venerdì 30 dicembre 2016

I Viaggi di Marco Pollo (Brutti incontri)


Sto sorvolando la parte settentrionale della Cordigliera delle Ande in direzione di Bogotà, su un volo di linea proveniente dal Perù. L’impatto è meno impressionante di quello vissuto la settimana prima verso Lima, quando mi sono visto apparire di fronte, nel sole della sera, l’alta e candida muraglia delle Ande Centrali. 
Bogotà, la capitale della Colombia, l’antica Santa Fé de Bogotà fondata dagli Spagnoli nel XVI° secolo appare ora lì sotto. Adesso è una metropoli di oltre 7 milioni d’abitanti collocata su un altipiano lungo e stretto a 2640 m sul livello del mare e contornata da una corona di montagne sui 3000 m di quota. La città si è dunque sviluppata in direzione sud-nord lungo l’asse di questo altopiano. Viaggio con un amico cinese col quale condivido, oltre agli affari, anche un certo spirito d’avventura e voglia di conoscere posti nuovi; cosa che ogni tanto aiuta a perder l’oca quando si gira il mondo per lavoro.
Il nostro albergo è situato nella zona nord della città, quella più moderna e sviluppata. Infatti sono sorpreso di vedere una qualità di infrastrutture, servizi, parchi e architetture che non mi aspettavo di trovare a queste latitudini. So bene che non è tutta così, Bogotà, ma tuttavia non mi dispiace; soprattutto il frescolino pungente di quest’aria sottile che mi pare d’essere sulle nostre montagne.
Ci dobbiamo incontrare con un referente locale per degli appuntamenti di lavoro, ma domani è domenica e qui non si batte, anche giustamente, chiodo. Ne approfitteremo dunque per una visita alla città. Noi non ci rivolgiamo verso le mete turistiche, i tour, i musei e i monumenti; questi li frequentiamo giusto quando ci capitano davanti per caso (tanto succede sempre, anche senza volerlo). Preferiamo il vagabondaggio casuale per vedere l’anima autentica del paese in cui siamo. Raggiungiamo il centro con un taxi preso al volo e girovaghiamo per la città vecchia. Il centro è dominato dall’imponente mole della Cattedrale di Santa Fé con edifici e decori dell’epoca coloniale spagnola. Nella grande piazza prospicente c’è un comizio; domenica prossima si terrà il referendum per la ratifica dell’accordo firmato lunedì scorso.   Per il paese è un appuntamento storico, che dovrebbe metter fine ad una guerriglia durata ben 52 anni e permettere alla Colombia di stabilizzarsi. Alle nostre spalle, in cima alla montagna domina la conca il bianco Santuario del Monserrate. Pensiamo di andarci più tardi e intanto risalire per le ripide stradine dei quartieri situati sui declivi delle colline qui dietro per avere una panoramica dell’intera città.
Abbandonata la zona trafficata, c’inoltriamo in uno di questi quartieri, accorgendoci subito del mutato ambiente. Case fatiscenti addossate le une alle altre senza intonaco, ceffi poco rassicuranti che circolano con muso duro e bareta fracà. Dico al mio amico che forse è meglio soprassedere, ma questi è attratto da un mercatino coperto in un edificio barocco e ci infiliamo lì dentro. Una volta usciti, il sole diventa fastidioso per cui ci mettiamo in maniche di camicia riponendo tutto il resto in uno zainetto che portiamo a turno e che contiene tutti i fondamentali: passaporti, carte di credito, valute estere e ammenicoli vari.
Da queste parti non si usano tornanti, ma le strade s’inerpicano diritte con forti pendenze, affiancate dalle abitazioni, pertanto guadagniamo presto quota, mentre la vista sulla città sottostante si allarga sempre più, così ci soffermiamo a fotografare. Qui la povertà si avverte dall’aspetto delle strade, delle botteghe e da quello rabberciato delle case, dalle facce rassegnate della gente, molti di colore. Povertà, ma non miseria, condizione di chi che vive ai margini della metropoli e ne esercita i mestieri più umili, con alte percentuali di disoccupazione e diffusa criminalità. Un cliché comune a molte metropoli del Sudamerica e non solo. La poca gente del primo pomeriggio ci guarda sbigottita chiedendosi di certo cosa mai ci verranno a fare in questi posti derelitti un bianco barbuto e un cinese in spadina. Puntiamo spediti verso la cima della collina, anche perché ci sentiamo addosso sguardi poco rassicuranti. Ora siamo all’aperto in un prato in pendenza che ospita un piccolo anfiteatro decorato di graffiti; più a destra c’è una scuola chiusa con qualche attrezzatura ludica. 
