battistrada ben bilanciati. No ghe jéra de pèdo del cararmato chel partiva in tropa e po el svoltava suito de chìve o de lìve, lassando i altri nar vanti driti gualivi. 




 

Il Capitello dei Cerati

Oggi è il primo giorno dell’anno, festività di Maria Madre di Dio.

Ci pare quindi doveroso iniziare questa rassegna dei capitelli di San Pietro partendo dal primo che accoglie in visitatore che arriva da nord, inerpicandosi per la Pontara.

Il capitello è detto anche “della strada”, oltre che per la collocazione, anche  in virtù della sua funzione di protezione della circolazione. Si ricorda infatti che una sera di maggio1958 un giovane ciclista di Arsiero fu coinvolto in un grave incidente proprio in quel luogo.
Questa sua funzione venne ribadita anche il giorno dell’inaugurazione con la benedizione delle poche automobili di allora da parte del parroco Don Emilio Garbin.

Il sacello venne ideato e costruito nel 1960 da Bortolo Cerato (Bortoléto Saràto), su sollecitazione degli abitanti della contrada, orfani di capitello da quando venne abbattuto quello più antico di cui si ha memoria e che era probabilmente collocato sul tracciato della Pontara Vecia, costruita un secolo prima.  Non si conosce la dedicazione di questa precedente edicola, ma è verosimile che fosse anch’essa intitolata alla Madonna.
Il Capitello difatti era sentito come la “Chiesa” della contrada. Attorno ad esso ci si riuniva per la recita del rosario nei mesi maggio e ottobre, per le festività specifiche e per speciali ricorrenze. 

Contrà Cerati annoverava all’epoca 120 abitanti e 25 famiglie; la somma preventivata per l’erezione del sacello era di 120.000 Lire, ovvero 1.000 Lire pro capite, da raccogliersi tramite colletta. Il consuntivo finale fu invero più oneroso: 154.540 Lire. Il totale delle entrate al 30/7/1961 ammontava a 109.140 Lire e il cospicuo disavanzo fu coperto negli anni seguenti dalle elemosine della cassettina e da contribuzioni di offerenti.

Artefice ne fu appunto Bortolo Cerato, coadiuvato da Don Rocco Dal Prà, curato di Casotto, nella decorazione delle colonne.
Bortoléto era della classe 1898; si trovava a lavorare in Etiopia (AOI) quando scoppiò la guerra e fu fatto prigioniero dagli inglesi che lo internarono in un campo di prigionia in Rhodesia. Qui ebbe modo di farsi apprezzare per le sue doti umane e professionali e si fece anche promotore ed artefice della costruzione di una chiesa, mettendo a frutto la sua abilità di muratore e carpentiere.
Fu infatti da quel progetto di tempio che egli trasse spunto per il capitello, costruendone prima un modellino in legno, tuttora conservato dagli eredi.

L’edicola si presenta infatti nell'artistica foggia di tempietto, con un basamento in muratura rivestito di lastre in biancone al grezzo, sormontato da 4 coppie di colonne decorate reggenti la cupola cava in cemento, con croce sommitale in marmo.

Nel vano aperto formato dalle colonne perimetrali è collocata una statua della Madonna in posa orante, in pietra naturale di Vicenza. Sul lembo del mantello è inciso il verso latino "ITER PARA TUTUM" (Veglia sul nostro cammino), tratto dall'antichissimo inno dell'Ave Maris Stella.
Lo spiazzo antistante è arredato con due panchine in ferro per la sosta e c’è anche un piccolo boschetto di pini a fargli da quinta ombrosa.

Il capitello fu eretto con unanime concorso di popolo, come si suol dire in questi casi, ovvero con la partecipazione morale o materiale di tutti gli abitanti, così come dovette sempre essere avvenuto per ogni analoga circostanza in Valle.
Anche i ragazzi della contrà parteciparono alla costruzione, prestando aiuto secondo età e capacità, portando sabbia, cemento e materiali edili.
Quando Bortoléto collocò la targa in marmo volle che tutti i ragazzi presenti scrivessero il loro nome sul retro della pietra, affinché, così diceva, se un giorno qualcuno l’avesse rimossa, avrebbe trovato anche la loro memoria.
Forse con quel segno avrà voluto anche affidare quei giovani alla Madonna.

