sabato 31 ottobre 2020

Tabù de algìri e de ancò

【Gianni Spagnolo © 20X14】

Il nostro mondo ci sembra ormai libero dai condizionamenti e dai tabù che hanno caratterizzato il passato. Viviamo in una società che lascia spazio ad ogni comportamento ed emozione, normalizzando, frullando, omogeneizzando e fors'anche banalizzando un po' tutto. Per accorgerci infine che l’uomo*, ha gli stessi aneliti e paure di sempre e che questi non sono esorcizzabili dal parlare politicamente corretto, dall’evitare ogni genere di contrapposizione o dal considerare tutto al medesimo livello sociale, culturale, etico o morale. Io appartengo, almeno anagraficamente, alla generazione del cosiddetti baby-boomer, proprio quelli che hanno rottamato il vecchio e aperto al nuovo; i campioni del “vietato vietare”. Forse la prima generazione, nella lunga storia dell’umanità, che ha dato luogo a un così drastico e repentino mutamento culturale e sociale; qualche riflessione posso dunque farla. 

I tabù sono delle barriere psicologiche che servono l’ordinamento sociale. Possono avere origine e attributi sacrali, come accadde largamente in passato, o normative e culturali, come al presente; ma sempre tabù rimangono. Alcuni sono legati all'ignoranza, altri alla religione, altri ancora all'opportunismo o all'educazione. Quelli riguardo al sesso, per esempio, sono evidente retaggio di norme religiose e dell'ordinamento patriarcale, ma ce ne sono di attuali di forse maggiore e universale presa. Mi riferisco a ciò che una volta chiamavano “i novissimi”, ma che, evitando ormai incomprensibili rimandi escatologici, possiamo semplicemente riferire alla morte. Il più grande tabù moderno, l’evento da sminuire ed esorcizzare con ogni mezzo, è infatti proprio la morte.

Non è stato sempre così.

Oggi ho giusto l’età in cui capitava che mio padre parlasse della morte: ... co no ghe sarò pì!  Io lo schermivo amabilmente, essendo quell’orizzonte teoricamente più o meno remoto per entrambi. Pensare al futuro, comunque inteso, era tuttavia una costante dei miei genitori e di coloro che li avevano preceduti. Si può dire che vivessero la loro vita proiettata nel futuro e nei figli. Qualsiasi cosa facessero aveva un’evidente appendice nel domàn; niente era solo per l’oggi. Una prospettiva che ha un po’ condizionato anche me e della quale oggi avverto la mancanza, pur avendola magari irrisa allora. Oggi si vive per l’oggi, nell’ottica epicurea del carpe diem«Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: del doman non v’è certezza». Lo cantava già alla fine del Quattrocento Lorenzo il Magnifico, uno che evidentemente se n’intendeva, ma la provocazione è d'evidentissima attualità. 

Che si muoia soli pare assodato, oggi però si muore in solitudine, cioè soli e isolati, che è ben diverso. Un tempo da noi la morte era un fatto sociale e il lutto un’elaborazione collettiva, a prescindere. Cominciava in genere nelle ciàcole delle comari, che parlavano sommessamente e con aria grave delle condizioni dell'infermo. Assumeva poi veste sacrale nel prete che veniva chiamato in casa del moribondo, passando per il paese in cotta e stola, con accanto il mòcolo in mise d'ordinanza, a portare “i oji”. Qualche volta la feci anch’io quest’incombenza, accompagnando il prete per l'estrema unzione. Vidi così spirare sereno mio prozio Matìo, unto del Sacramento, e altri ancora. Allora i bambini non venivano del tutto sottratti alla presenza della morte, mentre adesso pur gli adulti ne fuggono anche solo l’evocazione. Adulti che una volta si preparavano e ne accettavano l’ineluttabilità, consapevoli di far parte di un disegno salvifico che la stessa comunità suggeriva con i suoi riti e la sua premurosa prossimità. 

A transito avvenuto (anche le parole avevano un loro perché), Toni Podólo suonava l’agonia dal campanile, con la campana distesa bloccata dalla corda sul terso bòto, ripetuti in numero diverso a seconda che il defunto fosse uomo, donna o bambino. Così il paese veniva informato in tempo reale che la morte l’aveva visitato. Non finiva neanche di smorzarsi fra i soji l'eco degli ultimi mesti rintocchi, ch'era già nota alla comunità tutta l’identità del defunto, passata di voce in voce e de balcòn in pèrgolo. 

Jesumarìa, ... poaréto/a!

Il morto veniva lavato, vestito con l’abito buono e sistemato nel suo letto, vegliato dai  candelabri ai lati e dal crocifisso astile nero in fondo. Le mani ceree incrociate sul petto e legate immancabilmente dalla corona nera. Alla veglia funebre s’avvicendavano i conoscenti e i parenti, anche quelli che in casa s’erano visti poco. In sottofondo risuonavano sommesse le avemarie del rosario, biascicato in latino dalle veciòte assise sulle carèghe lungo il muro, sovrastate dal chiacchiericcio degli ospiti in visita e dalle usuali frasi di circostanza. Morivano nei loro vecchi letti di pésso che forse li avevano anche visti nascere, attorniati da volti cari e dalla consapevolezza d'esser parte d'una comunità; fino alla fine.

