domenica 28 febbraio 2021
I regna!
La pagina della domenica
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
La seconda domenica di Quaresima, presentando sempre il racconto della trasfigurazione di Gesù, conduce il credente a operare il passaggio dal deserto della tentazione (messaggio della prima domenica di Quaresima) al monte della Trasfigurazione. Passaggio simbolico di un cammino quaresimale-pasquale che si compie in una trasformazione. E se vi è un’unicità non imitabile nella trasfigurazione di Gesù, in cui non è tanto la sua realtà che cambia, ma è la capacità di vedere dei discepoli i quali riescono a scorgere in lui ciò che lui è sempre e in verità, tuttavia a un cambiamento siamo chiamati noi. Il cambiamento che passa attraverso la prova, l’essenzialità, lo spogliamento. C’è un passare attraverso le prove che la vita ci propone che non possono lasciarci indifferenti e che incidono su di noi.
Marco situa la Trasfigurazione di Gesù sei giorni dopo la confessione di fede di Pietro, il primo annuncio della sua passione, morte e resurrezione e l’annuncio della passione del discepolo (Mc 9,2). Marco ricorda anche le ultime parole pronunciate da Gesù sei giorni prima e che riguardano Pietro, Giacomo e Giovanni, ovvero i tre discepoli che Gesù prese con sé e portò in alto sul monte dove poterono assistere alla sua trasfigurazione: “In verità vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza” (Mc 9,1). Che cosa videro Pietro, Giacomo e Giovanni sull’alto monte? Videro Gesù avvolto nella luce divina, ovvero, videro Gesù come l’uomo su cui regna in pienezza Dio stesso, videro il regno di Dio nella sua potenza e maestosità.
In verità, Gesù non sta solo promettendo ai discepoli che essi vedranno da vivi il regno di Dio nella sua persona trasfigurata, ma sta anche dicendo loro che il cammino di sequela dietro a lui esige l’integrazione della prospettiva della propria morte: “non gusteranno la morte prima di aver visto …” (cf. Mc 9,1). Anche il vedere il regno di Dio nella sua potenza non toglie la fragilità della condizione umana e lo scacco della morte. Come Gesù ha appena detto ai discepoli, a chiare lettere, che il cammino dietro a lui comporta per il discepolo sofferenza e perdite (Mc 8,34-38), così ora sta ricordando che la sequela della sua persona si spinge fino alla morte, esige dunque che il credente diventi sempre più cosciente che in quella vita in cui cerca pienezza di senso e di gioia, troverà anche la morte, la fine della vita.
Ecco dunque che sei giorni dopo Gesù conduce con sé su un alto monte tre discepoli. Tra i tanti riferimenti che cercano di rendere maggiormente intelligibile la notazione “sei giorni dopo”, vale la pena di ricordarne una. Nel testo di Esodo 24,9-18, in cui si parla della conclusione dell’alleanza, Mosè sale sul monte Sinai, e vi sale con tre personaggi: Aronne, Nadab e Abiu. La nube, segno della presenza di Dio, copre la montagna per sei giorni e al settimo giorno il Signore chiama Mosè, fa sentire la sua voce e manifesta la sua gloria, gloria che aveva l’aspetto di una fiamma luminosa. Le analogie con il racconto della trasfigurazione sono numerose. Gesù, sul monte alto, fa un’esperienza di tale vicinanza e intimità con Dio che il suo stesso aspetto si svela essere abitato dalla gloria e dalla luce divine.