Le famiglie contribuirono con prestazioni d’opera e oboli annotati diligentemente su un quaderno, conservato e messoci a disposizione per questa occasione da Silvio Eugenio Toldo (Genio Polaco).
Il terreno del sito dove collocare il capitello fu donato da Giovan Battista Spagnolo (Tita Lusso) ed era proprio prospiciente il nuovo stradone della “Pontara”, costruito pochi anni prima per consentire un più agevole collegamento fra il centro del paese e il nuovo ponte sull’Astico.

Nella costruzione di questa strada perse purtroppo la vita un giovane quattordicenne del paese, Ezio Gianesini, travolto da un masso sotto i cogolìti;  un lutto che scosse il paese e funestò la legittima soddisfazione per questa nuova importante opera.

Gianni Spagnolo 

Inaugurazione Capitello Cerati

 

foto da Gianna Lucca 

SNOOPY


 

domenica 21 febbraio 2021

Valli thormentate

【Gianni Spagnolo © 21II8】

Quel giovedì dell’anno del Signore MCCIV, nell'ultimo giorno del mese di settembre, convenuti solennemente al Pra' della Varda di Cogollo, i rappresentanti delle comunità dell'antica Corte di Valle e dell’Altopiano stabilirono pacificamente i confini dei loro territori elencandoli uno ad uno lungo i limiti orografici naturali. 

Descrizione dei confini della Corte dell'Altopiano - 30/09/1204
Una ventina d'anni prima, la Pace di Costanza aveva sancito di fatto la fine del feudalesimo e la nascita dei primi liberi comuni ed è appunto in questo contesto che i nostri paesi sulla sinistra orografica dell'Astico si appropriano delle loro nuove prerogative. Pur sotto l’egida dei loro Signori, ossia i Ponzi di Breganze e i fratelli Andrea e Guidone Ruberti dal Castelletto. É praticamente la data di nascita dei Sette Comuni, dei quali Castelletto fu l'embrione. 

Il documento è arcinoto, per cui non mi dilungo, soffermandomi solo su un passo che ci riguarda: .. usque ad vallem rotundam et venit in gaybo Astici.. ossia fino alla Valle Rotonda e al greto dell'Astico. Così è denominata infatti la nostra valle della Torra nel novero dei confini. Questo è fra gli atti più antichi che la menziona, ma il termine ricorre anche in epoche successive, almeno fino al XVII secolo. 

Quale sarà la sua origine etimologica?

Non sfugge il fatto che nel solco vallivo parallelo più a monte scorra il Riotorto, o Rotòrto, dal suono assai simile e probabilmente della medesima radice. Per risalire alla paternità etimologica della Torra si sono scomodate varie ipotesi, di romanza o cimbrica radice. Addirittura una divinità: quel Thor dagli affascinanti risvolti niblelungici e cinematografici. Dio del tuono e della tempesta, dal martello come boomerang inesorabile, figlio di Odino e marito della biondona Sif. Il prode si muoveva su di un carro trainato da due capre, e sappiamo che quegli animali s'arrampicano dappertutto. Probabilmente chi abitava dalle parti nostre  non faceva tanto caso a un savajo co la barba rossa chel nava in volta a lolòn su par la Tora sun birosso tirà da do cavre e parando torno un martelo. Figurarsi se chi credeva ad orchi, anguane, salvanéi e personaggi simili, poteva stupirsi di un tipo originale come Thor.

Co la jén da sora, no la passa la Tora”. Recita un vecchio adagio nostrano, a significare che le nubi incombenti dal Cròjere al Bìsele, si scaricavano spesso in quell'ambito senza oltrepassare la valle. Dunque è assodato che Thor giocherellasse da quelle parti con tuoni e fulmini e avesse di buon occhio gli abitanti di San Pietro.

Tondo e Torto sono suoni romanzi, ma forse non hanno granché da spartire con quell'origine essendo omofonie di termini che non si comprendevano più.  Non si capisce infatti cosa si possa riconoscere di rotondo nella Torra, o di tortuoso nel Rio Torto, che scorre nella valle più diritta del circondario. Quindi è probabile che siano adattamenti fonetici latini di toponimi dalle radici germaniche o addirittura pre-romane. 