Al tarséto biognàva nare, cascasse el mondo! Guai mancare! 

Se non era parente era sàntolo/a, se non era sàntolo/a, era amico/a di famiglia, altrimenti era comunque un paesano cui si doveva rispetto e vicinanza di fronte alla morte. Almeno uno per famiglia non poteva esimersi dal presenziare, era un obbligo sotteso tra il diplomatico e il sacrale; così come per l'òbito. La rappresentanza ai tarséti meno obbliganti era spesso delegata alle ragazze adolescenti, incarico che non era particolarmente apprezzato.

Al funerale ci andava quasi tutto il paese, salvo quelli che fossero impossibilitati. Credenti o meno, devoti o impenitenti, tutti partecipavano al rito. Alcuni magari a modo loro, attendendo chiacchierando fuori dalla porta della chiesa di accodarsi mesti all’òbito; qualche incallito direttamente dala Nìnele. L’accompagnamento al cimitero era sospeso fra il sacro e il profano, ieri come oggi, ma costituiva un rito ancestrale che prescindeva da ogni considerazione e si consumava nella consapevolezza della caducità dell’esistenza. Anche l’ipocrisia, mai assente, era assolta dalla sacralità della morte. Raccontano in casa che mio nonno non mancasse mai a un funerale, lo riteneva un obbligo morale per chi non era impegnato nel lavoro, e come lui molti della sua generazione. Fece una sola eccezione quella volta che, radendosi, si tagliò inavvertitamente un baffo e dovette soprassedere per ragioni di decoro. 

Il giorno dei Morti aveva una sua aura speciale, che sopiva asti e contese e richiamava all’essenza di un evento ineluttabile che prima o poi tocca tutti. In un certo senso serviva a ricostruire la comunità lacerata dalla morte. No, ci siamo liberati di tante cose, ma non di questa. Anche la nostra arroganza scientifica e tecnologica si sta inchinando ad un inafferrabile baéto foresto, così come fecero i nostri avi di fronte alle tante pestilenze, armati solo di santa rassegnazione. Oggi, la maggioranza del paese, quella silenziosa, è oltra ai Rìghele. Domani, quella silente comunità sarà animata da fiori freschi, fiammelle tremolanti di lumini e visite veloci e infreddolite, magari accelerate o limitate proprio da questo virus molesto. Forse sta diventando anch'esso più un rito di rimozione che di riflessione. 

*Pardon: l’uomo, la donna e gli esponenti di tutti gli altri generi, noti o ancora ignoti che fossero.


Potpourri

 


Quando la casa dei Nonni si chiude...

(da: la vita delle donne-web)
 
Penso che uno dei momenti più tristi della nostra vita sia quando la porta di casa dei Nonni si chiude per sempre.

Quando chiudiamo la casa dei Nonni finiamo anche i pomeriggi felici con zii, cugini, nipoti, genitori, fratelli.

Non c'è bisogno di uscire di casa, stare a casa dei Nonni è ciò di cui ogni famiglia ha bisogno per essere felice.

Le riunioni di Natale, annaffiate con l'odore dei manicaretti preparati dalla nonna, ogni volta pensiamo:
"... e se questa fosse l'ultima volta"?
È difficile accettare che tutto questo abbia una scadenza, che un giorno tutto sarà coperto di polvere e la risata sarà un lontano ricordo di tempi forse migliori.
L'anno passa mentre aspetti questi momenti, senza rendertene conto, passiamo dall'essere bambini che aprono regali, all'essere adulti seduti allo stesso tavolo, giocando a pranzo, e all'aperitivo per cena, perché il tempo in famiglia passa e  l'aperitivo è sacro.
La casa dei Nonni è sempre piena di sedie, non si sa mai se un cugino porterà la sua ragazza, perché qui tutti sono i benvenuti.
Ci sarà sempre il caffè pronto o qualcuno disposto a farlo.
Saluti le persone che attraversano la porta, anche se sono estranee, perché gli amici dei tuoi Nonni sono anche tuoi amici.
Chiudere la casa dei Nonni significa dire addio alle canzoni con la Nonna e ai consigli del Nonno, ai soldi che ti danno segretamente dai tuoi genitori come se fosse una cosa illegale, piangere dal ridere per qualsiasi sciocchezza, o piangere per il dolore di coloro che se ne sono andati troppo presto.
È dire addio all'emozione di arrivare in cucina e scoprire le pentole e assaporare il ′′cibo della nonna".
Quindi, se hai la possibilità di bussare alla porta di questa casa e qualcuno ti apre, cogli ogni attimo, perché avere i tuoi Nonni, stare seduti ad aspettare di baciarti è la sensazione più grande, meravigliosa, che si può sentire nella vita
Godetevi la casa dei Nonni, perché arriverà un momento in cui nella solitudine delle vostre pareti, se chiudete gli occhi e vi concentrate, potrete sentire forse l'eco di un sorriso o di un grido intrappolato nel tempo.
Del resto, posso dire che quando li riaprirai, la nostalgia ti prenderà e ti chiederai: perché tutto è passato andato così velocemente?
E sarà doloroso scoprire che non se n'è andato... lo lasciamo andare...

