domenica 18 febbraio 2018

Nuovi pensieri & vecchie battaglie


Non so quando si comincia a diventare vecchi, è una domanda che francamente non m’ero ancor posto. Immagino che prima o poi arrivino tutti a chiederselo, pur con le sfumature personali che questo dubbio comporta. Forse capita quando gli anni che ci stanno potenzialmente davanti, diventano meno di quelli che si hanno alle spalle. Ma la statistica, si sa, deve fare i conti con il pollo di Trilussa, il che rende quel confine assai labile. Magari basta solo che i fatti di cui siamo stati testimoni attivi o passivi passino sui libri di storia.
Giorni fa mi trovavo a Ho Chi Minh City, la vecchia Saigon coploniale, immerso nel tepore tropicale dopo quasi un mese di gelido inverno cinese. Una città accogliente, Saigon, caotica come lo sono le metropoli asiatiche, ma anche evocativa di un passato che appartiene alla memoria collettiva dell’Occidente.
Io non pianifico mai le occasioni turistiche o culturali dei miei viaggi di lavoro, tanto so, per consolidata esperienza, che comunque vedrò quello che c’è da vedere e capiterò dove m'interessa. Si tratta di una strana alchimia che non so spiegare, dove la mia curiosità e le locali circostanze complottano attivamente a mia insaputa.
Dopo un'interminabile cena dalle parti del Ben Thanh, vado a sgranchirmi le gambe sulla piazza principale, dove s’innalza, a braccio alzato, la statua bronzea del liberatore di cui ora Saigon porta il nome. Quell’Ho Chi Minh il cui epiteto affibbiato (il suo vero nome era Nguyễn Sinh Cung), significa “Portatore di Luce”.
Poco più in là, di fronte alla cattedrale cattolica neoromanica costruita dai francesi nel 1880, s’erge granitica la statua della Madonna con in mano il  globo crucigero, che reca inciso sul basamento a caratteri cubitali l’esortazione latina ”Regina Pacis ora pro nobis”.  Constato che due portatori di luce, una sacra e una profana, condividono la maestà in un paese che rifiuta ufficialmente la prima, ma senza i pruriti iconoclastici della nostra debosciata Europa. 
L'indomani ho un incontro di lavoro nei pressi dell’ex Palazzo Presidenziale, dove tutta l'area è in pieno fermento per l’anniversario di fondazione del Partito Comunista del Vietnam (1930).
Non mi attira visitare quell’imponente e inespressivo edifico in stile anni sessanta, ma mi offrono i biglietti e allora mi adeguo svogliato con i miei colleghi locali. Ragiono che loro, dal punto di vista cronologico, mi potrebbero essere figli, tuttavia nessuno dei loro padri partecipò alla guerra perché troppo giovani. Infatti si stupiscono quando dico loro che io mi ricordo di avere assistito in televisione agli episodi finali della presa di Saigon.
Ops, … mi rendo improvvisamente conto di  essere stato testimone, seppur catodico, della Storia. La sensazione si aggrava visitando il palazzo, eretto ora a museo. Dal bunker sotterraneo del centro comando, con le vecchie stazioni di trasmissione americane della General Electric (non molto diverse dalle apparecchiature su cui mi sono esercitato anch’io), ai saloni dei cerimoniali, fin sul tetto dove troneggia un elicottero Bell UH-1 Iroquois d’epoca.
Ecco, velivoli come quello li ho visti alzarsi in volo portandosi dietro la bruciante sconfitta americana in Indocina. Come pure m’è rimasto nella memoria il flash di quei due carri armati T-54 che allora sfondarono l’enorme cancello del palazzo presidenziale sventolando la bandiera rossa stellata ed ora sono ancora lì in giardino a presidiarlo.
Ero un adolescente e abitavo a Zurigo, quel 30 aprile del 1975, quando ho visto in televisione quell’evento che sanciva la fine di una sanguinosa e difficile stagione degli equilibri mondiali della Guerra Fredda. Seguivo avidamente il telegiornale della sera che dava il resoconto di quelle battaglie finali parteggiando inconsciamente per i Vietcong, così come sempre feci per gli indiani. Quei combattenti tenaci avevano dato filo da torcere prima ai francesi, adesso agli americani e l’avrebbero poi dato anche ai cinesi, che con loro non usarono il loro proverbiale soft-power.  
Un susseguirsi di ricordi d’epoca mi riaffiorano alla mente, facendomi sentire nell’insolita e del tutto nuova veste di Testimone della Storia
Mi sovviene mio Padre, che mi raccontava di aver assistito dalla radio gracchiante dell’Appalto, amplificata per l’occasione dagli altoparlanti in piazza ai paesani ivi radunati, alla dichiarazione di guerra del Duce.
Mi diceva che mia nonna, allora, pur nell’avversione che le donne hanno istintivamente per i conflitti, tirò tutto sommato un sospiro di sollievo: una guerra così veloce ed efficace come quella promessa dal Duce, avrebbe almeno risparmiato suo figlio, allora appena quindicenne. Bastavano quelli dal ‘17 al '20 a invadere la Francia, spezzare le reni alla Grecia e chissà cos'altro ancora aveva in mente il Fondatore dell'Impero. Non c’era pericolo! 
Non fu così!  Quel ragazzo fece in tempo ad essere arruolato a forza e fu l’ultimo della sua classe a ritornare in paese. Lì  trovò che il conflitto non era ancora finito, anzi, diventava più atroce e dilaniava i paesi. E dovette andare in montagna; e anche quella non fu una scelta.
Devo dire che m’intriga un po’ questa mia nuova sensazione. Se da un lato mi fa sentire inesorabilmente datato, mi consente tuttavia di rivedere sotto una nuova luce fatti e situazioni che a suo tempo mi sono scivolati addosso nell’inconsapevolezza della gioventù.
La settimana successiva mi sono trovato, fatalità, a passare anche per Dien Bien Phu, una località remota nel nord-ovest del Vietnam, posta sul fondo di una lunga e piatta valle. Anche lì è passata la Storia, una decina d’anni prima della caduta di Saigon, sancendo la fine del dominio coloniale francese in Indocina. La grandeur della Francia umiliata, con i trattati di pace di Ginevra già iniziati, e appesa all’eroico quanto inutile sacrificio dei reparti dell'Operazione Castore, annientati dal Vietminh del generale Giap, come efficacemente narrato dall'omonimo film di Pierre Schoendoerffer del 1992.
Ma prima m'ero fermato qualche giorno nella zona centrale del paese, dalle parti del 17° parallelo, l'effimero confine che divideva i due Vietnam del Sud e del Nord, ad ispezionare il sito di un nostro nuovo impianto. Non è certo una bella foresta quella che mi trovavo a percorre su queste montagne ai confini con il Laos. Qui l’aviazione dello Zio Sam ha sganciato più bombe che sulla Germania nell’ultima guerra mondiale e gli effetti del Napalm non sono probabilmente ancora finiti. Non rigogliosa vegetazione tropicale dunque, ma piante sofferte, della medesima età e un brutto e intricato sottobosco in cui bisogna stare anche attenti a non incappare in qualche mina, che qui fanno ancora molte vittime. Scavando le fondazioni sono affiorate infatti tre bombe inesplose da 2500 Kg. I locali non ci fanno gran caso, ci sono abituati. Anche qui il parallelo con la situazione della nostra terra dopo la Grande Guerra mi viene spontaneo.
Per sfuggire ai bombardamenti incessanti gli abitanti dei villaggi vicini costruirono un labirinto di cunicoli sotterranei, in parte ancora visitabili, dove vissero come topi durante quell’interminabile esperienza. Sono forti questi vietnamiti; sembrano steli di bambù, nell’apparente gracilità della loro struttura corporea, ma non si perdono mai d’animo.
Vabbè, dopo questi pensieri sconclusionati, penso che mi fermerò un po' nel mio ufficio di Hanoi a riordinarmi le idee, oltre che gli appunti di lavoro. Ne approffitterrò per godermi, memore delle ristrettezze cinesi, alcune cose positive che i francesi hanno pur lasciato al paese, come la baguette, le patate fritte, il gusto per il caffè e quell’impronta barocco-coloniale dell’architettura delle case che rende così originale la struttura di città e villaggi di queste parti.
Gianni Spagnolo
10-2-2018