Notiamo anche che i verbi di cui Gesù è soggetto nel v. 2 (“prendere con sé” e “portare su”) suggeriscono l’iniziativa di Gesù, quasi il suo sobbarcarsi i discepoli, come se li prendesse sulle spalle, e l’introdurli in alto, quasi in un movimento iniziatico. Si tratta di un salire che tende a
un’unità, a una convergenza, a una comunione. I Padri della Chiesa hanno molto sottolineato il movimento ascensionale come essenziale per giungere a una comunione e contemplazione di Dio in Cristo. Certe spiegazioni mistiche hanno anche colto i tre personaggi come riferimento ad attributi o virtù necessari per salire la montagna della contemplazione: Pietro indicherebbe la saldezza della fede, Giacomo la perseveranza e la costanza anche di fronte alla persecuzione, Giovanni rinvierebbe alla grazia e all’amore. Ma al di là di queste letture allegoriche, è vero che c’è un comune innalzarsi, ma guidati da Gesù, c’è un comune ascendere dei tre discepoli, ma trascinati da Gesù. Gesù li conduce verso un luogo in cui ciò che conosceranno (e di cui Gesù mostra di avere ben coscienza: 9,1), rasenterà l’indicibile, tanto che egli proibirà loro di dire a chicchessia ciò che avevano visto (Mc 9,9). Vi è qualcosa di intimo e di unico che si verifica: la comunicazione della propria identità e della propria unicità da parte di Gesù. La condivisione della sua solitudine più profonda. Qualcosa che rischia di essere micidiale anche per i discepoli. Che significa entrare in questa intimità con Gesù? Che significa per la propria vita, cogliere la gloria del Signore sul volto di colui che ha appena annunciato la propria passione e morte? Che significa per i discepoli essere messi a parte della verità personale di Gesù? Non significa forse uno sprofondare nel cammino di sofferenza dietro a lui? Sì, i discepoli, così vicini alla luce (il nome Tabor, che è il monte che a partire dal IV secolo è stato identificato dalla tradizione bizantina come il monte della Trasfigurazione, significa “vicino alla luce”), comprendono oscuramente il destino di sofferenza e morte che è anche per loro, comprendono altresì che possono integrare questa prospettiva di sofferenza e morte nel loro cammino dietro a Gesù, comprendono ancora oscuramente che questa prospettiva è gravida anche di una promessa di resurrezione. Anche se per loro questa parola e questa prospettiva, “resurrezione”, come annota Marco, restano enigmatiche (Mc 9,10).
Ma comprendono anche, e meglio, chi stanno seguendo. Comprendono meglio l’identità di Gesù. Richiesti in Mc 8,28: “Chi dice la gente che io sia?”, essi riferirono almeno tre risposte: “Giovanni Battista, Elia, uno dei profeti”. Ora Gesù assicura loro che lui non è Elia, anzi Elia compare vicino a lui nella visione sul monte. Gesù assicura che lui non è Giovanni Battista, perché allude evidentemente a Giovanni quando dice che Elia è già venuto e hanno fatto di lui ciò che hanno voluto (Mc 9,13). Del resto, Marco ha già raccontato l’imprigionamento e l’assassinio del Battista (Mc 6,17-29). Gesù è colui con cui conversano Mosè ed Elia, anzi, per rispettare l’ordine messo in atto da Marco, Elia e Mosè. A questo punto Pietro esprime con trasporto la sua felicità, ma la esprime con parole belle, ma che vengono giudicate inadeguate dal narratore che si affretta a chiosare: “Non sapeva che cosa dire” perché erano preda della paura. La nube, segno della presenza di Dio, avvolge allora i discepoli e diviene lei una capanna, una dimora per coloro che volevano fare una capanna per Elia, Mosè e Gesù. Gli eventi suggeriscono di passare dall’esteriorità all’interiorità. Dalla nube viene una voce che chiede ascolto: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7). E dopo la voce, ecco la visione di Gesù solo, con loro soli. E non vedono più nessun altro. E mentre scendono dal monte Gesù li invita a passare dal non-saper-che-cosa-dire al fare-silenzio. Al custodire in sé ciò che avevano visto. Come Maria che deve meditare in se stessa ciò che ha visto e udito per arrivare a coglierne la portata, il senso, il significato (cf. Lc 2,19.51).