Che dite... proviamo per qualche attimo ad alleggerire lo stato d'animo di questi giorni pesantini?



 



Forte Campo Luserna dal drone di Flores Munari

 



Le città murate hanno un fascino particolare e anche nel nostro Veneto abbondano. Qui vediamo un pezzo di cinta muraria che, vanitosa si specchia nel canale sottostante complice la luna piena

 

(foto di Guido Lorenzi)

giovedì 29 ottobre 2020

MONTANELLO [4] Strada della Cuccà e Croce del Toraro

【Gianni Spagnolo © 20X19】

Con l’avanzare dell’autunno, anche Montanello deve adattarsi al mutato clima e proporre itinerari più prossimi ed a quote meno elevate. Ecco che allora può essere interessante esplorare la parte dell’altopiano di Tonezza opposta a quella che s’affaccia sulla nostra valle.

Qui troviamo un ambiente per certi versi ancora selvaggio e poco conosciuto, dove pareti rocciose e sentieri dimenticati, valli profonde e boschi popolati di camosci si accompagnano alle ancora evidenti testimonianze della Grande Guerra. 

Ci sono diversi sentieri che vi salgono partendo dalla sottostante Val del Tovo o dalla conca di Laghi, ma ci si può più agevolmente portare in quota con la vettura risalendo la strada comunale della Val di Rio Freddo fino a Malga Zolle di Fuori (1.157 mslm). La carrareccia d’accesso è sterrata nell’ultimo tratto e richiede un po' d'attenzione per il fondo sconnesso. Risale per boschi e contrade un tempo assai popolate, ma ora pressoché disabitate; anche se non del tutto abbandonate, perché chi ci è nato non ha perso del tutto l’originario imprinting e ancora tenta di mantenerne vivo il retaggio. La valle è dominata dall’imponente ed arcigno profilo meridionale del Tòrmeno, che ci porteremo dietro anche noi nella parte iniziale del tragitto.

Dagli aperti prati di Malga Zolle di Fuori, dove si parcheggia, si prende il sentiero 533 che sale agevolmente verso il Passo della Pianella (1.365 mslm). Volendo si può anche proseguire per la carrareccia verso la Val delle Zolle, della quale questo tratto di sentiero costituisce una scorciatoia. Giunti al passo, si prende a sinistra imboccando la suggestiva “Strada della Cuccà”, un percorso militare di arroccamento che taglia gli scoscesi pendii meridionali delle Porte di Toraro, lambendo il Monte Cuccà e l'inconfondibile profilo del Capel de Vescovo, che più che una mitria sembra un corno dogale. 

Il percorso si dipana sostanzialmente in piano insinuandosi nelle testate della valli dei Tuvi e di Cuccà che precipitano ripide verso le sottostanti contra’ della Val del Tovo. Questo è forse uno dei percorsi più gradevoli e panoramici delle nostre zone, dato che offre pittoreschi affreschi rocciosi delle soprastanti stratificatissime dolomie, e aperti panorami dominati dai gruppi montuosi contigui del Pasubio e del Carega. Spettacolari alcuni resilientissimi faggi abbarbicati su quelle rocce in disperati radicali abbracci. 

Doppiato il Capèl del Vescovo, il sentiero s’inoltra verso la verde conca valliva dei Campoluzzi raggiungendo la malga di Campo Azzaron. Qui arriva anche l’erto e sinuoso sentiero 530 dei Castéi che parte dalla conca di Laghi e che poco prima s’era congiunto in quota con l’ancor più impervio strodo 525 che risale la selvaggia Val Sgarabozza.  

Dai prati di malga Campo Azzaron,  prendiamo a destra salendo proprio sul sentiero 530, che attraverso un bel bosco di faggi e con un costone roccioso finale, ci porta alla Croce del Toraro (1.670 mslm). Siamo sulla linea del fronte che vide contrapposti gli eserciti della Grande Guerra e dove passava il confine di Stato fino al 1918. Terre disputate anche prima, nelle secolari contese che videro contrapporsi la comunità di Folgaria a quelle vicentine. Questa cima non ha la notorietà e le visite del suo più blasonato vicino, il Monte Toraro, ma offre un ambiente più isolato e selvaggio, unitamente ad un panorama grandioso sui nostri altopiani. Vale certo una sosta che coniughi la mistica alla mastica.