Lì intorno, seduti o sdraiati sul prato, ci sono ragazzotti con lo sguardo spento nel vuoto, in preda agli effetti della colla o di altri sniffi della notte prima. Sotto di noi si stende Bogotà in tutta la sua vastità e il colpo d’occhio è davvero notevole. Facciamo quindi una bella panoramica di foto. O meglio, le fa il mio amico cinese, perché io come fotografo valgo una cicca e ne prendo un po’ qui e un po’ là alla rinfusa, tanto poi so che non le guardo. Preferiamo disimpegnarci da quell’area perché nel frattempo vediamo approssimarsi tre figuri, che pare stiano seguendoci a distanza. Condivido i miei sospetti con l’amico dicendogli che è meglio proseguire e cambiare repentinamente direzione per verificare le intenzioni del trio. Mentre proseguo, egli si attarda ad osservarli e quei pochi metri che ci dividono fanno palesare immediatamente l’intenzione del terzetto. L’amico viene repentinamente aggredito e minacciato alla gola con un grosso coltello che il più giovane aveva fulmineamente estratto dalla canna dei pantaloni. Pochi attimi concitatissimi e il trio s’allontana correndo a perdifiato giù per la riva con il nostro zainetto.
Il mio amico è pallido e ammutolito; s’è comportato bene, non ha opposto resistenza o fatto l’eroe, ma ha visto la morte in faccia. Quei tipi avevano poco da perdere e in queste zone, lo scopriremo poi, non vanno molto per il sottile con il coltello.
Ecco fatto! Adesso siamo nel guano più spesso, in cima ad un suburbo sudamericano senza documenti, senza soldi e senza più rassicuranti connessioni con  qualche strumento di civiltà. Beh, per la verità ci restano i telefonini, che tenevamo in tasca per le foto, ma il mio è quasi scarico e anche quello del mio socio, per le troppe fotografie; inoltre non c’è campo! D’altra parte non possiamo che prendercela con noi stessi, dato che ce la siamo andata propri0 a cercare.
Che fare ora?
Ottocento dollari, due passaporti e 4 carte di credito volatilizzate, con in più neanche la possibilità immediata di bloccarle. Speranza di recupero uguale a zero. Tutti i nostri programmi sono miseramente saltati e ci si profila dinanzi una lunga peripezia in due ambasciate per ottenere in qualche modo il rimpatrio. Darci del mona, anche in mandarino, non giova comunque a farci sentire meglio.
Dopo un rapido consulto scendiamo nei pressi delle case e individuo una donna e un ragazzo fra i pochi esseri umani decenti in circolazione. La donna non sembra interessata alle nostre disgrazie, mentre il giovanotto ci bada. Naturalmente non ha visto niente, non sa nulla e non conosce nessuno. Gli  chiedo se magari, forse, visto che è del posto, potesse eventualmente venire a sapere qualcosa, che ce lo facesse sapere che i soldi se li possono pure tenere ma che almeno ci restituiscano i passaporti,  per i quali siamo pure disposti a pagare. Tutta questa tiritera mette alla prova il mio spagnolo che, a discapito del cognome, è una lingua con cui non sono particolarmente fluente. Il ragazzo annota diligentemente i riferimenti che gli do, segno che forse c’è una remotissima speranza; non credo lo faccia per cortesia..
In tasca ci sono rimasti i cellulari e qualcosa di contante in valuta locale, perciò scendiamo ancora alla ricerca di un mezzo di trasporto che ci porti via di lì.  Fortunatamente troviamo un conducente che si presta allo scopo e il quale chi chiede ragione del nostro essere lì. Ci consiglia di rivolgerci subito alla polizia di quartiere e si offre d’accompagnarci. Non faccio neanche tempo a riflettere sull’opportunità di attardarci in denunce sul posto, facendo un rapido ragionamento al risultato che otterremmo se ci trovassimo in Italia, che incrociamo una pattuglia. La polizia metropolitana è onnipresente in città, ma ben poco in periferia, inoltre non pare goda fama di specchiato rigore. I due poliziotti ci caricano sulla camionetta, che in pratica è un specie di cellulare con sedili di ferro e sbarre ai finestrini e ci portano alla prima minuscola stazione di polizia. Approfondimento dell’accaduto, generalità, spiegazioni, interrogatorio di prassi,ecc. La faccenda non si profila granché entusiasmante, riconoscendo essi stessi che è praticamente impossibile recuperare qualcosa. Mandano però subito una pattuglia in motocicletta sul luogo dell’aggressione. 
Se non che, il mio amico, armeggiando col cellulare, riesce a rintracciare delle foto panoramiche in cui s’intravedono i tre loschi figuri: per fortuna che la qualità della telecamera dell’S6 permette ingrandimenti al limite dei pixel. Bingo! 