L’esperienza della trasfigurazione viene così suggellata dalla solitudine e dal silenzio. La trasfigurazione è certamente esperienza di grande e profonda comunione, ma il testo suggerisce che la comunione si stabilisce attorno a chi sa vivere la solitudine, a chi ha creato comunione in se stesso, a chi ha reso se stesso “comunione”. Del resto anche all’inizio del racconto Marco sottolinea la dimensione di scarto e solitudine: “alta montagna”, “in disparte”, “loro soli” (Mc 9,2). Gesù è solo con i discepoli, Gesù ha portato loro soli, certo scegliendoli di mezzo al gruppo dei Dodici, ma il riferimento è forse a qualcosa di più profondo, a una dimensione in cui l’esperienza vissuta può venire comunicata. C’è una solitudine che è la condizione stessa della comunione. E anche della comunicazione. Come se quel “solo” riferito a Gesù designasse una dimensione di solitudine che nessuna vicinanza e intimità può abolire. Del resto, pur nella prossimità, vi è una grande distanza fra Gesù e i discepoli, distanza emersa quando Gesù ha rimproverato Pietro che mostrava di non capirlo e si rifiutava di accogliere l’annuncio della sua prossima passione e morte. Così quel “soli”
con cui sono definiti i discepoli può far appello a una dimensione a cui saranno rinviati proprio dall’incontro sul monte. Scendendo dal monte Gesù dirà loro di non comunicare a nessuno ciò che avevano visto, e il silenzio della discesa dal monte è anche il segno di una solitudine ancor più profonda in cui essi sono invitati a entrare. Iniziata nella solitudine, la trasfigurazione termina nel silenzio. Perché spesso solo il silenzio consente di non deteriorare la qualità dell’esperienza spirituale e delle relazioni, l’intensità e la profondità dei vissuti. La solitudine e il silenzio consentono così al credente di entrare nella conoscenza di Gesù e di partecipare della luce che dal suo volto promana e può illuminare il suo cammino costellato di difficoltà e di contraddizioni.
LA FRASE
Iniziate a fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile.
E all'improvviso vi sorprenderete a fare l'impossibile
sabato 27 febbraio 2021
In gual note, .. mejo scrivare!
venerdì 26 febbraio 2021
giovedì 25 febbraio 2021
Tiracamìnti
【Gianni Spagnolo © 21I23】
Le bretelle sono nate verso la metà del Millesettecento, con lo scopo di sostenere i pantaloni. All’epoca si portavano nascoste dal gilet, per questo sono rare le raffigurazioni pittoriche di questo accessorio. Il loro primo vero testimonial fu Benjamin Franklin, celebre scienziato e padre fondatore degli Stati Uniti, che fu anche ambasciatore in Francia. In questa circostanza si presentò a corte con un paio di originali pantaloni sostenuti da due fasce di stoffa: le bretelle. La curiosità, e la novità che suscitarono nell'elitè nobiliare francese, furono il trampolino di lancio per la loro diffusione. Le prime bretelle erano fatte da due strisce in stoffa o in pelle leggera che si incrociavano nel dorso e che venivano agganciate al pantalone con uno strano sistema a molla con ganasce d’ottone, che ne permetteva una limitata elasticità. Con l’introduzione del caucciù le bretelle si evolsero, diventando elastiche e confortevoli. Nel corso della Grande Guerra cominciarono però ad essere sostituite dalla cintura che, usata nella divisa dei soldati, si diffuse poi della moda popolare maschile. Le bretelle furono per tutti gli anni '20 un obbligo per l’abito formale dei ceti più elevati, mentre la cintura rimase da allora l'accessorio preferito dalle masse. I pantaloni a quel tempo erano ancora senza passanti, una dotazione che s’imporrà infatti solo a partire da quegli anni.
La mia generazione credo sia stata l’ultima a portare le tirache.
Io odiavo le tirache!
La prima volta che misi la cintura fu una liberazione epocale, mi stavo emancipando da tutta quella moda imperante da noi negli anni sessanta, quali: le braghe curte al denocio, la roba de lana fata su misura che la becava tuta, le calse de lana grossa co l’astico da mudanda emostatico, le fanéle cole màneghe longhe, le mudande col patelòn verto, le baréte cole reciàre e così via.
Su misura poi era per modo di dire. La roba veniva confezionata con l’eterna precauzione che il bocia paràva, cioè sarebbe sperabilmente cresciuto e quindi andava fatto tutto più grande, col risultato che non c’era mai niente che ti cascasse giusto. Ed era comunque fortunato chi non aveva fratelli più grandi. Le tirache allora le nava de oro, dato che tenevano su anche un sacco.