Dalla cima si scende brevemente sul pendio orientale verso le Buse di Toraro fino ad incrociare il sentiero 533 che devia a Sud verso la verdeggiante conca di Malga Toraro (1.568 mslm). Questo è un luogo che pare favorito dai camosci, dato che non m'è quasi mai mancata occasione di vederne, addirittura in branchi di oltre venti esemplari. Dalla malga si prosegue sulla carrareccia che scende verso la nora di Barbarena, badando di deviare presto a sinistra per imboccare la valletta che prosegue col segnavia 533 fino ad incrociare la strada che porta al passo della Pianella e di lì al punto di partenza.

Si tratta di un giretto breve ed appagante, con un dislivello altimetrico limitato ai 500 m e percorribile in ogni stagione in 4 o 5 ore a seconda della gamba; anche ad autunno inoltrato, se manca la neve. Anzi, direi che è proprio nelle limpide e fredde giornate di primavera o d'autunno che il panorama offerto si dilata a dismisura e diventa solitario e grandioso.


Potpourri

 


Stasera vorrei chiederti scusa.

Per tutte le volte in cui ho pensato di conoscerti e ho sparato sentenze su di te e sulla tua vita.
Per tutte le volte in cui ho creduto di sapere cosa fosse più giusto per te.
Per tutte le volte in cui ho detto che stavi sbagliando, che non era così che dovevi comportarti.
Come se io sapessi cos’è giusto e cosa no.
Come se io avessi davvero questo diritto.

Scusami.

Per tutte le volte in cui nel mio cuore c’era invidia e per non guardare me ho trovato il modo migliore per distruggere te.
Per tutte le battute con gli amici, per le frasi superficiali dette a mezz’aria. Quelle che dici sperando che nessuno stia ascoltando davvero.
Ma che dici comunque.
Per pigrizia, per noia, per insoddisfazione. 
 
Scusami.

Scusami, per non aver pensato che a te, invece, avrebbero fatto male.
Scusami, per aver fatto finta di niente, per essermi raccontata che erano solo parole.
Le parole sanno fare molto male, e lo so.
Perciò scusami, se ho parlato di cose che non conoscevo come se le conoscessi.
Scusami, se ho fatto intendere cose su di te senza sapere se fossero vere.
Scusami, se non sono venuta da te, a chiedere a te, ad avere da te le risposte alle mie domande. 
 
Scusami.

Scusami, se ho preferito l’invidia, la codardia, la stupidità.
Scusami, se non ho avuto coraggio.
Avrei dovuto immaginare che per ogni parola cattiva lanciata al vento, avrei ucciso una parte di te e, in fondo, anche una parte di me.
Scusami, per aver sporcato la tua immagine e il mio cuore.
Scusami, per l’ironia, per la malizia, per la superficialità, per i commenti inutili.
Scusami per non aver avuto l’intelligenza di cercare argomenti davvero interessanti, per non aver voluto parlare di idee, di rivoluzioni, di cose belle.
E per essermi accontentata di una chiacchiera.
Per aver avuto paura del silenzio e averlo riempito con giudizi e pregiudizi.
Scusami, per non aver dato il buon esempio.
Per aver dato ascolto solo alla parte più meschina di me.
 
Scusami.

Scusami, perché solo adesso mi rendo conto che quando raccontiamo cose che non conosciamo, quando spariamo giudizi, quando ci sentiamo nel giusto, in realtà abbiamo solo tanta paura e un grande vuoto.
E tentiamo di riempirlo senza accorgerci che siamo sempre più vuoti.

Scusami, perché ho sbagliato.

E me ne vergogno, ma lo dico, perché ora che lo so, posso cambiare.
 
(dal web)

martedì 27 ottobre 2020

I viaggi della cicogna

In Contra' Forme Cerati è arrivata
MATILDE PROTTO 
per la gioia di Mamma Samantha Lorenzi e Papà Omar 
e anche delle Nonne Marie Jeanne e Leonella.







In gita col Prete

 