Ma ecco che, tacchete, si spegne il telefono. Cavetti dell’iPhone li non ce ne sono, i poliziotti hanno tutti l’Android. Fortuna vuole che nella tasca della camicia  abbia precedentemente riposto la mia powerbank con relativo prezioso filetto. Fiuuuu!! Con una concitata indagine che coinvolge tutta la stazione, riusciamo a scaricare le foto nel computer della polizia e ingrandire i particolari fino a rendere riconoscibili volti e abbigliamento dei nostri aggressori.
Miracoli della moderna tecnologia!
Via radio e per telefono vengono diramate le informazioni ad altre pattuglie e le foto; pare che questi poliziotti sappiano il fatto loro e non si perdano in formalità. Peraltro siamo favorevolmente sorpresi dall’attrezzatura e dall’organizzazione di questo piccolo avamposto di frontiera metropolitana. Assistiamo per una buona mezzora al rimpallo delle chiamate via radio, cercando di capire l’evolversi della situazione, finché ci confermano che li hanno beccati. Siamo basiti e confortati da tanta tempestiva efficienza. In realtà non è che si capisca bene cosa sia realmente avvenuto perché in ufficio si avvicendano poliziotti con versioni spezzettate, finché il comandante non ci conferma che sono stati recuperati i passaporti e le carte di credito e che ci porteranno i tre per il riconoscimento. Infatti poco dopo ecco arrivare un terzetto ammanettato che entra dondolando nella stanza. No, non sono loro, non assomigliano minimamente ai nostri tre ceffi. Sono tre ragazzoni drogati che faticano a capire dove sono, ad uno gli viene trovata una bustina di coca e quindi verbalizzata la denuncia. Ordinaria amministrazione, credo.
Ecco ora sopraggiungere un poliziotto in moto e ci porta il malloppo. Passaporti, portafogli, carte di credito, carte varie, la mappa della città, perfino le mie caramelle……  Sospirone di sollievo. Al mio amico comincia a riassorbirsi anche la cascata di adrenalina e lo vedo un po’ più disteso. I soldi ovviamente non ci sono e nemmeno il mio zainetto nuovo e il mio bel golfino azzurro. La versione ufficiale è che il materiale recuperato è stato gettato via nella fuga e che i malviventi hanno trattenuto ovviamente il contante. Del confronto all’americana nessuno parla più, possiamo baciarci le manine del risultato raggiunto e ringraziare l’abitudine dei cinesi a fotografare sempre tutto. Ringraziamo i solerti tutori dell'ordine e firmiamo il verbale, mettendo a tacere il nostro grillo parlante che ci sussurra le incongruenze dell’operazione. Ce la siamo cavata in meno d’un paio d’ore: mica male! Rinunciamo pure alla facoltà di sporgere denuncia presso la sede centrale: vorrebbe dire bruciare la giornata e con nessuna possibilità di riavere i nostri soldi. Un po’ anche ci vergogniamo della nostra dabbenaggine e non vogliamo darne ulteriore pubblica testimonianza.
La polizia si offre di scortarci in albergo, dall’altro capo della città, ma decliniamo la proposta preferendo continuare il nostro giro; ci facciamo quindi accompagnare fino in centro. Lì mi compro un marsupio in cui sistemo il prezioso carico coprendolo con la camicia. Quindi prendiamo la funicolare che sale alla quota di 3000 m in qui si trova il belvedere del Monserrate.
La tensione accumulata va via via scemando e gli animi si rasserenano contemplando la conca di Bogotà dalla stupenda specola di quel Santuario.
La parte meridionale della città è circondata da colline su cui s’inerpicano i quartieri suburbani più degradati, su tutti l’immenso agglomerato di Ciudad Bolivar e pertinenze annesse, zone off-limit per qualsiasi straniero sano di mente; l’abbiamo appena verificato nella sua parte forse meno peggio e possiamo dirci fortunati.
Invece è proprio là che andremo nei prossimi giorni accompagnati dal nostro amico Oscar, un ingegnere ben introdotto nel contesto locale dei nostri interlocutori, ovvero costruttori, produttori di materiali e proprietari di miniere che hanno sede proprio sopra quegli agglomerati e danno lavoro a parecchia di quella gente. Attraverseremo in lungo e in largo i quartieri più malfamati per un'intera settimana senza patema alcuno perché siamo ospiti di Chaco, un potente uomo d'affari dai molteplici interessi. Chaco ovviamente non è il suo nome e nemmeno ci abita li, ma qui tutti lo conoscono con questo appellativo e la sua parola val più di qualsiasi altro passaporto.
Averlo saputo prima!
Gianni Spagnolo
XXII-XII-MMXVI 

