【Gianni Spagnolo © 20X14】
Il nostro mondo ci sembra ormai libero dai condizionamenti e dai tabù che hanno caratterizzato il passato. Viviamo in una società che lascia spazio ad ogni comportamento ed emozione, normalizzando, frullando, omogeneizzando e fors'anche banalizzando un po' tutto. Per accorgerci infine che l’uomo*, ha gli stessi aneliti e paure di sempre e che questi non sono esorcizzabili dal parlare politicamente corretto, dall’evitare ogni genere di contrapposizione o dal considerare tutto al medesimo livello sociale, culturale, etico o morale. Io appartengo, almeno anagraficamente, alla generazione del cosiddetti baby-boomer, proprio quelli che hanno rottamato il vecchio e aperto al nuovo; i campioni del “vietato vietare”. Forse la prima generazione, nella lunga storia dell’umanità, che ha dato luogo a un così drastico e repentino mutamento culturale e sociale; qualche riflessione posso dunque farla.
I tabù sono delle barriere psicologiche che servono l’ordinamento sociale. Possono avere origine e attributi sacrali, come accadde largamente in passato, o normative e culturali, come al presente; ma sempre tabù rimangono. Alcuni sono legati all'ignoranza, altri alla religione, altri ancora all'opportunismo o all'educazione. Quelli riguardo al sesso, per esempio, sono evidente retaggio di norme religiose e dell'ordinamento patriarcale, ma ce ne sono di attuali di forse maggiore e universale presa. Mi riferisco a ciò che una volta chiamavano “i novissimi”, ma che, evitando ormai incomprensibili rimandi escatologici, possiamo semplicemente riferire alla morte. Il più grande tabù moderno, l’evento da sminuire ed esorcizzare con ogni mezzo, è infatti proprio la morte.
Non è stato sempre così.
Oggi ho giusto l’età in cui capitava che mio padre parlasse della morte: ... co no ghe sarò pì! Io lo schermivo amabilmente, essendo quell’orizzonte teoricamente più o meno remoto per entrambi. Pensare al futuro, comunque inteso, era tuttavia una costante dei miei genitori e di coloro che li avevano preceduti. Si può dire che vivessero la loro vita proiettata nel futuro e nei figli. Qualsiasi cosa facessero aveva un’evidente appendice nel domàn; niente era solo per l’oggi. Una prospettiva che ha un po’ condizionato anche me e della quale oggi avverto la mancanza, pur avendola magari irrisa allora. Oggi si vive per l’oggi, nell’ottica epicurea del carpe diem. «Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: del doman non v’è certezza». Lo cantava già alla fine del Quattrocento Lorenzo il Magnifico, uno che evidentemente se n’intendeva, ma la provocazione è d'evidentissima attualità.
Che si muoia soli pare assodato, oggi però si muore in solitudine, cioè soli e isolati, che è ben diverso. Un tempo da noi la morte era un fatto sociale e il lutto un’elaborazione collettiva, a prescindere. Cominciava in genere nelle ciàcole delle comari, che parlavano sommessamente e con aria grave delle condizioni dell'infermo. Assumeva poi veste sacrale nel prete che veniva chiamato in casa del moribondo, passando per il paese in cotta e stola, con accanto il mòcolo in mise d'ordinanza, a portare “i oji”. Qualche volta la feci anch’io quest’incombenza, accompagnando il prete per l'estrema unzione. Vidi così spirare sereno mio prozio Matìo, unto del Sacramento, e altri ancora. Allora i bambini non venivano del tutto sottratti alla presenza della morte, mentre adesso pur gli adulti ne fuggono anche solo l’evocazione. Adulti che una volta si preparavano e ne accettavano l’ineluttabilità, consapevoli di far parte di un disegno salvifico che la stessa comunità suggeriva con i suoi riti e la sua premurosa prossimità.
A transito avvenuto (anche le parole avevano un loro perché), Toni Podólo suonava l’agonia dal campanile, con la campana distesa bloccata dalla corda sul terso bòto, ripetuti in numero diverso a seconda che il defunto fosse uomo, donna o bambino. Così il paese veniva informato in tempo reale che la morte l’aveva visitato. Non finiva neanche di smorzarsi fra i soji l'eco degli ultimi mesti rintocchi, ch'era già nota alla comunità tutta l’identità del defunto, passata di voce in voce e de balcòn in pèrgolo.
Jesumarìa, ... poaréto/a!
Il morto veniva lavato, vestito con l’abito buono e sistemato nel suo letto, vegliato dai candelabri ai lati e dal crocifisso astile nero in fondo. Le mani ceree incrociate sul petto e legate immancabilmente dalla corona nera. Alla veglia funebre s’avvicendavano i conoscenti e i parenti, anche quelli che in casa s’erano visti poco. In sottofondo risuonavano sommesse le avemarie del rosario, biascicato in latino dalle veciòte assise sulle carèghe lungo il muro, sovrastate dal chiacchiericcio degli ospiti in visita e dalle usuali frasi di circostanza. Morivano nei loro vecchi letti di pésso che forse li avevano anche visti nascere, attorniati da volti cari e dalla consapevolezza d'esser parte d'una comunità; fino alla fine.
Al tarséto biognàva nare, cascasse el mondo! Guai mancare!
Se non era parente era sàntolo/a, se non era sàntolo/a, era amico/a di famiglia, altrimenti era comunque un paesano cui si doveva rispetto e vicinanza di fronte alla morte. Almeno uno per famiglia non poteva esimersi dal presenziare, era un obbligo sotteso tra il diplomatico e il sacrale; così come per l'òbito. La rappresentanza ai tarséti meno obbliganti era spesso delegata alle ragazze adolescenti, incarico che non era particolarmente apprezzato.
Al funerale ci andava quasi tutto il paese, salvo quelli che fossero impossibilitati. Credenti o meno, devoti o impenitenti, tutti partecipavano al rito. Alcuni magari a modo loro, attendendo chiacchierando fuori dalla porta della chiesa di accodarsi mesti all’òbito; qualche incallito direttamente dala Nìnele. L’accompagnamento al cimitero era sospeso fra il sacro e il profano, ieri come oggi, ma costituiva un rito ancestrale che prescindeva da ogni considerazione e si consumava nella consapevolezza della caducità dell’esistenza. Anche l’ipocrisia, mai assente, era assolta dalla sacralità della morte. Raccontano in casa che mio nonno non mancasse mai a un funerale, lo riteneva un obbligo morale per chi non era impegnato nel lavoro, e come lui molti della sua generazione. Fece una sola eccezione quella volta che, radendosi, si tagliò inavvertitamente un baffo e dovette soprassedere per ragioni di decoro.
Il giorno dei Morti aveva una sua aura speciale, che sopiva asti e contese e richiamava all’essenza di un evento ineluttabile che prima o poi tocca tutti. In un certo senso serviva a ricostruire la comunità lacerata dalla morte. No, ci siamo liberati di tante cose, ma non di questa. Anche la nostra arroganza scientifica e tecnologica si sta inchinando ad un inafferrabile baéto foresto, così come fecero i nostri avi di fronte alle tante pestilenze, armati solo di santa rassegnazione. Oggi, la maggioranza del paese, quella silenziosa, è oltra ai Rìghele. Domani, quella silente comunità sarà animata da fiori freschi, fiammelle tremolanti di lumini e visite veloci e infreddolite, magari accelerate o limitate proprio da questo virus molesto. Forse sta diventando anch'esso più un rito di rimozione che di riflessione.
*Pardon: l’uomo, la donna e gli esponenti di tutti gli altri generi, noti o ancora ignoti che fossero.