【Gianni Spagnolo © 20X17】
La gita col prete era una delle poche occasioni, al di là dell’emigrazione, che permetteva di mettere il naso senza ambasce fuori dal paesello. Si faceva in giornata verso le solite mete: alla Madonna di Pinè, a quella di Monte Berico, al santuario della Corona, al Santo di Padova e a qualche variante sul tema. Era prevalentemente partecipata da donne, raramente da uomini; un po’ perché gli uomini erano occupati o dispersi, di più perché erano considerate robe da fémene, riservate alla cerchia delle Pie Donne, cuéle tacà ale còtole del prete.
Io non ci ho mai partecipato; noi mòcoli avevamo riservate delle escursioni molto più interessanti e di nostro gradimento, cioè quelle in montagna stipati nella seicento di don Francesco. 
Allora bisognava presenziare d'ufficio ale Funsìon, cioè ai Vespri; ogni domenica pomeriggio, anche in quelle estive in cui il sole prorompeva dal rosone lusingandoci a scorrazzare all'aperto. Non vedevamo l’ora che il celebrante posasse l’ostensorio, Toni podólo gli levasse il piviale e si smorzassero i cori delle zelanti veciòte che intonavano in falsetto “.. Ohhh sole vivoooo disceso dal cielooo…” C’infilavamo correndo nel strendaóro che portava in sacrestia togliendoci la cotta in itinere e sfilandoci la talare, strappandone la fila di bottoni automatici fuori ordinanza per gettarla al volo sulla caeciàra al muro, dribblando lesti i codògni* di Toni Podólo. Così correvamo direttamente dietro il campanile, dov’era parcheggiata la seicento celestina di don Francesco, quella con le porte rovèrse e le gomme bianchenere. Qui accadeva il miracolo! Solo un benevolo intervento divino poteva infatti stipare cinque o sei mòcoli  urlanti in una Fiat Seicento, oltre naturalmente a don Francesco, che era un omone di suo.
Il prete era stato abilmente lavorato in precedenza per estorcergli la promessa di portarci in gita. Era un uomo buono, don Francesco, e cedeva volentieri alle nostre insistenze, anche perché così aveva modo d'ispezionare il territorio della valle in cui era capitato da poco. 
Era trevigiano di Segusino e parlava il veneto troncato di quelle parti, che a noi suonava strano e divertente. Fu così che scoprii il Cròiere, i Siroccoli, il Sojo dell’Aquila, Luserna, Lavarone, il Còvelo di Rio Malo, Rotzo, Tonezza... Riuscimmo perfino ad incrodarci sotto l’Obergrubele. Per la prima volta salimmo sul Summano, da dove ammirammo paesaggi sconfinati fino alla grande città là in fondo. Erano inconsueti per noi, abituati agli orizzonti vallivi castigati dai Soji. Non lo sapevo ancora, ma di lì a poco avrei varcato anch’io quegli orizzonti lontani, sulle strade d'emigrazione già tracciate dalla mia gente. 
In verità ero già stato laggiù a Vicenza, qualche anno prima, con mia mamma. Viaggiammo con la corriera di linea attraversando una pianura che mi pareva sconfinata, senza più montagne, verso una città che avevo solo sentito nominare, alla volta di  Monte Berico. Era l’epoca in cui le madri affidavano ancora i figli alla Madonna, così come un tempo fecero le loro, portandoli a Pinè a piedi e sulle spalle.

In questa foto, scattata in occasione di una gita a Sotto il Monte (BG), alla casa natale di Papa Giovanni XIII°, rivedo la Benedetta (06), sorella e perpetua di don Francesco, che aveva quell'acconciatura all'antica, che resisteva ancora nelle donne di Luserna. Un giorno ci premiò facendoci la cioccolata con una montagna di panna montata, una leccornia che noi mòcoli non avevamo mai assaggiato. Alla Benedetta associo pure un episodio che ha per oggetto l'umiltà. Eravamo, mi pare, a Castelletto, e la Benedetta ci aveva offerto delle mele, dono di qualcuno del luogo. Passò ad offrircele e io scelsi per primo, e con esitazione, la più piccola ed acciaccata. Quando ne ebbero prese tutti, lei lodò pubblicamente la mia generosa umiltà, portandomi ad esempio perché avevo preso per primo la più piccola e la più brutta, lasciando agli altri le migliori. In verità non era proprio così! Avevo preso la più piccola perché a me le mele allora non garbavano e quindi avevo solo scelto, par creansa, il male minore. La mela minore!

 (Foto gentilmente concessaci da Gianna Lucca, che ringraziamo.)

01 - Fontana Mattea (Tea)

02 - Righele Daria

03 - Suor Maria da Monteviale

04 - Guzzo Luigia (o Giuseppina?)

05 - Filosofo Marcella

05bis - 

06 - Zago Benedetta

07 -

08 - Toldo Vittoria

09 - Fratello di Papa Giovanni XXIII°

10 - Nicolussi Barbara (?)

11 - Slaviero Eleonora

12 - Fontana Romana 

13 - figlio di Slaviero Eleonora

14 - Toldo Gloria

15 - Pretto Ida (scarpara)

16 - Toldo Maria (maule)

17 - Cerato Liliana? o Stefani Dina?

18 - Toldo Felicita (la Feli)

19 - Sartori Ines

20 - Fontana Rosa (Rosina gala)

21 - Toldo Virginia Rosa (Rosina del sauro)

22 - Stefani Luigia

23 - Zampieri Olga

24 - Zampieri Ada

25 - Suor Carmina

26 - Suor ?

27 - Don Francesco Zago

28 - Bonato Maddalena

29 - Toldo Carmelina

30 - Gianesini Lilia

Codògno, cioè colpo inferto a striscio sulla testa con le nocche del pugno chiuso. Così era anche soprannominato da noi mòcoli  il sagrestano Antonio Nicolussi, detto Toni Podólo, per la sua terribile abitudine di punire in questo modo chi non si atteneva alla sua disciplina in chiesa.