giovedì 29 dicembre 2016

Dal supermercato al seggio Così siamo telecomandati

I vecchi spot non servono più, i sondaggi fanno cilecca.

Ecco come oggi si condizionano consumi e voto

- Mer 28/12/2016 - 08:36 Il Giornale 
C’era una volta la pubblicità che cercava di orientare i comportamenti di acquisto. C’erano una volta le campagne elettorali fatte di volantini e manifesti che provavano a calamitare i consensi. Oggi la pubblicità sta cambiando e i sondaggi politici fanno cilecca. La gente mente, dicono.
Afferma una cosa ma ne pensa un’altra. Forse non sa davvero che cosa vuole. Le decisioni d’acquisto o di voto obbediscono sempre meno a fattori razionali ed è sempre più difficile analizzarle per ricavarne trend attendibili. A meno che non si riesca a leggere nel pensiero, a cogliere i meccanismi inconsci che governano i comportamenti. Non è il futuro, è oggi. Si chiamano brainmarketing, ovvero la neuroscienza applicata alle decisioni di spesa, e neuropolitics se la si utilizza per la politica. Come ottenere risposte sul comportamento dei consumatori e degli elettori senza fare domande preventive; quali sono i processi emotivi e inconsci che stanno all’origine di una scelta; che cosa scatta nel cervello vedendo una pubblicità, un marchio, un certo modo di confezionare i prodotti, un simbolo di partito, una faccia. La pubblicità è nata per indirizzare le decisioni dei consumatori. Qui la prospettiva è rovesciata: non convincere la massaia a comprare un certo prodotto o un cittadino a preferire quel partito, ma capire ciò che vogliono senza rendersene conto, prevedere gli orientamenti e sottoporre l’oggetto giusto, confezionato su misura, e farglielo prendere senza scegliere. Perché è esattamente ciò che il soggetto cercava. Tre italiani su quattro hanno in tasca almeno una tessera fedeltà per fare compere. Il 44 per cento ne possiede tra due e cinque e il 17 per cento (un consumatore su sei) ) ne colleziona più di sei. Lo dice una ricerca Nielsen, centro studi specializzato nell’analisi degli acquisti. Consumatori attenti, consapevoli, che non si lasciano sfuggire un 3x2, una raccolta punti, un servizio di piatti in omaggio. Eppure chi ci guadagna veramente da questa operazione sono gli uffici marketing delle catene di vendita. Senza spendere troppo essi ottengono una massa di informazioni preziosissime per capire gusti e abitudini dei clienti: quanto spendono, che cosa comprano, con quale frequenza, quanto approfittano delle offerte, quali etichette preferiscono e quali potrebbero abbandonare a favore di altre, simili ma più convenienti. È un modo per avvicinarsi sempre di più alle esigenze dei consumatori. In verità, questa è una piccola parte di ciò che si può conoscere sui comportamenti di acquisto. Chi compra su internet, per esempio, rivela ai siti di e-commerce interessi, curiosità e oggetti del desiderio che le tessere fedeltà non possono cogliere. Il mese prossimo a Seattle sarà inaugurato il primo supermercato «reale» di Amazon. Invece che ordinare sul web, si entra nel magazzino attrezzati con un telefonino, una app e un carrello. Una rete di sensori rileva i prodotti prelevati e all’uscita addebita il conto direttamente sulla carta di credito. L’hanno già battezzato l’ipermercato senza code e senza casse, ma è davvero molto di più: i rilevatori segnalano dove ti fermi, che cosa ti attrae, per quanto tempo soppesi l’acquisto, che cosa prendi per decisione razionale e cosa per impulso.
COME IN UN FILM DI SPIELBERG Potrebbe essere l’inizio della fine dei sondaggi, dei questionari, delle indagini di mercato condotti dopo l’acquisto, soppiantati da modelli predittivi che colgono le intenzioni prima che si trasformino in comportamenti. È l’avvicinarsi di un mondo che sembrava fantascienza fino a non molti anni fa: nel 2002 uscì il film Minority report di Steven Spielberg che ipotizzava (nel 2054) l’esistenza di un corpo di polizia «precrimine» che sventava i reati prima che venissero commessi perché qualcuno riusciva a prevedere i comportamenti delittuosi. Ma nel brainmarketing non servono veggenti o «precog» con poteri extrasensoriali: le scelte vengono anticipate grazie agli studi delle neuroscienze, della psicologia comportamentale, della genetica. E in virtù delle enormi banche dati che incrociando montagne di rilevazioni elaborano algoritmi che riescono a individuare le tendenze. Di recente un gruppo di giovani ricercatori dell’università «La Sapienza» ha condotto una sperimentazione in un supermercato di Roma in collaborazione con Agroter, società di consulenza per il settore agroalimentare. Hanno messo sulla testa di alcuni clienti una fascia con elettrodi per l’elettroencefalografia istantanea (che misura le onde cerebrali e le relative reazioni), mentre un occhio era monitorato da un eye tracker, un tracciatore che coglieva i più impercettibili movimenti dello sguardo, l’impegno cognitivo e l’impatto visivo. L’obiettivo era capire le abitudini di acquisto di prodotti ortofrutticoli, i cui consumi sono in calo costante. Sono stati monitorati tutti quei riflessi, anche irrazionali, a cui un consumatore è soggetto in un punto vendita: gli acquisti d’impulso ormai rappresentano tra il 70 e l’80 per cento della spesa. Il team ha scoperto che si vende molto più facilmente quando appare la figura del produttore, sia se è raffigurato sulla confezione e tanto più se è presente fisicamente nel punto vendita.
IL POTERE DELLE EMOZIONI Il prodotto presentato dall’agricoltore ha riscontrato tassi di interazione neuronale quattro volte più alti che per gli altri prodotti. «L’incontro con l’agricoltore - sottolinea Roberto Della Casa, managing director di Agroter e docente di marketing all’Università di Bologna - ha favorito la memorizzazione, l’attenzione, la piacevolezza e il cosiddetto workload, cioè il carico di lavoro mentale, durante il processo di acquisto del prodotto. Le tecniche di brainmarketing possono essere molto utili per presentare prodotti o packaging a misura di consumatore. E con l’avanzare delle tecnologie, i budget necessari sono affrontabili non solo dalle multinazionali». La squadra de «La Sapienza», chiamata Brainsigns, si era già occupata della trasformazione di Telecom in Tim: «In quel caso – spiega il professor Fabio Babiloni, docente di neuroscienze e neuromarketing e direttore scientifico di Brainsigns - abbiamo impiegato in maniera estensiva le tecniche di neuromarketing per misurare l’impatto emozionale di diverse versioni del logo di Tim. Per il logo sono stati scelti forma e colori risultati “emozionalmente più piacevoli” a un campione rappresentativo di utenti». Analoghe tecniche sono state impiegate nelle ultime campagne pubblicitarie Alfa Romeo. Nel settore del vino il brainmarketing funziona da tempo. Al recente Wine2wine svoltosi alla Fiera di Verona, una lunga serie di ricerche è stata citata da Vincenzo Russo, direttore del centro di ricerca Behavior and Brain Lap dello Iulm. Nel 2008 la professoressa Hilke Plassmann, docente di neuroscienze alla Ecole Normale Superieure di Parigi, sottopose tre assaggi di vino a un gruppo di degustatori dicendo che erano prodotti rispettivamente da 5, 45 e 90 dollari.
I POSTER ELETTORALI CI GUARDANO In realtà la bottiglia era sempre la stessa, ma le reazioni cerebrali inconsce erano diverse: a parità di stimolazione sensoriale le persone provavano un’emozione maggiore con il vino più caro. «Il mondo del vino è emozione – ha spiegato il professor Russo – e la maggior parte dei consumatori non sceglie per conoscenze e competenze, ma per forma della bottiglia, etichetta, prezzo, presentazione. Il consumatore non è una macchina pensante che si emoziona, ma una macchina emotiva che pensa». Lo stesso principio vale in politica. Nel 2012 per la campagna presidenziale in Messico il candidato Enrique Peña Nieto utilizzò grandi database con monitoraggio di espressioni facciali, frequenze cardiache, alterazioni epidermiche e onde cerebrali dei suoi connazionali. I cartelloni pubblicitari elettronici non facevano soltanto propaganda elettorale, ma fotografavano, analizzavano e studiavano le facce di chi si fermava a osservare. Secondo un’inchiesta del New York Times le tecniche della neuropolitica sono state impiegate in Spagna, Russia, Turchia, Argentina, Brasile, Colombia, Polonia. Qui la premier Ewa Kopacz alle ultime elezioni si è fatta aiutare da una società di brainmarketing. Ma ha perso. Per i neuromiracoli è ancora troppo presto.