Può essere che che abbiano stipite comune in Tor o Tüar, che in cimbro significa: portone, porta. O magari in: dor/dort: attraverso. Le due valli erano appunto varchi di passaggio da e per la montagna sulla strada di Germania che passava per la valle dell'Astico. Entrambe facevano capo ai due Ospizi e confluivano a monte all'incrocio di Monterovere, dove saliva da Santa Giuliana il sentiero del Menadór di Levico. Rappresentavano, in sostanza, uno scùrtolo della Via dell'Anzin che risaliva la Val del Centa per poi divallare da Lavarone attraverso i Sassi Donati. 

Però l'idea del Thor che si balocca con tuoni e fulmini, che erano il segno evidente del suo fragoroso passaggio, è decisamente più intrigante. Thor è appunto la divinità del tuono, e in molte lingue germaniche è radice anche del giorno di giovedì: Thursday in inglese, Donnerstag in tedesco, Donderdag in olandese e Torsdag nelle lingue scandinave. Donner è il termine per tuono del tedesco moderno, che in cimbro fa: Tóndar. Da Rio Tóndar a Rio Tondo, Torto o Rotonda o infine Torra il passo è breve. Non dimentichiamo poi che i nostri cavalari osservavano proprio il giovedì come giornata di riposo, in cui far riprendere i muli, astenendosi dal salire la Singéla. Non vorrei che questa strana scelta sia stata fatta proprio in ossequio a quella remota divinità pagana, dato che la sapevano più lunga di noi in fatto di spiriti e demoni. Tóndar dovrebbe essere anche l'etimo di Tonezza, nei cui pressi s'è incagliato il portentoso martello Mjöllnir, scagliato lassù da Thor in un impeto di rabbia e fossilizzatosi nello Spitz. Quel magico oggetto, una volta lanciato, era infatti capace di tornare dal suo proprietario indipendentemente dalla distanza e dagli ostacoli frapposti. Quando sono arrivati i monaci degli Ospizi a seppellire le credenze antiche, è probabile che il nostro eroe, che era piuttosto permaloso, si sia incavolato di brutto e abbia scagliato lontano il suo strumento andando ad autoesiliarsi nel Cógolo dele Anguane, dove trovò ospitalità e comprensione da parte di quelle figure eteree, ma a lui più affini e altrettanto reiette. Prima di gettarlo via e ritirarsi, però, si sfogò come un pazzo facendo dei dintorni una marogna a colpi di martello. Mi sa tanto che le capre e il birosso le recuperarono i sanpieroti, che sapevano come utilizzarle. Le capre di Thor avevano dei nomi slapari come Tanngnjóstr e Tanngrisnir, ma erano dotate di  qualità portentose:  Thor, durante i suoi viaggi, poteva anche cibarsene perché poi, se ne conservava le pelli e le ossa intatte, il mattino seguente sarebbero rinate. Sai che pacchia per i sanpieroti sempre affamati.

La pagina della domenica



In quel tempo, subito lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».



La prima domenica di Quaresima presenta sempre il testo evangelico delle tentazioni di Gesù. Quest’anno ci viene proposta la versione di tale episodio nella redazione estremamente concisa del vangelo secondo Marco (Mc 1,12-13) seguita dalla pericope che dice l’inizio della predicazione di Gesù (Mc 1,14-15) e che tralasciamo perché già perché commentata nella III domenica dell’Ordinario. La pagina evangelica inizia in modo inatteso e brusco: “E subito lo Spirito scaccia Gesù verso il deserto”. L’immediatezza dice che Gesù non si è preparato a questa andata nel deserto, che la cosa giunge improvvisa. E il verbo il cui soggetto è lo Spirito, il verbo greco ekballein (sospingere, scacciare) esprime una certa violenza, una costrizione. Lo Spirito getta fuori, spinge Gesù nel deserto. A dire che l’azione spirituale è un’azione non coincidente con il desiderio umano. Gesù si lascia trascinare, ma non è una sua iniziativa, una sua scelta l’andare nel deserto. Forse si vuol significare che solo la forza dello Spirito può consentire di reggere la prova del deserto e che andarvi per eroismo o protagonismo spirituale è un atto spiritualmente suicida. La radicalità del deserto può affascinare, ma essa rigetta chi vi si inizia senza la mozione dello Spirito.