Se poi le mojéche dele tirache non si chiudevano bene perché le jera dò de susta, bastava fare una falda sulla braga e .. voilà, che si rimediava il problema. Tsé, magari! Il massimo del fastidio capitava d’inverno, quando, dopo un movimento brusco, ti saltava la tiraca e rimbalzava oltre la spalla sotto il maglione di lana antiproiettile e bisognava prodursi in contorsioni animalesche per recuperare il tirante e fissarlo al suo posto.
Cose che voi umani di oggi neanche v’immaginate!
Foto del 1972 - il 50esimo della classe del 1922
02 - Assunta Pesavento
03 - Maddalena Pretto
04 - Celso Alessi
05 - Mario Costa
06 - Battista Pertile
07 - Rita Righele
08 - Clelia Spagnolo
09 - Luigia Stefani
10 - Luigia Cerato
11 - Emilia Fontana
12 - Caterina Spagnolo
13 - Mario Lucca
14 - Giovanni Lorenzi
15 - Fulvia Lorenzi
16 - Elio Lucca
17 - Francesco Toldo
18 - Giovanni Toldo
martedì 23 febbraio 2021
El carrarmato
Il Capitello dei Cerati
Lo spiazzo antistante è arredato con due panchine in ferro per la sosta e c’è anche un piccolo boschetto di pini a fargli da quinta ombrosa.
Nella costruzione di questa strada perse purtroppo la vita un giovane quattordicenne del paese, Ezio Gianesini, travolto da un masso sotto i cogolìti; un lutto che scosse il paese e funestò la legittima soddisfazione per questa nuova importante opera.
domenica 21 febbraio 2021
Valli thormentate
【Gianni Spagnolo © 21II8】
Quel giovedì dell’anno del Signore MCCIV, nell'ultimo giorno del mese di settembre, convenuti solennemente al Pra' della Varda di Cogollo, i rappresentanti delle comunità dell'antica Corte di Valle e dell’Altopiano stabilirono pacificamente i confini dei loro territori elencandoli uno ad uno lungo i limiti orografici naturali.
Descrizione dei confini della Corte dell'Altopiano - 30/09/1204 |
Il documento è arcinoto, per cui non mi dilungo, soffermandomi solo su un passo che ci riguarda: .. usque ad vallem rotundam et venit in gaybo Astici.. ossia fino alla Valle Rotonda e al greto dell'Astico. Così è denominata infatti la nostra valle della Torra nel novero dei confini. Questo è fra gli atti più antichi che la menziona, ma il termine ricorre anche in epoche successive, almeno fino al XVII secolo.
Quale sarà la sua origine etimologica?
Non sfugge il fatto che nel solco vallivo parallelo più a monte scorra il Riotorto, o Rotòrto, dal suono assai simile e probabilmente della medesima radice. Per risalire alla paternità etimologica della Torra si sono scomodate varie ipotesi, di romanza o cimbrica radice. Addirittura una divinità: quel Thor dagli affascinanti risvolti niblelungici e cinematografici. Dio del tuono e della tempesta, dal martello come boomerang inesorabile, figlio di Odino e marito della biondona Sif. Il prode si muoveva su di un carro trainato da due capre, e sappiamo che quegli animali s'arrampicano dappertutto. Probabilmente chi abitava dalle parti nostre non faceva tanto caso a un savajo co la barba rossa chel nava in volta a lolòn su par la Tora sun birosso tirà da do cavre e parando torno un martelo. Figurarsi se chi credeva ad orchi, anguane, salvanéi e personaggi simili, poteva stupirsi di un tipo originale come Thor.
“Co la jén da sora, no la passa la Tora”. Recita un vecchio adagio nostrano, a significare che le nubi incombenti dal Cròjere al Bìsele, si scaricavano spesso in quell'ambito senza oltrepassare la valle. Dunque è assodato che Thor giocherellasse da quelle parti con tuoni e fulmini e avesse di buon occhio gli abitanti di San Pietro.
Tondo e Torto sono suoni romanzi, ma forse non hanno granché da spartire con quell'origine essendo omofonie di termini che non si comprendevano più. Non si capisce infatti cosa si possa riconoscere di rotondo nella Torra, o di tortuoso nel Rio Torto, che scorre nella valle più diritta del circondario. Quindi è probabile che siano adattamenti fonetici latini di toponimi dalle radici germaniche o addirittura pre-romane.
