domenica 31 maggio 2020

La pagina della domenica





"T'ho portato un fiorellino
che trovai lungo il cammino:
lo raccolsi sol per Te.
E' un fioretto appena aperto,
che ti piaccia, sono certo,
cosi umile com'è.
E ti prego, Madonnina,
per il babbo e la mammina,
per chi vive intorno a me." 
(Renzo Pezzani)


Maggio, il mese Mariano, sta terminando, le Maestà e le cellette con le immagini della Madonnina sono state protagoniste di omaggi e preghiere, di fioretti e invocazioni, tradizioni antiche e belle che ancora sopravvivono tra noi...

IL VANGELO DELLA DOMENICA 

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

LA POESIA

Com'è strana la pioggia di maggio,
scrive ai margini del cielo
la tristezza nascosta tra i colori,
il filo logico si spezza in pianto
anche tra i raggi di sole.
Fa freddo tra le rose,
tremano le spine pronte a ferire
e non sai se aggiungere
il tuo struggimento
per sentirti meno sola
o lasciare cadere il giorno
fingendo indifferenza
quando tutto ti sfiora.

Francesca Stassi

LA FRASE










IL PROVERBIO

Una tigre non perde il sonno per l'opinione di una pecora


RELAX



La vita del Borgo dopo il primo taglio di fieno



C'era un sole forte quando un trattore azzurro iniziò, con voce roca ad urlare, nel suo rotacismo che veniva dal fondo della vallata. In tanti tra gli abitanti alzarono lo sguardo verso il sole, in mezzo a poche nuvole, sentirono quel rintocco senza tempo e per tutti iniziava il nuovo momento della vita. Gli anziani sapevano che per tutto il pomeriggio quel suono avrebbe accompagnato la vita del piccolo paese adagiato sui monti, protetto dalle stelle e difeso dalla rocca antica che sempre meno in questi giorni sembrava voler lasciare andar via la luce del sole. Ed i campi, piano piano, in un lavoro lento e preciso, da verde scuro con macchie rosse e bianche di fiori che resistevano al caldo di fuoco, sarebbero diventati quasi gialli, in una serie di onde interminabili che si perdevano al confine con il bosco. E man mano che il trattore avanzava e lasciava sdraiati i fili d'erba in un suono di soffio e fruscio che a nessun altro era simile, saliva l'odore al cielo, di menta, di erba cipollina, di salvia, di borragine, di cicoria e papaveri, di ogni famiglia di piante e fiori e più la sera avanzava e poi quel profumo cresceva, intenso. Restava nelle case, nei cortili con le peonie e con i nidi delle rondini, restava sotto il pergolato di glicine e negli orti rimessi a nuovo. Fu festa nel borgo quel lungo pomeriggio diverso da tutti gli altri. Era un tripudio di rondini che scendevano dal celeste del cielo per planare sull'erba tagliata, tuffarsi su quel fieno odoroso che avrebbe inzuppato di profumo il borgo e la valle per molte sere luminose. Era la sera della luna sfumata tra le nuvole umide, era la notte delle serenate d'amore dei gatti nei cortili macchiati di boccioli di rose, era la notte dei desideri lasciati alle stelle, la notte delle musiche lontane e dei campanelli dei cavalli che dormivano sotto il cielo circondati dalle campanule e dal mughetto. Era la sera dei grilli che gridavano più del solito, in mezzo al tarassaco reciso e delle lucciole in silenzio ed ancora al buio si preparavano per danzare rendendo magico il luogo dove in inverno qualcuno si diede gli ultimi baci. Era la notte in cui, sul grande ciliegio, gli uccelli notturni facevano addormentare con una nenia il piccolo borgo in pietra e lo risvegliavano di soprassalto prima dell'alba con gli acuti che risuonavano nella vallata, prima che il gallo svegliasse i contadini nell'alba bianca e azzurra. Era la sera chiara e odorosa, in cui due ragazzi che si erano tanti amati fecero l'amore per la prima volta ed era la notte delle candele poste alla finestra che illuminavano le vie strette con i balconi pieni di fiori. Era la sera in cui il vento all'improvviso soffiava forte, lasciava che gli scuri sbattessero di netto, quasi a voler spostare le montagne e portava via i pensieri, i cuori, i desideri. Era iniziata una nuova stagione nel piccolo borgo che viveva da sempre sotto il sole, una stagione diversa, ma uguale alle altre delle generazioni passate, per le quali l'estate racchiudeva i mesi dell'attesa, della magia, delle lucciole e dei papaveri, delle farfalle e delle fragole, dei falò sotto le stelle, del cerchio della vita che si apre e che si chiude, i mesi del lavoro faticoso, dei baci ritrovati e dati di nuovo, ma con un nuovo sapore, del grano e degli acquazzoni per far nascere l'arcobaleno, i mesi dell'amore senza tempo e del perdono. I mesi delle stelle cadenti in mezzo al cielo concavo, i mesi delle corse senza fine in mezzo ai girasoli, dell'acqua di San Giovanni e delle lunghe processioni. I mesi in cui il desiderio lasciato nei rami freddi dell'inverno veniva fuori con forza insieme alle foglie nuove e con il vento diventava giorno e notte e vita.
L'odore del fieno di giugno