Potpourri

 



A quelli che si siedono nell’ultima fila per non essere osservati.
A chi quando gli fai un sorriso in ascensore abbassa lo sguardo e arrossisce.
A chi rimane digiuno ai buffet.
A quelli che non dicono niente quando qualcuno taglia la coda e passa avanti.
A quelli che si scusano anche quando non dovrebbero.
A chi è educato anche a costo di sembrare scemo.
A chi ha un’intelligenza arguta e sa riconoscere quando è il momento di non arrivare primo. 
A tutti quelli che nella vita si sono persi un’occasione importante, perché un prepotente gliel’ha portata via.
A chi ha la risposta giusta e non alza la mano.
A quelli che ancora credono alla lealtà, a costo di essere sconfitti.
E niente...
Io vi vedo.
E siete proprio belli.

Roberto Pellico web

domenica 25 ottobre 2020

25 ottobre 2013...altri tempi :-(((


 

La pagina della domenica


In quel tempo i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 
*§* 


Oggi, ci ricorda la Chiesa un riassunto del nostro “atteggiamento di vita” («Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti»: Mt 22,40). San Matteo e San Marco lo mettono sulle labbra di Gesù Cristo; San Luca su quelle di un fariseo. Sempre in forma di dialogo. Probabilmente avranno rivolto al Signore domande simili. Gesù risponde con le parole con cui comincia lo “Shemà”: preghiera composta da due citazioni del Deuteronomio ed una dai Numeri, che i giudei fervorosi recitavano due volte al giorno: «Ascolta, Israele, il Signore tuo Dio (...)». Al recitarla, si prende coscienza di Dio nello svolgere le attività del vivere quotidiano, mentre ricorda quello che è più importante in questa vita: Amare Dio al di sopra di tutti gli “idoletti” ed il prossimo come sé stessi. Dopo, al concludere l’Ultima Cena, e con l’esempio della lavanda dei piedi, Gesù annuncia un “comandamento nuovo”: amarci come Lui ci ama, con “forza divina” (cf.Gv 14,34-35).

Bisogna prendere la decisione di praticare con i fatti questo dolce comandamento – più che comandamento, è elevazione e capacità- nel tratto con gli altri: uomini e cose, lavoro e riposo, spirito e materia perché tutti e tutto siamo creature de Dio.

D’altra parte, al trovarci impregnati nell’Amore di Dio, che abbraccia tutto il nostro essere, restiamo abilitati a rispondere ”divinamente” a quest’Amore. Dio misericordioso non solo toglie il peccato del mondo (cf. Gv 1,29), ma ci divinizza, siamo “partecipi” (solo Gesù è Figlio per Natura) della natura divina; siamo figli del Padre nel Figlio per mezzo dello Spirito Santo. A San Josemaria gli piaceva parlare di “divinizzazione”, parola che ha radici nei Padri della Chiesa. Per esempio, scriveva san Basilio: «Così come i corpi chiari e trasparenti, al ricevere luce, cominciano ad irradiare luce propria, così brillano quelli che sono stati illuminati dallo Spirito. Questo comprende il dono della grazia, gioia infinita, permanenza in Dio... e la meta massima: la “divinizzazione”». Desideriamola!
 
Un momento di riflessione:
 
..."Poco importa sapere dove l'altro sbaglia, perché lì non possiamo fare molto. 
E' interessante sapere dove sbagliamo noi stessi, perché lì si può fare qualcosa..."
 

Potpourri

 


Il remissivo è colui che rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione. Il mite, no: rifiuta la distruttiva gara della vita per un senso di fastidio, per la vanità dei fini cui tende questa gara, per un senso profondo di distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più, per mancanza di quella passione che, secondo Hobbes, era una delle ragioni della guerra di tutti contro tutti, la vanità o la vanagloria, che spinge gli uomini a voler primeggiare; infine, per una totale assenza della puntigliosità o dell’impuntatura che perpetua le liti anche per un nonnulla, in una successione di ripicchi e ritorsioni, del «tu l’hai fatta a me, io la faccio a te», dello spirito di faida o di vendetta che conduce inevitabilmente al trionfo dell’uno sull’altro o alla morte di tutti e due.

Norberto Bobbio, "Elogio della mitezza e altri scritti morali".

Curiosità di ogni genere


Ripatransone, il vicolo più stretto d'Italia e il suo patrimonio artistico


Dicono che quando il cielo è terso lo sguardo riesca a spingersi fino all'altra sponda dell'Adriatico e si scorgano le Alpi Dinariche. La bellissima giornata che ci ha accompagnato nella visita di Ripatransone - a 500 metri di altitudine e una decina di chilometri dal mare - non ci ha permesso di andare così oltre, ma la visuale che si gode dal belvedere all'ultima curva prima dell'ingresso in paese è stato ugualmente grandioso, spaziando dalla caratteristica forma del monte Ascensione e dai Sibillini al massiccio del Gran Sasso e della Laga.

Con queste premesse, inserito in un splendido paesaggio di Calanchi ed in posizione così panoramica, Ripatransone non poteva deludere. E non lo ha fatto, candidandosi con merito tra i più bei borghi che abbiamo visto. 
Ci sono tanti motivi per i quali questa cittadina di origine medioevale merita di essere visitata. Non ultimo il suo centro storico, il secondo della provincia per dimensioni dopo Ascoli Piceno, racchiuso dentro possenti mura.


