lunedì 31 dicembre 2018

Il Baito dei Bonati (Bertussi) - condizioni di vita rurale -

Il Baito dei Bonati (Bertussi) - Singèla/Sopra il Sojo Alto 
[Mario Pesavento Crosato - 2018]
Correva l’anno…
In quel tempo a San Pietro, similmente a molti paesi della montagna vicentina, gli abitanti vivevano di una mera sussistenza basata sui prodotti ricavati dalla coltivazione della terra locale. Data la morfologia della valle, che offriva ben poco di pianeggiante, alle pendici dei monti veniva strappato tutto il terreno possibile per ricavarne aree coltivabili piane per mezzo del terrazzamento dei pendii, con opere di vera ingegneria agricola (le vanéde). Nelle aree di fondo valle, già di per sé pianeggianti, veniva praticata la cultura sia a campo, previe opportune valutazioni sull'effettivo fabbisogno alimentare delle famiglie, che a prato, dove venivano effettuate ordinariamente due falciature stagionali: prima il fieno (fén) e poi l’arziva (ardìva).
Il territorio di San Pietro obbligava le famiglie a privilegiare il campo, mentre per il fabbisogno foraggero delle mucche si ricorreva anche alla monticazione nelle malghe di montagna per un periodo di quattro mesi: dal 1° giugno al 21 settembre, giorno di San Matteo.
Durante il periodo di assenza delle mucche dalle stalle, si doveva quindi provvedere alla raccolta della maggior quantità di foraggio possibile per garantire il mantenimento invernale degli animali. Era perciò necessario condurre a foraggio anche le aree poste molto più in alto delle zone terrazzate, ovvero negli spazi roncati e prativi di Tinasso, Val di Toniero e Valpiane, o in altre parti dei boschi privati. Ove possibile si esercitava altresì il diritto di erbatico nelle terre di uso civico, ovvero nelle zone di bandita (escluse dal pascolo delle malghe). Insomma, si può dire che non restava esclusa nessuna area dalla quale si potesse ricavare un filo d'erba per l’alimentazione del bestiame presente in quasi tutte famiglie del paese.
In taluni casi, per evitare la scarsità di foraggio che poteva seriamente compromettere il primario sostentamento familiare, quando le piante erano in pieno vigore, si ricorreva anche ad immagazzinare “i frascari”. Questi consistevano in fascine di ramaglia fogliata, che venivano essiccate e quindi riposte in una zona del fienile (la teda) per costituire un complemento al fieno durante i mesi in cui le mucche erano accudite nelle stalle.
Epico, in queste operazioni, era il comportamento delle donne. Erano loro che di primissimo mattino salivano nelle aree disboscate dei lotti privati a falciare l’erba disponibile col falcetto (la sésola). Il foraggio, ancora bagnato dall’umidità notturna, veniva raccolto in grandi teli di iuta (i fassi) e questi venivano quindi portati a valle sulla schiena, quindi l’erba posta ad essiccare in prossimità delle case prima di essere riposta nel fienile. Ancora viene ricordato, tra le altre, la caparbietà ed il coraggio delle sorelle “Lusse”, ovvero la Maria e la Orsola Spagnolo, che con gli zoccoli ai piedi scendevano dal Tinasso attraverso il sentiero dei Salti, che da tutti è riconosciuto come estremamente esposto e pericoloso. Come pure la Catina Righele, che si caricava sulla schiena “el fasso“ dell’erba ancora verde raccolta al “Cògolo del Salàdo” e scendeva la Cingella fino ai Lucca.
In altre circostanze, il foraggio raccolto veniva fatto scendere a valle mediante teleferiche artigianali (el filo). Si ricorda quello dei fratelli Mardemìn, che dalla località Scalette (Nora dei Làrese) arrivava in località Rive al “Buso de Paolo”. Si ricorreva dunque ad ogni operazione, anche se estremamente faticosa o pericolosa, al fine di avere nel fienile la massima scorta di foraggio per il bestiame, attendendo la stagione propizia per poter monticare le mucche (cargàr montagna). 
In previsione di tale trasferta, che avveniva come s’è detto a primavera inoltrata, per mettere le mucche in condizione di poter sopportare il lungo tragitto della Singéla, era consuetudine di condurle per mezzo della “cavessa” a pascolare lungo le cunette ed i cigli stradali, anche per risparmiare quel poco di fieno che restava 'ntela téda. Era tuttavia particolarmente disdicevole e perciò assolutamente da evitare, che l’animale infilasse la testa sotto i filo spinato di delimitazione della strada e brucasse nei prati adiacenti. La condotta al pascolo era solitamente riservata alle donne o ai bambini. Raccontava infatti la zia Rina che in quel di Tonezza del Cimone le vacche venivano accompagnate attraverso le strette vie o sentieri munite di museruola, per impedire spiacevoli discussioni con il vicinato.
L’erba raccolta nelle zone più remote, doveva essere invece essiccata sul posto e ciò comportava obbligatoriamente di soggiornare in loco. Ecco quindi l’origine dei tanti bàiti, disseminati per le nostre montagne e che ancora oggi vengono ricordati, sebbene ormai ridotti a ruderi dei quali si riconosce appena l’originaria struttura. Si ricordano i bàiti di: Tinasso, il Baito di Boti nelle Valpiane, il Baito dell’African nella Tana dei Mori, il Baito di Menònce e dei Carolini in Cima Cingella. I Masi di Contrà Costa al Rio Secco.