Può essere che che abbiano stipite comune in Tor o Tüar, che in cimbro significa: portone, porta. O magari in: dor/dort: attraverso. Le due valli erano appunto varchi di passaggio da e per la montagna sulla strada di Germania che passava per la valle dell'Astico. Entrambe facevano capo ai due Ospizi e confluivano a monte all'incrocio di Monterovere, dove saliva da Santa Giuliana il sentiero del Menadór di Levico. Rappresentavano, in sostanza, uno scùrtolo della Via dell'Anzin che risaliva la Val del Centa per poi divallare da Lavarone attraverso i Sassi Donati.
Però l'idea del Thor che si balocca con tuoni e fulmini, che erano il segno evidente del suo fragoroso passaggio, è decisamente più intrigante. Thor è appunto la divinità del tuono, e in molte lingue germaniche è radice anche del giorno di giovedì: Thursday in inglese, Donnerstag in tedesco, Donderdag in olandese e Torsdag nelle lingue scandinave. Donner è il termine per tuono del tedesco moderno, che in cimbro fa: Tóndar. Da Rio Tóndar a Rio Tondo, Torto o Rotonda o infine Torra il passo è breve. Non dimentichiamo poi che i nostri cavalari osservavano proprio il giovedì come giornata di riposo, in cui far riprendere i muli, astenendosi dal salire la Singéla. Non vorrei che questa strana scelta sia stata fatta proprio in ossequio a quella remota divinità pagana, dato che la sapevano più lunga di noi in fatto di spiriti e demoni. Tóndar dovrebbe essere anche l'etimo di Tonezza, nei cui pressi s'è incagliato il portentoso martello Mjöllnir, scagliato lassù da Thor in un impeto di rabbia e fossilizzatosi nello Spitz. Quel magico oggetto, una volta lanciato, era infatti capace di tornare dal suo proprietario indipendentemente dalla distanza e dagli ostacoli frapposti. Quando sono arrivati i monaci degli Ospizi a seppellire le credenze antiche, è probabile che il nostro eroe, che era piuttosto permaloso, si sia incavolato di brutto e abbia scagliato lontano il suo strumento andando ad autoesiliarsi nel Cógolo dele Anguane, dove trovò ospitalità e comprensione da parte di quelle figure eteree, ma a lui più affini e altrettanto reiette. Prima di gettarlo via e ritirarsi, però, si sfogò come un pazzo facendo dei dintorni una marogna a colpi di martello. Mi sa tanto che le capre e il birosso le recuperarono i sanpieroti, che sapevano come utilizzarle. Le capre di Thor avevano dei nomi slapari come Tanngnjóstr e Tanngrisnir, ma erano dotate di qualità portentose: Thor, durante i suoi viaggi, poteva anche cibarsene perché poi, se ne conservava le pelli e le ossa intatte, il mattino seguente sarebbero rinate. Sai che pacchia per i sanpieroti sempre affamati.
La pagina della domenica
In quel tempo, subito lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
La prima domenica di Quaresima presenta sempre il testo evangelico delle tentazioni di Gesù. Quest’anno ci viene proposta la versione di tale episodio nella redazione estremamente concisa del vangelo secondo Marco (Mc 1,12-13) seguita dalla pericope che dice l’inizio della predicazione di Gesù (Mc 1,14-15) e che tralasciamo perché già perché commentata nella III domenica dell’Ordinario. La pagina evangelica inizia in modo inatteso e brusco: “E subito lo Spirito scaccia Gesù verso il deserto”. L’immediatezza dice che Gesù non si è preparato a questa andata nel deserto, che la cosa giunge improvvisa. E il verbo il cui soggetto è lo Spirito, il verbo greco ekballein (sospingere, scacciare) esprime una certa violenza, una costrizione. Lo Spirito getta fuori, spinge Gesù nel deserto. A dire che l’azione spirituale è un’azione non coincidente con il desiderio umano. Gesù si lascia trascinare, ma non è una sua iniziativa, una sua scelta l’andare nel deserto. Forse si vuol significare che solo la forza dello Spirito può consentire di reggere la prova del deserto e che andarvi per eroismo o protagonismo spirituale è un atto spiritualmente suicida. La radicalità del deserto può affascinare, ma essa rigetta chi vi si inizia senza la mozione dello Spirito.
