giovedì 7 giugno 2018

Pensieri per aria


Scrivo questi pensieri per aria – è proprio il caso di dirlo – e non solo perché sto sorvolando l’Asia nel volo di rientro a casa.
Ho appena finito di leggere un interessante saggio sulla situazione attuale dell’Artico causata dai cambiamenti climatici; inquadrata nei suoi molteplici aspetti e con gli inediti scenari politico/economici che prefigura.
Io non sono un fondamentalista del clima, anzi. Sarei più propenso a ritenere che l’uomo abbia un impatto ancora da comprimario sulle vicende che governano quelle cose. Il tempo, come dicevano sarcasticamente i vecchi: El xe restà da maridare par far cuel che’l vole.
Una lettura che mi ha fatto un po’ ricredere, anche se penso che troppe siano le variabili in gioco e ancora immature le nostre conoscenze per riuscire a determinare realisticamente i rapporti di causa effetto su fenomeni dai cicli millenari. Rispetto la scienza, ma non mi convince del tutto l’eccessiva sicumera deterministica degli scienziati, specie se indotta dalla politica.
Che qualcosa stia cambiando in quanto al clima, lo stiamo percependo però un po’ tutti. Anche se va detto che percezioni del genere non sono certo nuove né esclusive dei nostri giorni. Mutazioni climatiche cicliche sono state sperimentate e documentate già più volte in epoca storica, quando l'impatto delle attività umane era ancora irrilevante rispetto alla situazione attuale .
Io ho una certa esperienza della Cina, dove negli ultimi 20 anni si sono ripetuti tutti gli errori – e anche di più - che abbiamo fatto noi in più d’un secolo d’industrializzazione e inurbamento forzato, ma in scala decisamente maggiore, com’è inevitabile da quelle parti. Un paese dove l’inquinamento ambientale e l’impronta antropica hanno raggiunto livelli così insostenibili che è la stessa autocrazia, che ne è stata la fautrice, a dover correre velocemente ai ripari diventando capofila mondiale delle politiche contro l’inquinamento e il surriscaldamento globale.
Per inciso evidenzio che questa dislocazione produttiva è stata l’applicazione in grande stile e ante litteram dell’ormai corrente slogan: “Aiutiamoli a casa loro”. I levantini certo hanno preso la cosa sul serio e ci hanno messo la loro proverbiale intraprendenza e il senso pratico, nonché la forza dei loro numeri iperbolici, arrivando a competere a livello globale come constatiamo ogni giorno. Non so se funzionerebbe lo stesso ora con l’Africa; ho qualche dubbio.
Ad ogni modo trasferire produzioni intensive e inquinanti laggiù, in balia di economie tribali precarie e corrotte e con regolamentazioni ambientali inesistenti, è come allineare i pitali sotto il letto. Perché è ovvio che non gli daremo da fare la Fabbrica 4.0; quella bella e pulitina ce la terremo noi, penso che non ci siano dubbi in merito.
Tornando al clima: l’inverno scorso, per la prima volta in vita mia ho assistito ad una nevicata da inquinamento. Ma mica una spruzzatina: ci si poteva fare il pupazzo, anche due. Non si riusciva neanche più a trovare le auto parcheggiate per il quasi annullamento della visibilità che ne derivò.
Eh, sì, bianca! Perché la neve resta bianca anche se non viene giù dalle nuvole, come ingenuamente ero abituato a pensare, ma quando (in particolari condizioni ambientali) l’umidità dell’aria si cristallizza attorno al particolato inquinante, pur con un cielo - che non si vede, ma c’è - del tutto sgombro da perturbazioni.
Dovevo uscire tutto intabarrato e con una maschera facciale nera a doppio filtro che sembravo un guerriero ninja. In questo caso la mia barba a giro non aiutava a tenere sigillata la maschera. Me lo insegnarono a militare, quando volevano obbligami a tagliarla all’alpina, cioè staccata dalle basette. Ma non lo feci allora e non mi va neanche di farlo ora.
Sono dunque ben consapevole di come l’ambiente possa essere pregiudicato in breve tempo dall’intervento dell’uomo e di quanto poco ci voglia a distruggere quello che ci ha messo secoli o millenni a formarsi e che noi abbiamo solo in usufrutto, perché è di proprietà dei nostri figli. Almeno così vuole la consolante e un po' banalotta frase fatta.