Cosa avviene a Gesù? Dopo l’esperienza del battesimo in cui Gesù è tra la folla, accanto a Giovanni il Battezzatore, e ascolta la voce dal cielo che lo proclama figlio di Dio, ecco che la luminosità e la maestosità di questa esperienza si mutano nella discesa nel deserto che è invito all’interiorità, anzi, un imperioso comando all’interiorità. Se è vero che è necessario discernere il proprio desiderio per conoscersi e saper scegliere la propria vita, è altrettanto vero che c'è anche una distanza tra il nostro desiderio e la vita dello Spirito in noi. E che ci sono resistenze da vincere per entrare nella vita dello Spirito. La nostra nascita alla vita dello Spirito è dolorosa, frutto di lotta e costellata di resistenze. Di Paolo si dirà in At 20,22 che è costretto dallo Spirito ad andare dove lui non vorrebbe minimamente andare. Intravediamo lo Spirito anche dietro a quell’allos, quell’altro che condurrà Pietro dove lui non vuole (Gv 21,18). È l’altro Paraclito (Gv 14,16). Lo Spirito appare come volontà di Dio che può entrare in conflitto con la nostra, ma da cui siamo chiamati a lasciarci vincere, ovvero, ad assumerla come nostra. Del resto, questa violenza accettata da Gesù e fatta sua, questa che è violenza dello Spirito, richiama la violenza della parola di Dio che strappa Abramo dalla sua terra e gli impone di andarsene verso un luogo sconosciuto: “Vattene!” (Gen 12,1). In realtà Abramo è in una solitudine radicale anche se parte con la sua gente. Egli parte verso il vuoto che il Signore, non Abramo stesso, riempirà. Anzi, sarà un vuoto che quando la promessa di Dio sembrerà per grazia colmare con il dono di un figlio, Dio stesso provvederà ancora a ricreare chiedendo il sacrificio del figlio (Gen 22,1-2).

L’azione spirituale è dunque azione di profondità, di discesa, di abbassamento. Non di innalzamento, non di salita, ma anzitutto di contatto con il basso. Dice un apoftegma dei padri del deserto: “Se vedrai un giovane salire al cielo di sua volontà, afferralo per un piede, e scaraventalo a terra, poiché ciò non gli serve”. Non si sale se non partendo dal basso, non ci si alza se non si è caduti, se non si è conosciuto e incontrato l’inferno interiore e nominato e combattuto il nemico che è in noi. Anche nel testo di Marco quando si parla di Gesù che stava con le fiere e gli angeli lo servivano si inizia dal basso, dalle fiere, dalle bestie selvagge: si tratta di un movimento verticale ma dal basso verso l’alto, non il contrario. Chi conosce il quadro di Caravaggio “La conversione di san Paolo” ricorda che Paolo è a terra, sbalzato dal cavallo, e che, nella sua caduta, le braccia tese verso l’alto esprimono l’inizio della salita ed egli sembra quasi spinto da una forza

antigravitazionale: la caduta è l’inizio dell’ascesa. Il culmine della scala di cui parla Benedetto nella sua Regola è l’umiltà (RB VII,62ss.), l’adesione all’humus, alla terra. Chi inizia dall’alto invece si espone all’illusione, all’autoinganno. È sedotto dal proprio stesso procedere spirituale, è sedotto dall’angelo e finirà, come ricorda argutamente Pascal, col “fare la bestia”. Dice un pensiero di Pascal: “L’uomo non è angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo faccia la bestia”.