7 commenti:

  1. Chi viaggia, anche se per lavoro, non invecchia mai. Come chi legge.

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    1. Mah, speriamo, ma ci crederò quando mi vedrai girare col ciuccio.

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  2. Stupefacente lezione di storia.Complimenti.Riguardo al Vietnam,tra il 1965/1970 ero in collegio a Vicenza,frequentavo il Rossi,vicino c'era il Jhonny's Bar solo per gli Americani e si diceva che quelli che combinavano qualcosa venivano appunto spediti in Vietnam e buonanotte.Mi stupisce che non hai nella mente quella terribile fotografia della bimba Vietnamita,ignuda ,che scappa da un bombardamento.Certo che per gli USA la guerra in Vietnam porta ancora parecchi scompensi,pensa a tutti i feriti e sopratutto a quelli che vanno tuttoggi fuori di testa come conseguenza di quello che hanno visto o patito in Vietnam.Poi ci sono vari films riguardo a questa guerra.Non scordando gli strascichi che ancora abbiamo in valle con i vari episodi di fine Aprile 1945....Never mind,buona permanenza e all the best for you.Ma il Tedesco ti serve li?O hai dovuto imparare Inglese o Francese?Ciaooooo

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    1. No Guido, non ho dimenticato la foto che citi e che è l'icona stessa di quella tragedia. Il fatto è che a Trảng Bàng, la località in cui venne fatta quella ripresa e che dista da Saigon un'oretta e mezza d'auto, non ci sono stato. Come non sono riuscito a visitare altre cose interessanti del paese che però non dispero di fare in futuro. Il tedesco qui non serve proprio, anzi, nemmeno più il francese ha lasciato tracce e anche l'inglese è poco conosciuto, se non nei posti turistici.

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  3. Grazie per queste testimonianze acute e intelligenti..spero sempre che in futuro quando avrai piu tempo libero ne dedichi un po' anche a noi..

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  4. Grazie Gianni. I tuoi spostamenti in angoli remoti della terra per lavoro, sono
    anche conoscenza di vita,usi e costumi di altri popoli; nonchè tragedie
    umanitarie, spesso ad opera delle superpotenze,che si contendono il diritto
    alla spartizione delmondo

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  5. Il tedesco è utile per farsi capire e obbedire dagli animali, ad esempio i cani. Con gli umani funziona poco, ecco perché i teutonici hanno sempre dovuto usare la violenza per farsi intendere. Fu giustoponto uno di loro, tal Carlo V° d'Asburgo Imperatore che disse: “Parlo spagnolo a Dio, italiano alle donne, francese agli uomini, e tedesco al mio cavallo.”

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