Cosa avviene a Gesù? Dopo l’esperienza del battesimo in cui Gesù è tra la folla, accanto a Giovanni il Battezzatore, e ascolta la voce dal cielo che lo proclama figlio di Dio, ecco che la luminosità e la maestosità di questa esperienza si mutano nella discesa nel deserto che è invito all’interiorità, anzi, un imperioso comando all’interiorità. Se è vero che è necessario discernere il proprio desiderio per conoscersi e saper scegliere la propria vita, è altrettanto vero che c'è anche una distanza tra il nostro desiderio e la vita dello Spirito in noi. E che ci sono resistenze da vincere per entrare nella vita dello Spirito. La nostra nascita alla vita dello Spirito è dolorosa, frutto di lotta e costellata di resistenze. Di Paolo si dirà in At 20,22 che è costretto dallo Spirito ad andare dove lui non vorrebbe minimamente andare. Intravediamo lo Spirito anche dietro a quell’allos, quell’altro che condurrà Pietro dove lui non vuole (Gv 21,18). È l’altro Paraclito (Gv 14,16). Lo Spirito appare come volontà di Dio che può entrare in conflitto con la nostra, ma da cui siamo chiamati a lasciarci vincere, ovvero, ad assumerla come nostra. Del resto, questa violenza accettata da Gesù e fatta sua, questa che è violenza dello Spirito, richiama la violenza della parola di Dio che strappa Abramo dalla sua terra e gli impone di andarsene verso un luogo sconosciuto: “Vattene!” (Gen 12,1). In realtà Abramo è in una solitudine radicale anche se parte con la sua gente. Egli parte verso il vuoto che il Signore, non Abramo stesso, riempirà. Anzi, sarà un vuoto che quando la promessa di Dio sembrerà per grazia colmare con il dono di un figlio, Dio stesso provvederà ancora a ricreare chiedendo il sacrificio del figlio (Gen 22,1-2).
L’azione spirituale è dunque azione di profondità, di discesa, di abbassamento. Non di innalzamento, non di salita, ma anzitutto di contatto con il basso. Dice un apoftegma dei padri del deserto: “Se vedrai un giovane salire al cielo di sua volontà, afferralo per un piede, e scaraventalo a terra, poiché ciò non gli serve”. Non si sale se non partendo dal basso, non ci si alza se non si è caduti, se non si è conosciuto e incontrato l’inferno interiore e nominato e combattuto il nemico che è in noi. Anche nel testo di Marco quando si parla di Gesù che stava con le fiere e gli angeli lo servivano si inizia dal basso, dalle fiere, dalle bestie selvagge: si tratta di un movimento verticale ma dal basso verso l’alto, non il contrario. Chi conosce il quadro di Caravaggio “La conversione di san Paolo” ricorda che Paolo è a terra, sbalzato dal cavallo, e che, nella sua caduta, le braccia tese verso l’alto esprimono l’inizio della salita ed egli sembra quasi spinto da una forza
antigravitazionale: la caduta è l’inizio dell’ascesa. Il culmine della scala di cui parla Benedetto nella sua Regola è l’umiltà (RB VII,62ss.), l’adesione all’humus, alla terra. Chi inizia dall’alto invece si espone all’illusione, all’autoinganno. È sedotto dal proprio stesso procedere spirituale, è sedotto dall’angelo e finirà, come ricorda argutamente Pascal, col “fare la bestia”. Dice un pensiero di Pascal: “L’uomo non è angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo faccia la bestia”.