Un saluto da Cesuna


mercoledì 28 dicembre 2016

Un inverno di cent'anni fa 1916-17

Suggestiva istantanea invernale della Val d'Astico scattata dal settore difensivo austro-ungarico "Winterstellung" di Tonezza del Cimone denominato "Tiger-Stellung". In primo piano l'abitato di Forni con il suo ponte, poco più in alto un altro ponte sospeso sull'Astico con sulla dx Setteca', più a nord la contrada di Forme Cerati, la prateria di Bellasio e San Pietro. A dx foto in alto Cima Paile e sullo sfondo troneggiante il monte Krojer.
Colgo l'occasione per augurare a tutti BUON ANNO - Delmo Stenghele -

Clima pazzo

e che dire delle "galinéle" o valeriana che dir si voglia 
il giorno di Natale nell'orto di Giorgio Toldo ai Cerati?

lunedì 26 dicembre 2016

Un racconto sotto l'albero - di Maurizio Boschiero -






Mio padre possedeva della terra in riva, dietro casa nostra. Una “broda” a forma di L, che si incastrava tra i poderi di “Baciùni , Tony da Bessè, Rondello e il campo in piano dei Seruni”.


La casa è sulla grande curva per Caltrano appena dopo il ponte, in via Costo, dove Chiuppano sfuma, in declinare lento, verso le rive dell’Astico. E’ una terra dura e sassosa sul un crinale scosceso e “roverso”, tutta balze e falsopiani coltivati a vite e ad alberi di ciliegio di grandi dimensioni e, per dire degli anziani, sicuramente centenari.

Anche le viti erano vecchie, lunghi e grossi tralci erano distesi sui ferri rugginosi che si incastravano nel legno in un abbraccio indissolubile. Davano scarsa uva, che mal maturava, anche per l’abitudine di mio padre di tenere una specie di selva, muri di verde che non facevano filtrare la poca luce che arrivava di “sbiego”.

Un piccolo orto lo avevamo ricavato scavando col piccone, un “àrdene” ripido in cui indugiava di più il sole e qualche viola, al riparo dalle gelate, fioriva anche verso Natale.  Lo chiamavamo “l’ortesèlo” e veniva utilizzato per piantarci un po’ di insalata, la salvia e il rosmarino, qualche cipolla e del prezzemolo. Mia madre vi teneva anche una pianta di ruta da mettere nella grappa e dell’erba  “maresina” per le frittelle, quando era tempo d’autunno, specialmente verso le feste dei morti. La pianta di cachi creava d’inverno una macchia colorata come  la luce arancio di un lampione,  che contrastava il grigiore dei mesi gelati.