Il testo di Marco è discreto: non dice in cosa consista la tentazione. Non vi è il dettagliare la tentazione in tre momenti come in Matteo e in Luca. Tutto resta avvolto nel silenzio. Silenzio che è anche del testo stesso, non solo di Gesù che non si affida nemmeno alle parole della Scrittura come negli altri sinottici. Qui al posto della parola della Scrittura vi è il silenzio. Silenzio per restare in se stesso, per abitare il proprio spirito e non dissiparsi all’esterno con parole, per restare concentrato. Silenzio per scoprire che il mondo è in noi, non banalmente fuori di noi. Per sapere che i miraggi e le tentazioni di mutare miracolosamente la durezza delle pietre nella fragranza del pane nascono nel cuore; che le tentazioni della potenza e della gloria sono i sogni che coltiviamo in noi; che le illusioni di imporci agli altri e attirarne l’attenzione con imprese prodigiose come gettarci dal tempio ed essere salvati, sono fantasmi che abitano in noi. Davvero il silenzio fa verità e ci suggerisce di non proiettare sugli altri e sull’esterno ciò che è in noi: “Guarda in te stesso e scopri il male che è in te. Se lo vedi in te eviterai di condannarlo e giudicarlo negli altri”.

Qui si situa anche la potenza della solitudine. Nella descrizione di Marco colpisce che, dopo aver parlato del deserto in cui stava Giovanni come un deserto popolato da moltissime persone che accorrevano a lui, un deserto umanizzato, ora, parlando del deserto in cui si inoltra Gesù, ci venga presentata una landa solitaria, spopolata, in cui i soggetti che si fanno vivi sono attori della vita interiore e invisibile: lo Spirito di Dio e il Satana, le fiere e gli angeli. La solitudine è la condizione che consente l’affiorare dell’interiorità. Essa è memoria della nostra unicità. Ci ricorda che l’imperativo a cui non possiamo sottrarci pena il tradimento della vocazione originaria e fondante di ciascuno di noi, della nostra immagine e somiglianza con Dio, è la libertà, con cui possiamo realizzare noi stessi, cioè obbedire all’unicità irripetibile che Dio ha voluto per ciascuno di noi. La lotta del deserto è anzitutto in questo abitare solitudine e silenzio. Che normalmente sono dimensioni rare, a cui non siamo abituati e a cui cerchiamo di sottrarci. Inoltre, il potere semplificante ed essenzializzante di solitudine e silenzio fa emergere i lati più oscuri e tenebrosi che sono in noi. Ma proprio lì si situa il lavoro di verità che queste dimensioni operano per noi. Che non sono il fine cui giungere, ma la strada da percorrere per arrivare al fine dell’incontro con il Signore e dello stare con lui, al fine dell’incontrare gli altri in verità e carità.

La fatica del deserto è ben espressa nella pagina evangelica dal verbo “stare”, “dimorare”, anzi, letteralmente, “essere”. Gesù erat in deserto, non manebat; Gesù erat cum bestiis. Non è solo un rimanere, ma qualcosa che ha a che fare con l’edificazione dell’essere stesso della persona. Gesù sta senza fare nulla, senza fare nulla che non sia un’azione e un’attività interiore. Nel deserto Gesù finalizza il fare all’essere. Gesù fa esperienza della durata. Silenzio e solitudine sono le condizioni per fare esperienza della durata e l’esperienza della durata è la condizione della contemplazione. Che è lavoro di unificazione e pacificazione. Come avviene per Gesù. Infatti, se Gesù annuncia, subito dopo i 40 giorni nel deserto, che “Il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15) è perché quel regno Gesù l’ha conosciuto in se stesso, nella pace tra bestie e angeli, tra inferno e cielo, nel suo aver continuato ad abitare la parola ricevuta dall’alto “Tu sei mio figlio” (Mc 1,11) e a lasciarsi guidare dallo Spirito santo mentre si trovava nel confronto con Satana. In quell’esperienza del deserto Gesù vive in sé ciò che avviene nel mondo, o meglio fa di se stesso il luogo del mondo riconciliato. Gesù è l’umanità riconciliata, l’umanità nella pace. Gesù è il Regno di Dio davvero vicinissimo. L’era messianica si apre perché ciò che è destinato al mondo è avvenuto nella persona di Gesù. Questo evento di riconciliazione profonda tra forze infere e potenze celesti, questa pace messianica profetizzata da Isaia, Gesù l’attua in se stesso, in lui avviene la riconciliazione e la pace. Gesù è spazio di pace e di unità, di unificazione e riconciliazione. Egli riesce ad assorbire la violenza delle bestie selvagge senza cadere nel disumano, riesce a convivere con le potenze divine e angeliche senza innalzarsi nel sovrumano. Gesù custodisce la postura umana e si lascia docilmente guidare dallo Spirito di Dio. Divenendo così esempio del battezzato: “Tutti quelli che sono guidati dallo

Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” (Rm 8,14). Gesù si lascia guidare dallo Spirito nel deserto e lì vive la sua figliolanza divina, la sua immagine divina, la sua creaturalità abitata dalla parola di Dio che lo rende figlio e dallo Spirito che lo fa vivere come figlio.