Il testo di Marco è discreto: non dice in cosa consista la tentazione. Non vi è il dettagliare la tentazione in tre momenti come in Matteo e in Luca. Tutto resta avvolto nel silenzio. Silenzio che è anche del testo stesso, non solo di Gesù che non si affida nemmeno alle parole della Scrittura come negli altri sinottici. Qui al posto della parola della Scrittura vi è il silenzio. Silenzio per restare in se stesso, per abitare il proprio spirito e non dissiparsi all’esterno con parole, per restare concentrato. Silenzio per scoprire che il mondo è in noi, non banalmente fuori di noi. Per sapere che i miraggi e le tentazioni di mutare miracolosamente la durezza delle pietre nella fragranza del pane nascono nel cuore; che le tentazioni della potenza e della gloria sono i sogni che coltiviamo in noi; che le illusioni di imporci agli altri e attirarne l’attenzione con imprese prodigiose come gettarci dal tempio ed essere salvati, sono fantasmi che abitano in noi. Davvero il silenzio fa verità e ci suggerisce di non proiettare sugli altri e sull’esterno ciò che è in noi: “Guarda in te stesso e scopri il male che è in te. Se lo vedi in te eviterai di condannarlo e giudicarlo negli altri”.
Qui si situa anche la potenza della solitudine. Nella descrizione di Marco colpisce che, dopo aver parlato del deserto in cui stava Giovanni come un deserto popolato da moltissime persone che accorrevano a lui, un deserto umanizzato, ora, parlando del deserto in cui si inoltra Gesù, ci venga presentata una landa solitaria, spopolata, in cui i soggetti che si fanno vivi sono attori della vita interiore e invisibile: lo Spirito di Dio e il Satana, le fiere e gli angeli. La solitudine è la condizione che consente l’affiorare dell’interiorità. Essa è memoria della nostra unicità. Ci ricorda che l’imperativo a cui non possiamo sottrarci pena il tradimento della vocazione originaria e fondante di ciascuno di noi, della nostra immagine e somiglianza con Dio, è la libertà, con cui possiamo realizzare noi stessi, cioè obbedire all’unicità irripetibile che Dio ha voluto per ciascuno di noi. La lotta del deserto è anzitutto in questo abitare solitudine e silenzio. Che normalmente sono dimensioni rare, a cui non siamo abituati e a cui cerchiamo di sottrarci. Inoltre, il potere semplificante ed essenzializzante di solitudine e silenzio fa emergere i lati più oscuri e tenebrosi che sono in noi. Ma proprio lì si situa il lavoro di verità che queste dimensioni operano per noi. Che non sono il fine cui giungere, ma la strada da percorrere per arrivare al fine dell’incontro con il Signore e dello stare con lui, al fine dell’incontrare gli altri in verità e carità.
La fatica del deserto è ben espressa nella pagina evangelica dal verbo “stare”, “dimorare”, anzi, letteralmente, “essere”. Gesù erat in deserto, non manebat; Gesù erat cum bestiis. Non è solo un rimanere, ma qualcosa che ha a che fare con l’edificazione dell’essere stesso della persona. Gesù sta senza fare nulla, senza fare nulla che non sia un’azione e un’attività interiore. Nel deserto Gesù finalizza il fare all’essere. Gesù fa esperienza della durata. Silenzio e solitudine sono le condizioni per fare esperienza della durata e l’esperienza della durata è la condizione della contemplazione. Che è lavoro di unificazione e pacificazione. Come avviene per Gesù. Infatti, se Gesù annuncia, subito dopo i 40 giorni nel deserto, che “Il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15) è perché quel regno Gesù l’ha conosciuto in se stesso, nella pace tra bestie e angeli, tra inferno e cielo, nel suo aver continuato ad abitare la parola ricevuta dall’alto “Tu sei mio figlio” (Mc 1,11) e a lasciarsi guidare dallo Spirito santo mentre si trovava nel confronto con Satana. In quell’esperienza del deserto Gesù vive in sé ciò che avviene nel mondo, o meglio fa di se stesso il luogo del mondo riconciliato. Gesù è l’umanità riconciliata, l’umanità nella pace. Gesù è il Regno di Dio davvero vicinissimo. L’era messianica si apre perché ciò che è destinato al mondo è avvenuto nella persona di Gesù. Questo evento di riconciliazione profonda tra forze infere e potenze celesti, questa pace messianica profetizzata da Isaia, Gesù l’attua in se stesso, in lui avviene la riconciliazione e la pace. Gesù è spazio di pace e di unità, di unificazione e riconciliazione. Egli riesce ad assorbire la violenza delle bestie selvagge senza cadere nel disumano, riesce a convivere con le potenze divine e angeliche senza innalzarsi nel sovrumano. Gesù custodisce la postura umana e si lascia docilmente guidare dallo Spirito di Dio. Divenendo così esempio del battezzato: “Tutti quelli che sono guidati dallo
Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” (Rm 8,14). Gesù si lascia guidare dallo Spirito nel deserto e lì vive la sua figliolanza divina, la sua immagine divina, la sua creaturalità abitata dalla parola di Dio che lo rende figlio e dallo Spirito che lo fa vivere come figlio.