Il  fico dava d’estate dei dolci frutti che mangiavamo con avidità; vi era anche un grosso melo che maturava poche e grosse “pome”; dei “brombari”  che un anno sì e uno no si caricavano di frutti e  di “brombajui”; un melo cotogno mal ridotto e un pero posto sul confine con la proprietà di Tony da Bessè. Quest’ultimo lo chiamavamo,  un po’ ironicamente, “el marescialo” per essere stato, nell’arma dei carabinieri. A volte lui e  mio padre  parlavano con grande animazione di caccia e di uccelli,  perché tutti e due appassionati dell’arte venatoria, raramente li vidi  dividersi un po’ di vino, però rimanendo dietro la rete che divideva i loro scarsi poderi. Sembravano due vecchi soldati in trincea, che nelle pause della battaglia o sotto Natale fraternizzavano e si scambiavano una sigaretta o un pezzo di pane.

Questo armistizio io avrei desiderato che si allungasse fino ai nostri giorni , ma bastava un niente per tornare al sospetto e al disaccordo. In primavera ciuffi di primule annunciavano la fine dell’inverno che se ne andava con i bucaneve e il freddo,  lasciando il posto ai delicati crocchi e alle tenere viole.

Tappeti di muschio coprivano gli angoli, in ombra, del terreno e sotto Natale andavamo a raccoglierlo per il presepe, insieme a piccoli pezzi di legno secco con cui costruivamo le casette e le grotte. Le siepi di “sànguana, saugàro, orno e russe” incorniciavano l’appezzamento ed erano il regno di pettirossi e uccelli che cantavano tra i rami e vi costruivano i loro nidi.

Mio padre si sfiniva su questa terra e dedicava tutto il suo tempo libero a falciare l’erba, a potare viti e vendemmiare quando era il tempo. Ricavava qualche ettolitro di vinello “mericàn”, che a malapena si manteneva sano fino a primavera se tutto andava bene. Spesso cominciava a “puntare” già alla fine dell’inverno, poi diventava di un coloretto slavato che “trava sull’asédo”. Lo consumavamo lo stesso magari torcendo la bocca, ma saldi. Colpa di una cantina poco fresca, o del “cruajo” che davano quelle viti al “roverso”.

Era duro mio padre, come quella terra sassosa ed aspra, che si ostinava a coltivare con testarda determinazione. I confini di questa proprietà seguivano bizzarre linee che la portavano ad essere una tessera di un puzzle fatto di tanti piccoli pezzi di terra e di riva, contesi dall’ombra e dalla fatica di lavorarli.

Tra questi vi era ora anche la terra di Aldo, quella che Tony gli aveva ceduto quando  non aveva più avuto la forza di arrampicarsi per quelle rive. Dunque Aldo divenne  nostro confinante.  Aveva costruito la sua casa su un cucuzzolo di terra  acquistato anni prima da Italo “Finco”. Lavorava di notte in fabbrica e di giorno si spartiva tra la casa ed i campi. La moglie Gabriella  badava agli animali e ai tre figli piccoli. Aldo coltivava  il suo piccolo fondo con grande passione e competenza e ne traeva dei buoni frutti, perché conosceva bene i segreti della luna coi suoi influssi, i tempi per potare e tagliare le piante, i momenti delle semine e dei raccolti.

Per me, bambino, che mi inoltravo lentamente nel nostro piccolo “brolo” lungo il ripido “stroso”, era il paradiso terrestre. D’estate  i nidi e le rondini davano voci a quegli angoli in ombra. D’inverno  diventava un presepio con il muschio e la neve che coprivano tutto. Anche il cielo era bello sopra di noi. Di là del confine, che di solito era di reticolato ruggine e malmesso, se non il nemico, c’era sempre qualcuno da guardare, per lo meno, con sospetto. Attorno, tutti erano così. Almeno così ne parlavano in casa. Sembrava il fronte della prima guerra. Un’altra terra ed un altro cielo stavano al di là della rete.

Qualcuno da ex combattente e quasi tutti lo erano, aveva scambiato la terra per un campo di battaglia, che bisognava difendere a tutti i costi. Mi guardavo dall’avvicinarmi alla rete, a sfiorarla mi venivano i brividi, temevo una scarica di parole. Mia madre mi raccomandava sempre di stare nella nostra parte, perché potevano nascere discussioni e liti anche per poco. Una gallina che si fosse spinta oltre il confine, un sasso rotolato per caso o dei rami che avessero passato il segno erano motivi di mugugni tra mio padre e i vicini.

Erano sospettosi l’uno dell’altro e negli anni la situazione peggiorò finché proprio non si salutarono più. Io seguivo i mugugni di mio padre in casa e cercavo di stare attento coi miei giochi a non entrare nel fondo del vicino. Più grande, non mi occupai più di tanto della cosa, anche perché ormai ero troppo preso con lo studio, prima, ed il lavoro poi.