Ieri grandi pulizie a Pedescala nella zona del monumento ai Caduti e nell'area verde vicino al ponte. Sempre grazie al Gruppo dei Volontari





(segnalato da Lucia)

Dal mese di giugno, su prenotazione almeno il giorno prima, la Baita del Bostel propone alle famiglie un nuovo modo di pranzare... Il "cestino della Baita"... Voi ordinate e vi prepariamo confezioni da consumare su di una coperta o sui tavolini sui prati del Bostel... In assoluta sicurezza!!!





Mi piace il colore di questo cielo, anche se nuvole dispettose tentano di sminuirlo... E adoro anche quando l'Astico si tinge di smeraldo. La foto di Anna Rossi


Realtà di un tempo che fu...

(documento di Silvio Eugenio Toldo)

sabato 30 maggio 2020

La Dogana di Valdastico prima dell'alluvione del 1960. Da notare i giganteschi "repari" scomparsi durante questa alluvione (foto da Silvio Eugenio Toldo)


Un po' di tutto

Quando compresi
che l’essere umano civilizzato
non crede a ciò che vede
ma vede ciò che crede
ho lasciato andare
la volontà di convincere
la pretesa di ragione.
Se non si è praticato
il dubbio creativo
la ribellione amorosa
e l’ascolto dello spazio tra i pensieri
non è possibile smontare una radicata credenza
nemmeno con la chiara evidenza.
Allora non mi ritiro nel guscio
ma lascio che il mondo raggiunga
l’agonia che desidera
il limite della propria sopportazione.
Non mi scandalizzo più
di ciò che già da tempo oscurava
delle menzogne torbide dei media
la mercificazione dei corpi
la robotizzazione degradante dell’umano
se quella è la morte
che vuole la gente.
Aspetto solo l’attimo prima
della prossima catastrofe
quel momento estatico
in cui si vedrà
che l’attaccamento interessato
a ciò che crediamo
era il nostro veleno.
Non siamo noi a dover svegliare qualcuno
è la Vita che come amorevole Madre
prende a sberle e colpisce e toglie
per spostarci dal falso.
Ciò che ci compete
è la manifestazione incarnata
della Presenza autentica
ma prima occorre sentirla
come gattino impaurito
raccoglierla dal cassonetto
curarla
darle Spazio.
Questo è l'unico
investimento redditizio.
(Giordano Ruini - da "Non voglio tornare alla normalità, voglio ritornare alla Vita"

venerdì 29 maggio 2020

In quanti li abbiamo provati questi stati d'animo?

