Il Baito dei Bonati (Bertussi) - Singèla/Sopra il Sojo Alto |
[Mario Pesavento Crosato - 2018]
Correva
l’anno…
In
quel tempo a San Pietro, similmente a molti paesi della montagna
vicentina, gli abitanti vivevano di una mera sussistenza basata sui
prodotti ricavati dalla coltivazione della terra locale. Data la
morfologia della valle, che offriva ben poco di pianeggiante, alle
pendici dei monti veniva strappato tutto il terreno possibile per
ricavarne aree coltivabili piane per mezzo del terrazzamento dei
pendii, con opere di vera ingegneria agricola (le
vanéde).
Nelle aree di fondo valle, già di per sé pianeggianti, veniva
praticata la cultura sia a campo, previe opportune valutazioni sull'effettivo fabbisogno alimentare delle famiglie, che a prato, dove
venivano effettuate ordinariamente due falciature stagionali: prima
il fieno (fén)
e poi l’arziva (ardìva).
Il
territorio di San Pietro obbligava le famiglie a privilegiare il
campo, mentre per il fabbisogno foraggero delle mucche si ricorreva
anche alla monticazione nelle malghe di montagna per un periodo di
quattro mesi: dal 1° giugno al 21 settembre, giorno di San Matteo.
Durante
il periodo di assenza delle mucche dalle stalle, si doveva quindi
provvedere alla raccolta della maggior quantità di foraggio
possibile per garantire il mantenimento invernale degli animali. Era
perciò necessario condurre a foraggio anche le aree poste molto più
in alto delle zone terrazzate, ovvero negli spazi roncati e prativi di Tinasso,
Val di Toniero e Valpiane, o in altre parti dei boschi privati. Ove possibile si esercitava
altresì il diritto di erbatico nelle terre di uso civico, ovvero
nelle zone di bandita (escluse dal pascolo delle malghe). Insomma,
si può dire che non restava esclusa nessuna area dalla quale si
potesse ricavare un filo d'erba per l’alimentazione del bestiame presente in quasi tutte famiglie del paese.
In
taluni casi, per evitare la scarsità di foraggio che poteva
seriamente compromettere il primario sostentamento familiare, quando
le piante erano in pieno vigore, si ricorreva anche ad immagazzinare
“i frascari”. Questi
consistevano in fascine di ramaglia fogliata, che venivano essiccate
e quindi riposte in una zona del fienile
(la teda)
per costituire un complemento al fieno durante i mesi in cui le
mucche erano accudite nelle stalle.
Epico,
in queste operazioni, era il comportamento delle donne. Erano loro
che di primissimo mattino salivano nelle aree disboscate dei lotti
privati a falciare l’erba disponibile col falcetto (la
sésola).
Il foraggio, ancora bagnato dall’umidità notturna, veniva raccolto
in grandi teli di iuta (i
fassi) e
questi venivano quindi portati a valle sulla schiena, quindi l’erba
posta ad essiccare in prossimità delle case prima di essere riposta
nel fienile. Ancora viene ricordato, tra le altre, la caparbietà ed
il coraggio delle sorelle “Lusse”,
ovvero la Maria e la Orsola Spagnolo, che con gli zoccoli ai piedi
scendevano dal Tinasso
attraverso il sentiero
dei Salti, che da tutti è riconosciuto come estremamente esposto e
pericoloso. Come pure la Catina Righele, che si caricava sulla
schiena “el
fasso“ dell’erba ancora verde raccolta al “Cògolo
del Salàdo”
e scendeva la Cingella fino ai Lucca.
In
altre circostanze, il foraggio raccolto veniva fatto scendere a
valle mediante teleferiche artigianali (el filo).
Si ricorda quello dei fratelli Mardemìn,
che dalla località Scalette (Nora
dei Làrese)
arrivava in località Rive al “Buso
de Paolo”.