Mio padre, sapevo, aveva un carattere scabroso e duro, che sfiorava la testardaggine e questo peggiorò anche con gli anni quando io cercavo di ritagliarmi degli spazi, che non mi erano concessi se non dopo liti, a volte, aspre. Certo non mi suonava bene nemmeno che scaricasse in casa le sue tensioni, quando magari parlava di confini e di vicini. Anche se poco conoscevo le storie, anch’io un po’ alla volta mi ero fatta l’idea che Aldo fosse una persona rissosa e chiusa, “da non avere affari” diceva mio padre.

Guardavo da lontano quell’ometto pallido, magro come un chiodo, che lavorava di notte alla “Lanerossi” e di giorno tra quella terra. La vita era stata dura anche per lui; suo padre era stato intrappolato ed ucciso a Pedescala dai Tedeschi in ritirata e troppo presto aveva conosciuto la durezza della vita. Emigrò in Svizzera a lavorare in una fattoria e tornò per seppellire sua madre.  Se mi capitava davanti, lo salutavo in fretta e cercavo di non dare adito a discorsi che supponevo fossero astiosi anche nei miei confronti.

Passarono gli anni, ognuno chiuso nel suo mondo e in una pace armata  in equilibrio su uno spillo. Bastava un niente per mandare all’aria tutto. Mio padre si fece vecchio e sempre più di rado si spingeva giù per la riva tra i suoi posti che aveva difeso sempre quasi ferocemente. Io dovetti prendere in mano la situazione, anche se malvolentieri. Avevo paura di trovarmi nella situazione che in tanta parte aveva creato mio padre, forse neanche per cattiveria, ma figlio di un tempo in cui tutto era guadagnato e difeso, non importava come. Bisognava “procurare” per la famiglia, per i figli, dare loro tutto ciò che si poteva in una pulsione atavica, che non aveva ricercatezza e sensibilità, solo spirito di sopravvivenza, e di attaccamento alla “roba”.

Cominciai così a muovermi per quella riva, ma in fondo poco mi interessava la terra e quello che poteva dare; io volevo che la messe fosse una nuova fraternità con chi mi abitava intorno, con chi condivideva la fatica del lavoro su quella riva aspra, che poco dava, almeno mi avesse dato il modo di fraternizzare.

Le prime volte con Aldo ci salutammo un po’ freddamente, un saluto di cortesia, senza concedere nulla di più a quel ciao breve e secco. Passarono i giorni e qualche parola di più tra un lavoro ed un altro cominciammo a scambiarla e sempre di più accettavamo la presenza l’uno dell’altro come una possibilità che avrebbe potuto arricchirci di parole e di un rapporto diverso.  Cominciammo così un po’ alla volta a trovarci, oltre confine, senza accorgerci del tempo che passava con il solo piacere di parlarci, uno accanto all’altro.  Passò una stagione, poi un’altra e un’altra ancora ed i lavori che dovevano essere fatti non mi erano pesanti, perché avevo trovato chi mi consigliava e chi mi incoraggiava, nel poco tempo che potevo dedicare a quell’occupazione.

Un giorno che l’erba era alta proposi ad Aldo che se la tagliasse per i suoi animali, visto che ne aveva parecchi e la raccattava anche in posti scomodi e lontani da casa sua. All’inizio fu incerto, ancora forse non aveva ben messo a fuoco il mio essere e le mie intenzioni, non erano sufficienti le parole che ci eravamo scambiate; da buon e saggio contadino contavano anche i fatti, forse aveva sofferto tanto dal rapporto con mio padre. A volte vi accennava, ma non più di tanto, forse per non ferire me e non mettermi a disagio. Io arrivai a scusarmi per  quello che aveva patito, avrei voluto dare un colpo di spugna su quegli anni per cancellarli . Mi fece capire che non dovevo. Era andata così: un gioco crudele che aveva logorato i due confinanti.

Cominciò a falciare l’erba e a portarsela a casa, poi gli cedetti delle piante da abbattere e lo facemmo insieme. Infine gli proposi di lavorare la terra di mio padre per suo conto; che ne facesse ciò che voleva. Accettò ed un giorno mi disse:” Pensavo che i figàri fasesse sempre fìghi, ma no ze mia sempre vero”. Come a dire: “Pensavo che tu fossi uguale a tuo padre, ma non è sempre così”. Filosofia spicciola di un uomo della terra, arguto ed intelligente, fattosi tra i campi e le stagioni come un frutto raro e prezioso. Fu come mi avesse dato un abbraccio infinito, un regalo bellissimo da una persona che avevo imparato a conoscere e che si era rivelato di una sensibilità  straordinaria.

Cominciai a frequentare la sua casa e le sue porte mi si aprirono come il suo cuore, se avesse potuto mi avrebbe dato latte di gallina ed io altrettanto. Quell’uomo magro che io avevo sempre visto da lontano oltre il confine era per me diventato mio fratello, mio padre ed un amico.

Quell’inverno  la nostra riva si era coperta di neve e di muschio gelato. Pochi i lavori col freddo, ma tracce di animali, forse anche la volpe aveva lasciato un segno. Un colore immacolato come un velo aveva reso candidi i nostri cuori.