IL VICOLO PIU' STRETTO D'ITALIA

Ma iniziamo dalla sua attrazione più nota, il Vicolo più stretto d'Italia, così piccolino da non avere nemmeno un nome: si tratta di una viuzza che rispetta tutti i canoni per essere considerata un vicolo (pavimentata, percorribile e con almeno una finestra o una porta che vi si affacci) ma che è larga solo 43 cm! Questa misura registrata all'incirca all'altezza delle spalle di un uomo si accorcia ulteriormente in alcune stretture arrivando a 38 cm. Ancora più angusto del Vicolo Baciadonne di Città della Pieve a cui ha strappato il primato, che mi sembrava già un pertugio!
A poca distanza si trova piazza XX settembre, il fulcro di Ripatransone. Qui passa immaginariamente il 43° parallelo di latitudine nord e si affacciano il Palazzo Municipale  del XIII secolo ed il Palazzo del Podestà anticamente noto come il Palazzo degli Anziani, risalente ai primi anni del XIV secolo, riconoscibile dal porticato a 7 archi (6 a tutto sesto con un arco a sesto acuto nel mezzo) e dalla torre civica.
All'interno del primo si trovano la biblioteca ed il Museo Archeologico C. Cellini che ospita vari resti di età romana, medievale e picena; nel secondo si trova uno dei teatri storici delle Marche, il teatro Luigi Mercatini (del 1790).
(girovagate-web)

La foto curiosa

Frazione Longhi - foto di Manuela - 

Tosate le avevo viste ancora, ma numerate in questo modo mai...

Ci catalogano sempre come "pecore"... ci dicono che siamo solo "numeri"...

Beh... qui siamo magnificamente descritti...😊😊😊




sabato 24 ottobre 2020

La bala del cafè

【Gianni Spagnolo © 20X20】

Fra la batarìa che occupava i nostri granari, credo ognun di noi si ricordi del brustolìn, o bala da cafè, che dir si voglia. La sua strana struttura con le due semisfere chiuse a tenaglia, catalizzava sicuramente la curiosità di chi non l’aveva mai vista in funzione. Era questo un attrezzo di ferro, generalmente arrugginito dalla militanza nel fuoco, con lunghi manici che serviva per abbrustolire i chicchi di caffè sul fuoco del focolare. 

Beh, ... in verità non era proprio solo caffè quello che tostava, bensì ogni altro prodotto che potesse, anche molto vagamente, assomigliargli. Al tempo che s’usava il brustolìn, il caffè vero era merce di lusso e perciò s'usava con moderazione additivato con surrogati di vario tipo. Alle volte il caffè, con la sua sferzatina d’energia assicurata dalla caffeina, mancava del tutto. Effettivamente, quel brodino amaro e caldo dovrebbe appunto servire per tenerci svegli, non si spiega altrimenti la necessità di ricorrere a dei sostituti simili soltanto nel colore, ma non certo nel contenuto di alcaloidi. Eppure, di surrogati del caffè ne sono stati inventati di continuo, affinché tutti potessero bere la loro bollente e scura bevanda o mitigare l’esuberante candore d’una tazza di latte. Perciò, specialmente nel mondo rurale, in mancanza di caffè “coloniale” (com’era chiamato  in tempi di vacche magre), il caffè lo si faceva un po’ con tutto. Il più conosciuto è senza dubbio quello di cicoria e di orzo, ma poi, senza che si dicesse troppo in giro, esso si preparava anche tostando la segale, l’avena, le castagne, le ghiande e addirittura i fichi; ma anche con lupini e ceci, a seconda dei prodotti che offriva il territorio. 

Negli anni delle guerre mondiali, per ovvi motivi, prosperarono parecchia fabbriche di surrogati, come il Vero Franck tedesco e il suo concorrente italiano: la Miscela Leone. In molti arrivarono a preferire i surrogati al caffè autentico, probabilmente perché il loro largo consumo aveva assuefatto il gusto. D'altronde, in tempi in cui si fumavano anche le foglie di fagàro del farlèto arrotolate nella carta del calendario, oppure i visùni sìchi, non c’era d'esser troppo schizzinosi.

Nel post precedente* abbiamo parlato del caffè preparato con la caffettiera, ma questi erano già lussi da dopoguerra. Prima il caffè si faceva, per così dire, ancora alla turca. La polvere era messa a bollire sul fogolàre in un pentolino spesso ricavato da un vecchio bandòto di conserva e il brodino nero raccolto con un mestolino, in modo che la feccia rimanesse sul fondo, anche se non era quasi mai così. La polvere già usata non veniva certo sostituita, ma semplicemente addizionata di un po’ di nuovo prodotto e rimescolata con decisione, così da estrarne ogni molecola di essenza. Ecco quindi che l’attrezzo di tostatura, assieme al macinino a manovella, rivestiva un ruolo importante nelle dinamiche domestiche e permetteva persino di dosare la tostatura a proprio piacimento, cosa che invece noi moderni non possiamo più fare. 