Si ricorreva dunque ad ogni operazione, anche se estremamente
faticosa o pericolosa, al fine di avere nel fienile la massima
scorta di foraggio per il bestiame, attendendo la stagione propizia
per poter monticare le mucche (cargàr
montagna).
In previsione di tale trasferta, che avveniva come s’è detto a primavera inoltrata, per mettere le mucche in condizione di poter sopportare il lungo tragitto della Singéla, era consuetudine di condurle per mezzo della “cavessa” a pascolare lungo le cunette ed i cigli stradali, anche per risparmiare quel poco di fieno che restava 'ntela téda. Era tuttavia particolarmente disdicevole e perciò assolutamente da evitare, che l’animale infilasse la testa sotto i filo spinato di delimitazione della strada e brucasse nei prati adiacenti. La condotta al pascolo era solitamente riservata alle donne o ai bambini. Raccontava infatti la zia Rina che in quel di Tonezza del Cimone le vacche venivano accompagnate attraverso le strette vie o sentieri munite di museruola, per impedire spiacevoli discussioni con il vicinato.
In previsione di tale trasferta, che avveniva come s’è detto a primavera inoltrata, per mettere le mucche in condizione di poter sopportare il lungo tragitto della Singéla, era consuetudine di condurle per mezzo della “cavessa” a pascolare lungo le cunette ed i cigli stradali, anche per risparmiare quel poco di fieno che restava 'ntela téda. Era tuttavia particolarmente disdicevole e perciò assolutamente da evitare, che l’animale infilasse la testa sotto i filo spinato di delimitazione della strada e brucasse nei prati adiacenti. La condotta al pascolo era solitamente riservata alle donne o ai bambini. Raccontava infatti la zia Rina che in quel di Tonezza del Cimone le vacche venivano accompagnate attraverso le strette vie o sentieri munite di museruola, per impedire spiacevoli discussioni con il vicinato.
L’erba
raccolta nelle zone più remote, doveva essere invece essiccata sul
posto e ciò comportava obbligatoriamente di soggiornare in loco.
Ecco quindi l’origine dei tanti bàiti,
disseminati per le nostre montagne e che ancora oggi vengono
ricordati, sebbene ormai ridotti a ruderi dei quali si riconosce
appena l’originaria struttura. Si ricordano i bàiti di: Tinasso, il
Baito di Boti nelle Valpiane, il Baito dell’African nella Tana dei
Mori, il Baito di Menònce e dei Carolini in Cima Cingella. I Masi di
Contrà Costa al Rio Secco.
Solo
uno di essi è rimasto ben solido e funge ora da piccolo rifugio,
essendo stato sempre ben tenuto con la dovuta manutenzione. Esso
viene spesso nominato ed usato, si tratta del Bàito Bertussi Bonato,
posto sopra il Sojo Alto, sulla direttrice Val Longa-Stanghè–Frattoni. Chi scrive ha ben presente i suoi giovanili soggiorni nel
bàito del nonno Bonato.
Appena
terminato il taglio del fieno in paese, e in attesa del secondo
taglio (l’ardiva),
si partiva per far
l’erba
in montagna.
Come
si arrivava a destinazione, arrampicandosi sulla Singéla, bisognava
dare una sistemata e pulizia al bàito e alla zona adiacente. Le madri
che restavano in loco si ripartivano i primi lavori. Alcune erano
incaricate di preparare il giaciglio (la
biòda),
dove si dormiva ammucchiati per mancanza di posto. Era credenza e
consuetudine (difficilmente comprensibile oggi, che si pretende di
tutto sapere), prima di prendere possesso definitivo dei luoghi, di
bruciare delle vecchie scarpe per allontanare le vipere. Altre
predisponevano l’area riservata alla preparazione e al consumo dei
pasti.
Noi
ragazzi invece, manco a dirlo, partivamo subito con i giochi o alla
raccolta delle delizie del bosco, quali fragole, mirtilli e lamponi.
