martedì 12 giugno 2018

Parole in carriola


La mia maestra diceva che l’uomo non si arrabbia: si adira. È il cane che si arrabbia. Sarà! A me però l'adirarsi pare riduttivo: quando monta la stizza io preferisco arrabbiarmi. In quei frangenti uso preferibilmente il veneto, che mi lascia nar dò de brentònNon riesco ad adirarmi bene in italiano, né nelle altre lingue conosciute. Forse perché la collera inibisce le remore e disattiva le mediazioni culturali rimandando all’imprinting originale.
Succedeva a volte anche a qualcuno dei miei familiari ed era proprio allora che saltavano fuori gli stranbòti più arcaici, parole e modi di dire che non si usavano più da chissà quanto tempo o che non avevo mai sentito prima.

Era l’estate del 1978; eravamo  rientrati da poco dalla Svizzera e abitavamo a Piovene. Stavo aiutando mio padre a fare dei lavori nella corte della nostra casa a San Pietro. Faceva caldo quel giorno e io portavo carriole di sabbia attraverso lo strasejo e preparavo la malta, ma senza eccessivo slancio. Mio padre aveva fretta di finire, ma le cose procedevano a rilento e perciò era piuttosto stizzito. Inoltre mi aveva già richiamato ripetutamente all’ordine incitandomi a darmi una mossa. Di fronte al mio ennesimo indugiare con la carriola, ad un certo punto sbottò con una ammonizione che suonava pressappoco così:
Scipanac de sufrato orcan ghénghele >.

Mio padre non s’arrabbiava facilmente, ma quando capitava era meglio non replicare. Colsi dunque al volo il senso di quell’imperio e corsi con la carriola attraverso el strasejo, vergognoso del rimbrotto ricevuto. 
In realtà non avevo capito affatto il significato di quella frase.
Come in molte famiglie di emigranti, in casa nostra usavamo un gergo particolare, che aveva assorbito diverse parole e modi di dire stranieri, per cui sulle prime non ci feci gran caso. Poi però, rimuginandoci sopra nel mio orgoglio ferito, capii che qualcosa non quadrava. Così, più tardi, anche per rompere il ghiaccio con mio padre, gli chiesi cosa volesse dire con quella frase.
A te go jito de paràr fora svelto la cariola dal strasejo. > Replicò. 
Ma no te me ghe mia sbecà drio cussita papà, te ghe ciauscà su de ghénghele. Dissi io. 
Cossa vetu a catar fora desso! > Rispose lui con l’intento di chiudere la questione all’istante.
Ma si, papà, a go scoltà ben. Te ghe parlà de sufrati e de ghénghele, cosa vulivitu dire? >
Allora mio padre stette un po' attonito guardando a terra e poi rispose:
Ghénghele xe compagno che strasejo, … e po’, … a lo garò scoltà da me poro nono.
La cosa allora finì lì.
Questo episodio, peraltro irrilevante, mi rimase particolarmente impresso perché proprio in quel mentre un festoso concerto di campane inondò la valle. Avevamo un nuovo Papa. Il nostro Patriarca, Albino Luciani, era stato eletto al Soglio di Pietro. Era la prima volta che in età di ragione assistevo all'elezione di un Papa.
Quello è uno dei pochi stranbòti che mi ricordo di tante desuete espressioni che ho sentito in gioventù in famiglia e di cui ho perso la memoria. 
Solo recentemente ebbi modo di ritornarci sopra con la determinazione di venirne a capo. 
Siip naach de sùpfrat orch can ghénghele” in cimbro dovrebbe significare all'incirca: “Spingi la carriola in fondo al passaggio”.

Da sempre avevo sentito chiamare strasejo quel corridoio stretto, buio e sconnesso dalle stelaresse, posto sul retro delle case dei Lorenzi dei l’Ara e che dava accesso alla piccola corte di casa nostra. Ghénghele io non l’avevo proprio mai udito. Era riconoscibile la matrice tedesca del sostantivo Gang (nel senso di corridoio, passaggio) declinato con il diminutivo cimbro in “le”. Stretto passaggio fra le case dunque; peraltro sinonimo di strasejo, che dovrebbe avere anch’esso un rimando germanico. Quanto a sufrato (sùpfrat) come carriola, non stava né in cielo né in terra: mai sentita! 
A lo garò scoltà da me poro nono…”.
Come la mettiamo? 
Una spiegazione che potrebbe essere - anche se davvero incredibile - è che mio padre sbottò con un ricordo latente, un richiamo che suo nonno gli avrà rivolto ripetutamente quasi mezzo secolo prima, quando lui s’era trovato più o meno nella mia stessa situazione e gli era rimasto inconsciamente impresso, come lo fu per me, complice lo stato di mortificazione che implicava. 
Il transito per quel vicolo: con la legna, gli attrezzi, il fieno, ecc., era sempre stato vissuto con disagio dai giovani di casa, anche per le critiche relazioni di vicinato. Il fatto stesso che avesse usato il verbo scoltà invece di sentìo, significava un ordine perentorio ricevuto da quel nonno ultraottantenne che si sapeva che in ultima parlava e si comportava in modo un po' strano. Allora si doveva scoltare e basta.
Mio bisnonno era nato nel 1851 e rimase presto orfano, allevato dai nonni. Trascorse poi la gioventù affidato ad una famiglia delle Seghe di Velo e tornò in paese ch'era già cresciuto. Si sa che in tarda età si ricordano nitidamente le cose più lontane nel tempo a scapito di quelle vicine; perciò quel mio avo magari usò con mio padre un fraseggio che apparteneva alla sua educazione di bambino, riferibile addirittura ai suoi nonni.
Ecco che allora mi trovavo alle prese con una specie di fossile linguistico. Un effimero e alterato anacronismo di una lingua antica e morta che aveva attraversato quasi due secoli, veicolato e mediato inconsciamente da persone in carne ed ossa, del mio sangue.
Che strano, però!
Gianni Spagnolo
7/6/2018

2 commenti:

  1. schupf-rat esiste nel cimbro dei 7 comuni; esempi

    an schupf-rat hat an ròdala anlòan : una carriola ha una sola rotella,

    's schupf-rat ist ganützet och tzo vüüran de-hiin in mist von stèllarn : la carriola si usa anche per trasportare via il letame dalle stalle.

    schupf-rat contiene il verbo schupfan: spingere e rat: ruota.

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  2. Andaloche ciò, .. gnanca un elefante del Borneo.

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