"Dover uscire di casa per telefonare, controllare di avere in tasca abbastanza monete, chiedere al tabaccaio la scheda telefonica prepagata da 5000 lire e domandarsi se basterà; cercare la cabina il cui telefono non sia guasto, chiudersi dentro e lasciare fuori il mondo, sperando di non vedere nessuno piazzarsi lì accanto in attesa, sperando di avere abbastanza tempo, sperando in una risposta. Stare attenti a non sbagliare numero, immaginare la faccia dall'altro lato del telefono, prestare attenzione ad ogni respiro, ad ogni pausa, ad ogni inclinazione della voce, sentire il tic dello scatto e avere voglia di chiudere gli occhi, di far finta di essere soli, come se quel minuscolo spazio non fosse una prigione, ma un universo parallelo, desiderare che quel filo unisca davvero, che per magia faccia passare non solo le parole, ma anche i pensieri e le emozioni. Illudersi che la distanza possa fare un po' meno male, almeno per qualche momento, che sentirsi possa bastare per essere più vicini, lasciare vagare lo sguardo distrattamente attraverso i vetri, con un solo desiderio nel cuore. Essere altrove."
Laura Messina




Accettazione


Accettazione non significa rassegnazione.

C’è molta confusione sull’idea di accettazione.

Accettazione non è la paralisi.

Non significa arrendersi, o diventare noiosi e distaccati, o spiritualmente annoiati.

Non significa chiudere gli occhi ad una situazione di sfida, sperando che la tempesta passi.

Non significa interpretare le pene del mondo come “pure illusioni”, o pretendere di essere in una “consapevolezza” distaccata, o il “testimone” della vita.

Non significa sedere e “non far nulla” come strategia di evitamento.

Non significa non interessarsi.

Non significa rinnegare tutte le responsabilità e biasimare la società, il governo, i media, l’allineamento dei pianeti, gli “altri”, o anche se stessi.

Non significa nemmeno oscurarsi gli occhi.

Accettazione significa entrare in una situazione da un luogo di calma, curiosità e presenza, senza fretta o risposte semplicistiche.

È un senso più profondo, significa essere qui.

Significa impegno creativo con l’universo da un luogo di stabilità interiore e equilibrio, non di paura o rabbia.

Significa trovare pace nella tempesta, e permettere alle azioni di emergere da lì.

Significa riconoscere la tua appartenenza a tutta la vita, la tua vera identità oltre nome e forma.

Significa non essere schiavo di pensieri di paura o idee preconcette, o essere alla mercé di sensazioni intense.

Significa affrontare il turbinio dello spazio-tempo, sì, ma sapendo dove stare: nel momento presente.

Non significa abbandonare il tuo potere o le tue abilità, o la tua inspirazione, ma semplicemente il lasciare andare le cose su cui non hai il controllo dal luogo in cui sei.

Accettare il momento (o meglio, ricordare che il momento è già accettato) non significa che le cose non cambieranno in futuro.

Non significa che le risposte non arriveranno, che l’attività non accadrà; significa solo arrendersi al “così è” del momento presente, il luogo dove il vero cambiamento può avvenire, dove risposte inaspettate emergeranno.

Non significa la fine dell’attività, ma la fine della reattività, la fine della abituale fuga, la fine del correre a conclusioni, la fine di cercare nemici “là fuori”.

Significa la fine della vecchia consapevolezza di giusto e sbagliato, peccato e biasimo, “loro” e “noi”.

Accettazione significa entrare in una situazione da un luogo di calma, curiosità e presenza, senza fretta o risposte semplicistiche.

Significa non abbandonare chi ami, ma abbandonare l’idea e la speranza che il passato potesse andare in modo diverso, o che il futuro possa essere completamente controllato.

Significa affrontare cosa vuole essere visto, ora.

Significa connessione ora.

Significa avere i tuoi piedi ben piantati nel terreno, ora, ma gli occhi ben aperti, all’amore, alla possibilità, a quella strana terra chiamata “futuro”.

(Jeff Foster)




Non sono più tra noi - FC


giovedì 28 maggio 2020

È già passato un anno...

Carissimi concittadini,

è già passato un anno dalla grande gioia vissuta quel 26 maggio 2019, quando abbiamo saputo che saremo stati al vostro fianco per 5 anni. Sono trascorsi da allora 12 mesi di impegno, di ascolto e di confronto, di progetti e di azioni concrete. Una strada che non è sempre stata facile, soprattutto in questi ultimi mesi, in cui l’emergenza Covid-19 ci ha messo duramente alla prova. Ma è stata altrettanto bella la risposta che Valdastico ha saputo dare in questa situazione difficile, dimostrandosi Comunità unita e solidale, in cui tanti cittadini hanno voluto e ci stanno dando una mano.