Solo uno di essi è rimasto ben solido e funge ora da piccolo rifugio, essendo stato sempre ben tenuto con la dovuta manutenzione. Esso viene spesso nominato ed usato, si tratta del Bàito Bertussi Bonato, posto sopra il Sojo Alto, sulla direttrice Val Longa-Stanghè–Frattoni. Chi scrive ha ben presente i suoi giovanili soggiorni nel bàito del nonno Bonato.
Appena terminato il taglio del fieno in paese, e in attesa del secondo taglio (l’ardiva), si partiva per far l’erba in montagna.
Come si arrivava a destinazione, arrampicandosi sulla Singéla, bisognava dare una sistemata e pulizia al bàito e alla zona adiacente. Le madri che restavano in loco si ripartivano i primi lavori. Alcune erano incaricate di preparare il giaciglio (la biòda), dove si dormiva ammucchiati per mancanza di posto. Era credenza e consuetudine (difficilmente comprensibile oggi, che si pretende di tutto sapere), prima di prendere possesso definitivo dei luoghi, di bruciare delle vecchie scarpe per allontanare le vipere. Altre predisponevano l’area riservata alla preparazione e al consumo dei pasti.
Noi ragazzi invece, manco a dirlo, partivamo subito con i giochi o alla raccolta delle delizie del bosco, quali fragole, mirtilli e lamponi.
Il mattino seguente iniziavano le operazioni di falciatura, che dapprima avvenivano nelle aree dei privati nelle vicinanze del bàito, e poi si allargavano in quelle di uso civico assegnate, in questo caso nella Val del Cimitero.
Nei terreni civici che venivano chiamati “di bandita”, cioè area vietata al pascolo, il taglio dell’erba era autorizzato solo a mano con il falcetto per impedire il taglio dei piccoli virgulti di abete. In quei tempi, soprattutto le donne erano veramente delle artiste nel servirsi della sésola, che adoperavano con grande maestria. Ogni tanto anche qualche maschio partecipava alle operazioni, ma disdegnava il falcetto e preferiva servirsi della falce, infrangendo il divieto. Quando la falce necessitava d’essere affilata, per non fare il caratteristico rumore del picchiettìo sulla piàntola, si appoggiava il falcaro coricato per terra.
A questa incombenza dovevamo assistere noi ragazzi, disposti in cerchio a dovuta distanza dall’operatore e con il preciso ordine di vigilare sull’eventuale sopraggiungere delle guardie forestali. Nel qual caso si doveva dare l’allarme percuotendo con l’accetta i grossi abeti, che allora erano numerosi ed imponenti nella Val del Cimitero e segnalando il pericolo con i botti. Ai ragazzini presenti al bàito “per prendere le arie”, era riservato, nel tardo pomeriggio, di recarsi in una delle malghe circonvicine: alle Fratte di Campolongo o al Trugole, a prendere il latte per la colazione del mattino, immancabilmente accompagnata dalla polenta. 
All’epoca non c’erano contenitori di alluminio o plastica e perciò utilizzavano un bidoncino rosso col manico di filo di ferro; era questi infatti il tipico barattolo della conserva venduta nei negozi di generi alimentari, opportunamente riciclato allo scopo.
Le operazioni di raccolta dei foraggi essiccati sul posto durava mediamente una ventina di giorni, questo permetteva ai ragazzi presenti al bàito di inventarsi tutti i giochi possibili, oltre a dedicarsi alla raccolta, che all’epoca era copiosa, dei frutti del sottobosco. Allora la raccolta dei funghi era invece pressoché ignorata anche dagli adulti, probabilmente per la mancanza di olio con cui cucinarli. In quel tempo la raccolta dei funghi era di esclusiva pertinenza delle Lusernate, ovvero delle donne di Luserna, che passavano verso mezzogiorno provenienti dai Frattoni, da Compolongo, ecc. con delle grosse ceste di porcini destinati ad essere poi venduti al mercato di Trento.
Il mattino programmato per il ritorno a casa, arrivavano i carrettieri (cavalàri) sul presto con il loro biroccio (baròsso) e il raccolto vi veniva caricato con una tecnica particolare detta “a persenaro”. Il metodo consisteva nell’accatastare sul carro il foraggio predisposto a parallelepipedo, quindi questi veniva trattenuto con una stanga che percorreva longitudinalmente il carro. Sopra il carico venivano caricate le stoviglie e quant’altro rimasto del soggiorno. Naturalmente messo al sicuro ed in posizione d’onore, troneggiava il cagliero, suppellettile principe di ogni famiglia, sia in montagna che nelle abitazioni di fondo valle. Finite le operazioni, un ultimo colpo d’occhio per accertarsi che tutto fosse a posto e quindi tutti giù per la Singéla, pieni di arie buone e sane (almeno così si diceva).
Io credo però che eravamo soprattutto pieni di Polenta!!!
Mario Pesavento Crosato














4 commenti:

  1. Bravo Mario, ben fatto. Giusto rinverdire i ricordi.

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  2. grazie Mario per queste belle notizie per noi "storiche"

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  3. grazie Mario,mi ha fatto piacere leggere questo tuo scritto.Mi ha fatto pensare ai
    racconti della Katina (to zia )ciao

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  4. grazie .letto con piacere

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