Il
mattino seguente iniziavano le operazioni di falciatura, che dapprima
avvenivano nelle aree dei privati nelle vicinanze del bàito,
e poi si allargavano in quelle di uso civico assegnate, in questo
caso nella Val
del Cimitero.
Nei
terreni civici che venivano chiamati “di bandita”, cioè area
vietata al pascolo, il taglio dell’erba era autorizzato solo a
mano con il falcetto per impedire il taglio dei piccoli virgulti di
abete. In quei tempi, soprattutto le donne erano veramente delle
artiste nel servirsi della sésola,
che adoperavano con grande maestria. Ogni tanto anche qualche maschio
partecipava alle operazioni, ma disdegnava il falcetto e preferiva
servirsi della falce, infrangendo il divieto. Quando la falce
necessitava d’essere affilata, per non fare il caratteristico
rumore del picchiettìo sulla piàntola, si appoggiava il falcaro
coricato per terra.
A
questa incombenza dovevamo assistere noi ragazzi, disposti in cerchio
a dovuta distanza dall’operatore e con il preciso ordine di
vigilare sull’eventuale sopraggiungere delle guardie
forestali. Nel qual caso si doveva dare l’allarme percuotendo con
l’accetta i grossi abeti, che allora erano numerosi ed imponenti
nella Val del Cimitero e segnalando il pericolo con i botti. Ai
ragazzini presenti al bàito “per
prendere le arie”,
era riservato, nel tardo pomeriggio, di recarsi in una delle malghe
circonvicine: alle Fratte di Campolongo o al Trugole, a prendere il
latte per la colazione del mattino, immancabilmente accompagnata
dalla polenta.
All’epoca non c’erano contenitori di alluminio o plastica e perciò utilizzavano un bidoncino rosso col manico di filo di ferro; era questi infatti il tipico barattolo della conserva venduta nei negozi di generi alimentari, opportunamente riciclato allo scopo.
All’epoca non c’erano contenitori di alluminio o plastica e perciò utilizzavano un bidoncino rosso col manico di filo di ferro; era questi infatti il tipico barattolo della conserva venduta nei negozi di generi alimentari, opportunamente riciclato allo scopo.
Le
operazioni di raccolta dei foraggi essiccati sul posto durava
mediamente una ventina di giorni, questo permetteva ai ragazzi
presenti al bàito di inventarsi tutti i giochi possibili, oltre a
dedicarsi alla raccolta, che all’epoca era copiosa, dei frutti del
sottobosco. Allora la raccolta dei funghi era invece pressoché
ignorata anche dagli adulti, probabilmente per la mancanza di olio
con cui cucinarli. In quel tempo la raccolta dei funghi era di
esclusiva pertinenza delle
Lusernate, ovvero
delle donne di Luserna,
che
passavano verso mezzogiorno provenienti dai Frattoni, da Compolongo,
ecc. con delle grosse ceste di porcini destinati ad essere poi
venduti al mercato di Trento.
Il
mattino programmato per il ritorno a casa, arrivavano i carrettieri (cavalàri) sul
presto con il loro biroccio (baròsso)
e
il raccolto vi veniva caricato con una tecnica particolare detta “a persenaro”. Il
metodo
consisteva
nell’accatastare sul carro il foraggio predisposto a
parallelepipedo, quindi questi veniva trattenuto con una stanga che
percorreva longitudinalmente il carro. Sopra il carico venivano
caricate le stoviglie e quant’altro rimasto del soggiorno.
Naturalmente messo al sicuro ed in posizione d’onore, troneggiava
il cagliero, suppellettile
principe di ogni famiglia, sia in montagna che nelle abitazioni di
fondo valle. Finite le operazioni, un ultimo colpo d’occhio per
accertarsi che tutto fosse a posto e quindi tutti giù per la
Singéla, pieni di arie buone e sane (almeno così si diceva).
Io
credo però che eravamo soprattutto pieni di Polenta!!!
Mario
Pesavento Crosato