Appena questo drammatico momento finirà, riprenderanno tutti i lavori già programmati, oltre alle attività socio-culturali!

Carissimi concittadini, noi proseguiamo il nostro lavoro con l’entusiasmo, con la forza e con l'incoraggiamento che continuamente ci date. Vi siamo davvero grati e siamo fiduciosi che il nostro impegno e la nostra determinazione ci aiuteranno a vincere ogni paura e a ricominciare, come sempre, uniti e solidali come Voi ci avete dato prova in questi mesi.

La strada da percorrere insieme è ancora lunga, ma siamo certi di avere al nostro fianco degli ottimi compagni di viaggio.

Avanti tutta.

Il Sindaco

Claudio Sartori

e tutta l’Amministrazione Comunale.

Le date per ritiro pensione


mercoledì 27 maggio 2020

Non sono più tra noi FC


Dal drone di Flores Munari: da Malga Melegnon lo Spitz di Tonezza e Rifugio Melegnon


Pietà per la scuola

di Alessandro D’Avenia 

corriere.it

Il 21 maggio del 1972 un uomo, tra le urla, si lanciò con un martello contro la Pietà di Michelangelo in San Pietro. Prima che un pompiere, in visita alla basilica, riuscisse a bloccarlo aveva già assestato 12 martellate alla statua della Madonna, staccandole un braccio e sfigurandole il volto. Tutti si sentirono feriti nel proprio corpo, perché la bellezza è la memoria viva degli uomini, resa duratura nelle opere del loro agire migliore (politico, artistico, tecnico...). Quel marmo appartiene a me e a voi, come accade con i ricordi di famiglia più intensi. Memoria non è infatti un passato da ripetere per una nostalgia malata, ma vita che non muore, presente continuo che penetra i secoli, frantuma gli orologi e offre all’uomo di tutti tempi l’energia di cui ha bisogno per rinnovarsi: trasformare in vita il dolore di una madre per il figlio morto (la Pietà) è una delle vette della memoria. Così l’opera, come racconta il documentario «La Violenza e la Pietà», fu riparata con la cura dovuta alle cose irripetibili e le sue cicatrici testimonieranno per sempre che noi siamo o costruttori o distruttori. I primi, in ogni ambito, salvano il mondo perché ne compongono la memoria, cioè la vita, mentre i secondi la demoliscono. In mezzo ci sono gli istruttori, coloro che istruiscono, cioè donano alle nuove generazioni i ricordi più vivi della famiglia umana: la chiamiamo «scuola».
Che ne è stato della scuola così intesa in questi mesi? Come ci siamo presi cura della vita di bambini e ragazzi? Le decisioni, prese spesso fuori tempo (come per l’esame di terza media e di maturità), li hanno aiutati? Per rispondere mi servo di un esempio personale. A un mese e mezzo dalla decisione di chiudere le scuole, sono stato contattato dal Ministero per partecipare a una lodevole iniziativa: fare, insieme ad altri «Maestri» (titolo del format), due lezioni di 15 minuti su temi a mia scelta, che poi sarebbero andate in onda su un canale nazionale. Ero allettato (o meglio il mio ego lo era), ma poi mi sono concentrato sui ragazzi e ho declinato l’invito, perché l’ultima cosa di cui avevano bisogno era l’ennesima lezione da schermo. La proposta, sacrosanta in tempi normali, non solo rafforza l’idea sbagliata che la scuola si possa fare senza corpi, con sconosciuti e senza interazione, ma conferma la concezione sterile dell’istruzione come frammentazione di nozioni senza connessione con la vita integrale: per far fiorire le persone non basta la ragione ma ci vuole soprattutto la relazione. Istruire non è inserire dati in teste senza corpo ma innestare, nel corpo «vivo» della memoria umana, i «recenti», perché diventino «viventi». Mi sembrava che in questo faticoso frangente servisse altro ai ragazzi, perché, nelle situazioni di crisi, la resistenza viene dalla liberazione di energie interiori non ancora attivate. Serviva soprattutto l’orientamento che a scuola è quasi del tutto trascurato e risolto in notazioni più o meno estemporanee o in vetrine di università a caccia di iscrizioni. Troppi ragazzi non sanno cosa fare (università o no? quale facoltà?) e finiscono per scegliere non a partire dalla conoscenza di se stessi e del mondo, ma in base a illusioni o pressioni familiari e culturali, rassicuranti sul breve periodo, fonte di crisi sul lungo. Così, in questi mesi di didattica a distanza, oltre a portare avanti delle lezioni sull’esplorazione della propria vocazione sui canali social, ho preparato per i miei studenti e genitori dei video e dei questionari per identificare i loro segni vocazionali, cioè concentrarsi su ciò che c’è già anziché su ciò che manca, sul futuro anziché sulla cronaca. È una iniziativa personale, non in programma, svolta nelle mie ore: niente valutazioni, semplice esplorazione di attitudini e punti deboli, con l’aiuto dei genitori. Sono convinto che solo quando la scuola sarà giardino di vocazioni, capace di curare la novità di ognuno, sarà veramente democratica, rendendo tutti (non a chiacchiere) liberi (autonomi nelle scelte e nello sviluppo della vita). Nei prossimi giorni inaugurerò, con Mario Calabresi, un progetto di orientamento personalizzato (con incontri da remoto per ogni ragazzo) per «la scelta universitaria in tempo di pandemia», aperto a tutti gli studenti di quarto e quinto anno e gestito dagli enti universitari. Questo è ciò che si può fare da casa, mettendo insieme forze e professionalità, con un pc e gratis: figuriamoci con risorse (spendiamo — per cosa esattamente mi piacerebbe saperlo — per ogni studente di scuola statale circa 7 mila euro l’anno!) e un progetto di lungo periodo, svincolato da logiche di partito o di propaganda. Sono stanco di slogan, promesse e silenzi complici.
Come il pompiere che fermò il vandalo della Pietà, non possiamo più ignorare l’azione distruttiva di chi, per interesse, inerzia, ignoranza o incapacità... continua a martellare sul futuro del nostro Paese.
(segnalato da Piero Pettinà)