LA FRASE

Nessuno perde per avere dato Amore, perde solo chi non sa riceverlo



Lastebasse 1931 - Chiesa di San Marco Evangelista Diocesi di Padova

 


Eretta nell’area dell’attuale piazza del paese, distrutta durante la prima guerra mondialela chiesa fu sostituita da una nuova costruzione realizzata all’altura sovrastante la piazza in stile romanico con tre altari e campanile.

I lavori iniziarono nel 1925, la chiesa venne inaugurata nel 1926, e fu poi consacrata il 28 settembre 1946. 

Tra le opere degne di nota sono presenti: la tela del presbiterio, con San Marco che predica ad Alessandria d'Egitto di Giovanni Dandolo (1926) e lo sportello del tabernacolo, realizzato nel 1954 nella bottega di Gino Legnaghi; la vetrata dell'abside, con San Francesco d'Assisi, è stata realizzata nel 1984 da artisti triestini.


Inviata da Anna Maria Leoni

Foto di gruppo di un matrimonio del lontano 1933



Leoni Leone, mio nonno classe 1878, il secondo da sinistra, e tutti i parenti invitati al matrimonio della figlia Cesira con Egidio Colpi; Lastebasse 1933.

Il mio papà Antonietto è il biondino davanti alla sua mamma, Maria; poi ci sono gli altri fratelli del mio papà: Ampelio, Elio, Nello, Dirce, Alberto, Armando ed altri invitati di cui mio padre non ricorda il nome.
Annamaria Leoni
Segrate

Meravigliosa cascata in contra' Sella

 


El cimbro sconto gazòget bor in oarn: Tanbarare

Qui ci occuperemo delle parole del nostro dialetto che derivano verosimilmente dal Cimbro. Sono vocaboli dell'antica lingua rimasti nella nostra parlata corrente e che sono sopravvissuti divenendone parte. A volte adattandosi foneticamente, altre assumendo addirittura un significato diverso per allegoria.

La parola di oggi è:
Tanbarare
  • Armeggiare, cimentarsi in qualche attività di cui chi osserva ignora l’arte e talvolta anche l'autore del tanbaramento non ha le idee chiare in merito. Tipico atteggiamento di un bambino che si cimenta in qualcosa senza esperienza.
  • In veneto può significare anche genericamente: piovere. 
Nel Cimbro abbiamo: Tambararan, che vuol dire fare rumore, baccano. Potrebbe tuttavia essere un prestito romanzo, magari da: tamburo, tamburellare.

Frase: Xa situ drio a tanbarare?  / Cosa stai facendo?  

SNOOPY


 

sabato 20 febbraio 2021

Santa Bibiana, quaranta dì e ‘na settimana: com’è andata?

 