LA FRASE
Nessuno perde per avere dato Amore, perde solo chi non sa riceverlo
Lastebasse 1931 - Chiesa di San Marco Evangelista Diocesi di Padova
Eretta nell’area dell’attuale piazza del paese, distrutta durante la prima guerra mondiale, la chiesa fu sostituita da una nuova costruzione realizzata all’altura sovrastante la piazza in stile romanico con tre altari e campanile.
I lavori iniziarono nel 1925, la chiesa venne inaugurata nel 1926, e fu poi consacrata il 28 settembre 1946.
Tra le opere degne di nota sono presenti: la tela del presbiterio, con San Marco che predica ad Alessandria d'Egitto di Giovanni Dandolo (1926) e lo sportello del tabernacolo, realizzato nel 1954 nella bottega di Gino Legnaghi; la vetrata dell'abside, con San Francesco d'Assisi, è stata realizzata nel 1984 da artisti triestini.
Foto di gruppo di un matrimonio del lontano 1933
Leoni Leone, mio nonno classe 1878, il secondo da sinistra, e tutti i parenti invitati al matrimonio della figlia Cesira con Egidio Colpi; Lastebasse 1933.
El cimbro sconto gazòget bor in oarn: Tanbarare
La parola di oggi è:
- Armeggiare, cimentarsi in qualche attività di cui chi osserva ignora l’arte e talvolta anche l'autore del tanbaramento non ha le idee chiare in merito. Tipico atteggiamento di un bambino che si cimenta in qualcosa senza esperienza.
- In veneto può significare anche genericamente: piovere.
sabato 20 febbraio 2021
Santa Bibiana, quaranta dì e ‘na settimana: com’è andata?
giovedì 18 febbraio 2021
Storia del mulino di Pedescala
Viveva al mulino la famiglia Spagnolo. Capo famiglia era Gio Maria che aveva sposato una certa Speranza. In questo mulino si macinava frumento e granoturco per il paese e anche per i paesi limitrofi, specialmente quelli dell’Altopiano. Era gente molto caritatevole e ogni volta che le persone scendevano da Conca giù dal sentiero del Raparo della “Val dele legne” con dei muli per macinare il loro grano, li rifocillavano dando loro da mangiare. Avevano tre figli maschi e quattro figlie femmine.
Dal sentiero del Raparo scendevano anche i contrabbandieri con il tabacco che proveniva dalla Valsugana. Durante la prima guerra mondiale il mulino fu usato anche come ospedale da campo. Ma durante il conflitto fu danneggiato, Pietro però, con i soldi della ricostruzione, riuscì a farlo rimettere a nuovo e lo fornì anche di una piccola centralina elettrica.
Nel 1923 venne fatta una grande festa per il restauro, ma in seguito il mulino non fu più usato.
Il mulino di Pedescala, fantasia di ricordi di Laura Marangoni.
Negli anni 30, al mulino abitava Giuseppe Spagnolo con la moglie Luigia, avevano tre figlie e un figlio.
A Pedescala erano state costruite delle vasche in località ”il Mulino” e la biancheria, dopo essere stata messa in ammollo a casa dentro un a tinozza, veniva portata al mulino per risciacquarla.
Bepi e la Gigia tenevano anche un bèco di nome ”Checo” che serviva per la monta delle capre.
La Gigia del Mulin aveva anche una bella pianta d’alloro e ne dava a tutti, per cucinare le trote, i minestroni e anche per la processione della Festa delle Palme. Aveva un cane e chi le domandava come si chiamava rispondeva “Domàndeghe”.
Laura Marangoni
Potenza del nome
[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...