Un po' di tutto

Sento forte il desiderio di svelare la mia fragilità, di mostrarla a tutti coloro che mi incontrano, che mi vedono, come fosse la mia principale identificazione di uomo, di uomo in questo mondo.

Un tempo mi insegnavano a nascondere le debolezze, a non far emergere i difetti, che avrebbero impedito di far risaltare i miei pregi e di farmi stimare.

Adesso voglio parlare della mia fragilità, non mascherarla, convinto che sia una forza che aiuta a Vivere.

Fragilità” ha la stessa radice di frangere; che significa rompere.

La fragilità di un vetro pregiato di Murano o di un cristallo di Boemia: bello, elegante, ma basta poco perché si frantumi e si trasformi in frammenti inservibili.

Conoscendone la natura, si deve stare attenti a come lo si usa, a come lo si conserva: occorre tenerlo lontano da luoghi in cui si compiono azioni d'impeto, perché altrimenti quel vetro pregiato si fa nulla, solo ricordo.

«Fragile» significa anche delicato, gracile.

Come un fiore: basta un colpo di vento e un petalo si stacca e perde il suo profumo, divelto dalla sua funzione, muore.

Il contrario di fragile è resistente, tetragono, indistruttibile.

Si pensa agli oggetti in acciaio, alle rocce di una montagna. All'uomo di roccia non di vetro, all'uomo potente non fragile: c'è e tra un attimo potrebbe svanire, pezzi di un'unità defunta, come non fosse mai stato.

Si sente dire che l'educazione deve edificare un bambino forte, un uomo di coraggio che affronta le lotte e le vince.