In un post di oltre due mesi fa ci eravamo soffermati sul famoso proverbio e sulla previsione meteorologica in esso contenuta. Come sappiamo sia a Santa Bibiana (2 dicembre) che a Santa Barbara (4 dicembre) il tempo è stato brutto con pioggia e neve, per cui stando alla narrazione il tempo si sarebbe mantenuto tale per i successivi 47 giorni. Anche senza analizzare in modo scientifico i dati, ognuno sarà concorde nel ritenere questo inverno molto simile a quelli di un tempo, agli inverni “de nà volta”, o come noi li figuriamo nel nostro immaginario. In effetti è nevicato molto, a più riprese e finanche in pianura, dopo anni di assenza; il tutto accompagnato da un clima costantemente freddo, che ha mantenuto a lungo lo strato nevoso. È stato un inverno che potremmo definire classico se rapportato alla normalità di un tempo, o anomalo se paragonato agli inverni tiepidi e senza neve degli ultimi anni. Al fine di acquisire maggiori elementi di giudizio e senza entrare in valutazioni scientifiche - che lasciamo volentieri agli esperti - ci siamo presi la briga di raccogliere ed annotare i dati sul tempo, indicando per ogni giorno se il cielo era sereno, se era coperto, se il tempo era variabile o se c’era stata neve/pioggia. Considerando quindi il periodo fra il 3 dicembre e il 18 gennaio, i risultati sono stati questi: abbiamo avuto 15 giorni di bel tempo, 9 di tempo variabile, 5 con il cielo coperto ma senza precipitazioni e ben 18 di neve o pioggia. Inoltre a differenza delle scorse stagioni, quando alla neve seguiva immancabilmente la bonaccia, anche in pieno inverno e ad alte quote, in questi mesi invernali alla neve è sempre seguito il freddo, anche in collina. Possiamo quindi dire che la previsione di Santa Bibiana è stata confermata in pieno? Ovviamente ognuno la prende come vuole, tanto più che in un proverbio non ci può essere niente di scientifico e in fin dei conti anche le previsioni dei meteorologi, queste sì basate sulla scienza, spesso si rivelano sbagliate. E nel 2019, tanto per restare in tema, com’era andata? In quell’anno il 2 dicembre il cielo era coperto mentre il 4 splendeva il sole da mattina a sera. Le previsioni (per i successivi 40+7 giorni) sarebbero state quindi orientate ad un tempo sostanzialmente bello, con precipitazioni nulle o al più scarse, data la presenza di copertura nuvolosa solamente a S. Bibiana. E com’è andata? Abbiamo avuto un modestissimo episodio nevoso fra il 12 e il 13 dicembre, con un totale di 10-12 cm di neve caduta nei due giorni. Poi fra il 17 e il 20 dicembre c’è stata una pioggerella sottile, solo a tratti e di modestissima entità. A seguire bel tempo (addirittura fino ai primi giorni di marzo!) e temperature ben sopra la media. Anche in questo caso le previsioni sarebbero state confermate. Altra coincidenza? Forse, può essere, però ... mah …
Nell'immagine: la Campagna di Rotzo in una foto del 18 gennaio scorso, alla fine del periodo di "previsione"
Biblioteca civica di Rotzo

SNOOPY


 

giovedì 18 febbraio 2021

Non sono più tra noi nr. 4 - 02/21 - Giovanni Fontana -



 

Storia del mulino di Pedescala

 



Viveva al mulino la famiglia Spagnolo. Capo famiglia era Gio Maria che aveva sposato una certa Speranza. In questo mulino si macinava frumento e granoturco per il paese e anche per i paesi limitrofi, specialmente quelli dell’Altopiano. Era gente molto caritatevole e ogni volta che le persone scendevano da Conca giù dal sentiero del Raparo della “Val dele legne” con dei muli per macinare il loro grano, li rifocillavano dando loro da mangiare. Avevano tre figli maschi e quattro figlie femmine.

Dal sentiero del Raparo scendevano anche i contrabbandieri con il tabacco che proveniva dalla Valsugana. Durante la prima guerra  mondiale il mulino fu usato anche come ospedale da campo. Ma durante il conflitto fu danneggiato, Pietro però, con i soldi della ricostruzione, riuscì a farlo rimettere a nuovo e lo fornì anche di una piccola centralina elettrica.

Nel 1923 venne fatta una grande festa per il restauro, ma in seguito il mulino non fu più usato.

Il mulino di Pedescala, fantasia di ricordi di Laura Marangoni.

Negli anni 30, al mulino abitava Giuseppe Spagnolo con la moglie Luigia, avevano tre figlie e un figlio.

A Pedescala  erano state costruite delle vasche in località ”il Mulino” e la biancheria, dopo essere stata messa in ammollo a casa dentro un a tinozza, veniva portata al mulino per risciacquarla.   

Bepi e la Gigia  tenevano anche un bèco di nome ”Checo” che serviva per la monta delle capre.

La Gigia del Mulin aveva anche una bella pianta d’alloro e ne dava a tutti, per cucinare  le trote, i minestroni  e anche per la processione della  Festa delle Palme. Aveva un cane e chi le domandava come si chiamava rispondeva  “Domàndeghe”.  

Laura Marangoni

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...