Poi guardo giù dal finestrino e vedo stagliarsi monotono e immenso il deserto di Gobi. Un tavolato ocra, appena increspato da radi rilievi e punteggiato da frastagliate e grosse macchie nere. No, purtroppo non sono laghi, né foreste, come sembrerebbe a prima vista. Sono l’ombra delle nuvole che ci scorrono sopra, che il sole proietta su quell’enorme e insulso schermo.
Immagino che sia così che potrebbe apparire la Terra, quando l’avremo violentata per benino e quando scopriremo che, come ammonisce un vecchio detto dei Sioux: una volta pescato l'ultimo pesce, inquinato l’ultimo fiume e abbattuto l’ultimo albero, non potremo mangiare il denaro.
Però è anche vero che quel deserto è lì da chissà quanto e che prima era magari lussureggiante e brulicante di vita. Così come ci dicono fosse il Sahara 12 mila anni fa. A quel tempo anche l’Europa era prevalentemente coperta dai ghiacci, spessi anche chilometri. Poi l’Europa si sgelò e il Nord Africa si inviluppò nella progressiva desertificazione. Un disastro ambientale di proporzioni immani, a giudicarlo con i parametri moderni. Ma con il disgelo dell’Europa iniziò anche la nostra storia e tutta la nostra civiltà seguì a quegli eventi.
Allora l’impatto ambientale dei nostri progenitori dovette essere assai trascurabile e m'è un po’ difficile pensare che quegli sconvolgimenti siano stati provocati dalle flatulenze metaniche dei mammut o degli erbivori che popolavano le savane e alimentavano l’effetto serra.
Eruzioni vulcaniche, impatti meteoritici, insondabili cicli cosmici, forse, chissà! In ogni caso furono eventi in cui l’uomo non ebbe arte né parte e dei quali neppure oggi conosce ragioni e dinamiche. Fra l’altro dell’eruzione del Tambora del 1815 e dei suoi effetti ho trattato in un mio vecchio post su questo Blog, dove esposi analoghe perplessità.
Certo l’intelligenza consente all’uomo di comprendere gli effetti dei propri comportamenti malsani e cercare di porvi rimedio elaborando normative e tecnologie sempre più adeguate ed efficaci, ma credo non basti. Oggi l’umanità si trova in condizioni di disuguaglianza e conflitto d’interessi tale che non penso sia possibile adottare o imporre cure senza prima ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo. Altrimenti saranno solo palliativi salva-coscienza.
Forse il quesito vero, la domanda che dobbiamo farci, è circa il fine della nostra presenza su questo pianeta, o meno filosoficamente, chiederci di cosa abbiamo realmente bisogno per starci tutti in una ragionevole e armonica coabitazione.
L’immortalità è un concetto che ha affascinato tutte le civiltà, specialmente le classi al potere, che avevano qualcosa da difendere e volevano continuarne a goderne. Mi chiedo però come ci comporteremmo se fossimo immortali; ovvero se gli effetti delle nostre azioni li dovessimo subire noi, anziché le generazioni future. Se potessimo così accumulare esperienze su esperienze e diventare sempre più saggi; sulla nostra pelle, intendo, che è la maestra migliore.
Forse diventeremmo come i vecchi: più assennati, più prudenti, più calmi, più attenti alla nostra anima e ai nostri compagni di viaggio. Ma anche più spenti, meno aggressivi, più tolleranti. Cammineremmo lentamente, invece di correre, avremmo i riflessi meno brillanti, perderemmo lo spirito di competizione; ameremmo di più, ma senza passione. Non butteremmo via niente di quello che abbiamo perché sapremmo quanto è costato. Non parlo del prezzo d'acquisto ovviamente, ma dello sforzo in termini di civiltà e di tecnologia che ci sta dietro.
Ecco, forse però non serve diventare immortali: basterebbe leggere il libretto di istruzioni che il mondo attorno ci invia, che la natura ci mostra, che ci ha lasciato chi ci ha preceduto o chi ci ha creato, per chi ha questa visione. Peccato che è un libretto strano, visto che è scritto per chi ha occhi per vedere e orecchie per intendere.
Gianni Spagnolo
4/6/2018

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