La timidezza, invece, va curata e prima ancora nascosta: la paura va dimenticata e sostituita con la Potenza e per questo ci si allena a battere un nemico, prima Immaginario e poi di carne; e l’abilità sta proprio nel romperlo e non nel venire rotti.

Ecco la differenza tra i due opposti: la fragilità e la forza.

«Grandi» si crede siano coloro che hanno sempre vinto, mentre i «gracili» in un attimo si incrinano, si frantumano in tanti piccoli pezzi che non permettono di venire ricomposti .

lo sono fragile e, paradossalmente, sono portato a parlare di forza della fragilità: di forza, anche se lontano dalla stabilità, dalla infrangibilità.

La fragilità richiama il tempo e la caducità del tempo, del tempo che passa.

Ebbene, se sono stato, e sono, un buon psichiatra, se ho aiutato i miei matti, ciò è avvenuto per la mia fragilità … per la paura di sdoppiarmi, di togliermi la voglia di vivere e di rendermi simile a un depresso che chiede soltanto di scomparire per cancellare il dolore di cui si sente plasmato.

La mia fragilità significa che ho bisogno dell'altro, di chi mi possa aiutare con la voglia di mostrarsi amico poiché sa che io sento la voglia di esserlo per lui.

La mia fragilità mi porta ad amare, dunque l'amore è la risposta a un bisogno, nato dalla fragilità, dalla percezione che senza l'altro il mio essere nel mondo è votato solo alla morte, al non esserci; e la solitudine dell'uomo di vetro è la peggiore delle malattie, della malattie del vivere.

(Vittorino Andreoli - da "L'uomo di vetro: la forza della fragilità")




Ruderi



Gianni Spagnolo © 200522
In pochi riconosceranno questi ruderi e fra questi ancor meno avvertiranno un po' di struggimento dell’anima. La nostra era una civiltà modesta e nascosta, non aveva la Valle dei Templi, né il Colosseo, né marmi perenni, né cemento pozzolanico. Sassi, calce e legno erano tolti alla terra con fatica e ad essa ritornavano in poco tempo quando non servivano più. Senza lasciar tracce imperiture. L’arte poi, poteva manifestarsi solo nel lavoro quotidiano, perché l'autarchica economia di sussistenza le impediva di librarsi verso le alte vette dell’inutile.
Su questi ruderi non sono passati i secoli, forse uno o poco più, ma testimoniano un salto epocale. Era solo un bàito, un gran bel bàito! Costruito alle porte del Canpéto, l’unico pianoro della Val del Creàro, sulla Strada dei Salti, sulla via di Tinasso. La strada delle Jóe, l’accesso più diretto alla montagna per quelli della Piassa. Negli anni verdi era il nostro regno, come lo fu di tutti i ragazzi della Piazza nei loro. Lassù c’erano gli orti di casa, ben esposti al sole, curati con dedizione maniacale da coloro i cui anni erano già bianchi. Più in su c’erano boschetti con cornolàri, noxelari, jégani e òrni per ogni bisogno bellico e di caccia; per archi, frecce, fionde e bachetùni. C’erano gnàri, uséi, còrnole, fròle, marinéle, noxéle, ùa, fighi, posti da far bàiti e ogni attrazione per la rustica bociarìa di allora. Il bàito del Canpèto, però, era forse il più bello della Valle; era di sasso e tavole, a due piani, con al superiore una bassa stanzetta e con porte chiuse da serrature di legno dall’elaborato meccanismo a naéja. Era il bàito di Isàco, falegname che aveva bottega sotto al porteghéto della prima casa dell'Aréta. Aveva applicato la sua arte alla costruzione del bàito e la sua senile cura alla coltivazione del Canpéto: il suo orgoglio! Lo stesso che faceva mio nonno Nane sulle vanéde giusto lì sotto; e così tutti gli anziani nei loro appezzamenti.
Non era per niente pacifica la coabitazione sul territorio: veci e  boce avevano obiettivi conflittuali e la competizione era sempre aperta e spesso accesa, perché era proibito tutto: dal xoncàr na rama al scavessàr on buto, dal pestare l’erba al tor dó on figo…. La lista dei divieti era infinita! Rimaneva infinita nonostante stessero cambiando i tempi e non fosse più necessario sparagnare su tuto, rancurare tuto, dissipare gnente. I veci applicavano ancora quel rigore che aveva accompagnato tutta la loro vita, dove ogni risorsa, anche la più minuta ed insignificante doveva essere protetta e valorizzata al meglio.
Mi torna in mente, chissà perché, il passo d'un sonetto del Foscolo: "Questo di tanta speme oggi mi resta". E anche "Straniere genti, almen.." No, .. le straniere genti lasciamole stare! Quelli che passano qui accanto per salire alle ferrate non potranno mai capire. Questa è roba nostra, appartiene alla nostra anima e morirà con noi.