Nello spazio d'un secolo siamo quindi passati dalla bala alla cialda, conservando comunque il piacere di concederci questo bollente sfizio, ma perdendo del tutto il legame con la terra da dove proviene e della quale ci riporta il colore. 

Post: profumi de na volta


Val d'Astico verticale

Il libro lo trovate da Alberto della Seconda



L'angolo della poesia

 






Che splendida luce ha il bosco
mentre beve i sorsi del mattino
e allarga le braccia
nel gioioso risveglio.
Le foglie arrossate
come colte da una
improvvisa emozione
che non sanno nascondere
e bellissime come stelle
brillano e tremano
sotto il tiepido sole.
La terra morbida
accoglie i passi, le voci,
prima dei grandi silenzi
e dei lunghi giorni freddi.
Ma oggi il cielo splende
e l'aria ha il respiro profondo
di chi ama ed è riamato.
Francesca Stassi

giovedì 22 ottobre 2020

El baito d'Isaco al Canpéto


(foto gentilmente concessa da Gianna Lucca)


Gianni Spagnolo © 20X11】

Eccola qua, finalmente, una foto del bàito così com'era ai suoi tempi belli. 

Questi ragazzotti, nei loro forse vent'anni, hanno pensato bene d'immortalarsi accanto a quel bàito che fu testimone della loro giovinezza, meta dei loro giochi, dei loro scherzi e di chissà cos'altro. 

Era troppo invitante quella rustica capanna a due piani, costruita parte in muro e parte in legno, posta sull'accesso del canpéto di Isacco Nicolussi. L'unico vero pianoro di quelle laite, in sima al Creàro, sula Strada dei Salti, soto le Jóe.

Erano troppo invitanti le elaborate serrature in legno che Isacco, abile falegname, escogitava per impedirne l'accesso. Raccontavano che dovesse continuamente elaborarne di nuove, rendendole sempre più complicate, in una continua e ìmpari lotta con la bociarìa dela Piassa. 

Era un punto d'osservazione eccezionale quel posto, dove la vista dominava il paese e spaziava su per la valle fino al Cornetto. La mia è stata l'ultima generazione a vederlo così e poi distrutto dall'irrilevanza e dall'incuria. Isacco era già andato avanti da ormai vent'anni e neanche la Rosa boja, sua nuora, coltivava più quel canpéto, che divenne parte del nostro immenso campo giochi. Noi fummo gli ultimi a giocare sulla montagna.

Quello che allora era l'orgoglio d'un vecchio, è diventato luogo del cuore e icona di quella libera giovinezza.

1 - Giorgio Toldo (carmelina)

2 - Germano Gianesini (garbato)

3 - Tresesiano Pesavento (cai)

4 - Ermanno Lorenzi 

5 - Teresio Lorenzi (carnavale)

6 - ?

7 - Antonio Fontana (catinon)

8 -  Gilberto Lorenzi (puce)

Il bàito ai giorni nostri.



Curiosità

 




Stanno tornando di moda a Firenze le antiche buchette del vino. Utilizzate durante l’epidemia di peste, ora trovano nuovo uso per favorire il distanziamento sociale ai tempi del coronavirus.

Le “finestre del vino” o “buchette del vino” risalgono al XVI secolo. Allora furono progettate per servire i clienti senza avvicinarsi direttamente a loro, l’apertura infatti veniva utilizzata per il passaggio delle bevande. Un’antica tradizione che sta riprendendo forza durante la pandemia.

Nel XVI secolo i proprietari terrieri dovevano diversificare il loro reddito e per questo furono incoraggiati dalla famiglia fiorentina dei Medici a coltivare la vite e vendere la loro produzione di vino senza passare per intermediari.

Intorno all’anno 1532 nacquero in Toscana queste caratteristiche piccole aperture, intagliate a mezza altezza nei muri delle cantine e dei negozi, utili ai commercianti per servire le loro bevande a distanza di sicurezza. Le finestre del vino ebbero un improvviso fervido successo a causa dell’esplosione dell’epidemia di peste del 1630.

Le buchette, infatti, aiutavano a ridurre i contatti tra venditori e acquirenti e di conseguenza limitavano il rischio di contagio. Ma chi se l’aspettava che, dopo tutto questo tempo, sarebbero tornate utili proprio nel corso di un’altra pandemia?

Molto apprezzate nel Rinascimento, le finestrelle caddero gradualmente in disuso. Tuttavia, un evento inaspettato, ha rianimato l’uso di queste aperture: appunto l’epidemia di Covid-19.

La Madonna delle rose

Giampaolo Alessi e Adriano Carraro hanno posizionato la Madonna delle Rose sulla seconda cengia della ferrata, appena sopra il ponte Tibetano dei Salvanei. La madonnina è stata donata da una persona  che vuole rimanere anonima, comunque noi tutti la ringraziamo per il suo dolce pensiero. Sperando che la Madonna delle rose sia di aiuto e conforto a chi ne avrà veramente bisogno.









Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...