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sabato 23 maggio 2020

Una bella notizia: dopo 70 giorni la nostra Luisa ha fatto ritorno a casa! Difficile aggiungere una didascalia a queste foto... Spero d'interpretare il pensiero di tutti se la stringiamo virtualmente in un grande abbraccio! Te spetémo in botéga quanto prima...



Arte cimbra nei capitelli della Lessinia



Tutto il territorio dei XIII Comuni è disseminato di capitelli, croci, steli, colonnette, quali segni della fede dei coloni Cimbri. Questo piccolo, umile capitello, situato nei pressi di contrada Bruschi di Velo Veronese, non desta particolare attenzione, eppure racchiude in sé una quantità di simboli, distribuiti su ogni lato, come non ho visto in nessun altro capitello della Lessinia. Simboli che "parlano" e molto raccontano della fede e della devozione dei nostri antenati cimbri, la cui religiosità era tuttavia pregna di credenze pagane. Spesso, con la costruzione di capitelli, i committenti perseguivano l'idea di riscattare benefici pro-anima. Un po' come per le indulgenze.

Il manufatto è di pietra grezza con tettuccio di laste di Rosso ammonitico. Nella nicchia, chiusa da cancelletto di ferro, vi è una Pietà che pare scolpita nella pietra tufacea.

Il Cristo morto è magrissimo, quasi scheletrico. Sullo sfondo è dipinta una croce.

Al centro del timpano si trova l'Onnipotente con la mano destra benedicente mentre nella sinistra tiene il globo crugifero, simbolo delle supremazia di Cristo sul mondo e sui poteri terreni. A sinistra compare la scritta: ETERNO.

Alla base dell'Onnipotente figurano due spirali, le quali hanno vasta simbologia ma, nel nostro caso, significano l'immortalità, l'anima che continua il suo cammino.

Sempre sulla facciata, in basso al centro, è scolpito un cuore, (a rappresentare la Passione di Cristo) al cui centro vi è incastonato un altro piccolo cuoricino di pietra nera con sulla destra una piccolissima croce e la scritta ormai illeggibile: "DEO TMPETAT ( TEMPESTATE) LIBERA NON DOMINE", quindi un occhio anche alla protezione dei raccolti. Tutt'intorno al cuore sono incisi i nomi dei committenti: DOMENICO CROCE - T(OR)NERI ARCANG(E) LO A. 1840 F.F ( Fecero Fare)

Sul lato sinistro è scolpita una scala a rappresentare il collegamento tra terra e cielo per arrivare al Sommo. Sul lato destro vi è scolpito un gallo simbolo di vigilanza, annunziatore di vita; con il suo canto saluta il nuovo giorno. Il gallo era anche un monito a mantenersi sempre in grazia di Dio facendo leva sul detto " Se per alto destin certa è la morte, non si sa il dove, né per quale sorte" - un monito dunque, ad essere sempre pronti! Curiosamente questo gallo poggia le zampe sopra un fungo-pino, ovvero quello che gli studiosi chiamano " albero fungo" dalla ricca simbologia. Infine sul retro è scolpita una croce con sopra una colomba, ormai consunta, simbolo dello Spirito Santo. Come si vede, i committenti, non hanno lasciato fuori nessuno delle " alte sfere" e quindi lo scopo di mettere al sicuro l'anima, l'avranno certamente raggiunto ! ( A. Stringher)
cimbernauti







Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...