E venne il Natale del 2001 ed in casa avevamo fatto il presepe ed un piccolo albero addobbato di palline colorate e di luci. Il presepe con le antiche statuine che avevo da bambino, le pecorelle, i piccoli pastori. Non avevo sentito granché la festa, troppe vetrine colorate, supermercati traboccanti e pubblicità vuota. Erano passati i giorni ed io speravo in un sogno che mi ridesse quella festa che da bambino mi incantava.

La mattina di Natale verso le nove suonò il campanello di casa mia. Nevischiava un po’; orme sulla stradina davanti alla finestra. Qualcuno era sulla porta. Aprii pensando  fosse un parente; un mio cugino o un mio zio, quelli che di solito vengono per gli auguri. Era Aldo invece. Zoccoli da stalla ai piedi, una giacca marrone, dei calzoni di fustagno ed un cartoccio nelle mani. “Son vignù al verso par farte i aguri de bon Nadale e te go portà dele parane de mas-cio ca go copà stì giorni”. Fui sorpreso e commosso. Gli strinsi forte la mano, l’avrei tenuta ancora tra le mie mani, ma poi giocò e vinse  la timidezza. Era una mano callosa e ruvida, calda come una carezza. Lo feci entrare, era Gesù che entrava in casa mia, era il pastorello che mi mancava nel presepe, un regalo del cielo. Fuori nevicava e copriva le ombre di quegli anni duri di ripicche e liti, che avevano segnato le nostre famiglie. Guardai dalla finestra, giù nella riva, qualche scricciolo infreddolito saltava tra i rami nudi. I cachi erano diventati “spumilie par i merli”, come direbbe il mio amico poeta Claudio Cappozzo; la neve aveva coperto i confini ed ora tutto era bianco.

Erano caduti anche in noi quei muri che negli anni erano diventate montagne. Le avevamo scalate. Fu il più bel Natale che avevo vissuto, bello come quel Natale povero della mia infanzia quando bastava la neve per rendere  incantata la vita. Aldo se ne andò che ancora nevicava, dalla finestra guardavo le tracce che i suoi zoccoli lasciavano sulla neve come la traccia, che aveva lasciato nel mio cuore in una dolcezza senza confine.

Ora le nostre terre non hanno reticolati e sono nello stesso cielo. Auguri Aldo, ti voglio bene, le nostre terre non hanno più confini ed il cielo sopra ci accompagna insieme. Auguro a tutti di vivere una storia come questa, allora il Natale sarà ancora una  grande festa profumata di muschio e di scorza d’arancia bruciata sul fuoco.

domenica 25 dicembre 2016

Natale

Auguriamo a tutti i Follower 
che questo Natale 
porti qualcosa di speciale












sabato 24 dicembre 2016

Tutto ciò che succede ogni minuto su Internet in un’infografica

Il regno di Internet spiegato un’infografica di VisualCapitalist.com che racconta l’attitudine dei naviganti. E scoprire che ci sono più «swipes» su Tinder che login su Facebook

A Londra il panettone (italiano) al caramello salato sbaraglia il Christmas Pudding

Panettone batte Christmas Pudding due a uno. Incredibile a credersi, ma nella splendida Food Hall di Selfridges, il grande magazzino di Oxford Street a Londra, si vendono due dei dolci natalizi italiani per ognuno dei pudding tradizionali inglesi. Come spiegare questo tradimento degli antichi irrinunciabili riti britannici che il 25 dicembre non prevedono un dolce lievitato ma un concentrato di frutta secca cotto al vapore per ore e poi servito con il brandy butter, burro montato con il cognac?
La ragione è che Selfridges ha pensato bene di inventare un nuovo panettone. Niente creme allo zabaglione o allo champagne, niente cioccolata o amarene. Niente di complicato in realtà, ma un ingrediente nuovo: il caramello salato.
Alla pasta leggera del panettone, al profumo di vaniglia, non sono stati aggiunti canditi o uvetta ma pezzetti (o ‘gioielli' come li chiama il negozio) di caramello al sale, che si sciolgono in bocca sprigionando il sapore contrastante del dolce e del salato.

Il panettone, che costa £24,99, circa 30 euro, è stato un successo superiore alle previsioni: ogni giorno sparisce dagli scaffali e Selfridges ha dovuto fare nuove ordinazioni per far fronte alla domanda. E' il prodotto natalizio che vende di più in assoluto, il grande successo della stagione.
Trasformare l'idea del panettone al caramello salato in realtà però è stato complicato, spiega Scott Winston, buyer della Food Hall di Selfridges: «Volevamo creare qualcosa di semplice e di esclusivo e abbiamo pensato di unire il panettone con uno dei gusti più in voga del momento. Convincere i nostri fornitori italiani ad avere altrettanto entusiasmo per il prodotto però non è stato facile. Il caramello salato evidentemente non è amato in Italia quanto in Gran Bretagna, e ci è sembrato di commettere un sacrilegio gastronomico!».

Alla fine il produttore italiano, la pasticceria Filippi di Zanè, vicino Vicenza, ha acconsentito a tentare l'ardito esperimento. Ci sono stati mesi di tentativi, degustazioni e prove con più o meno caramello, più o meno sale e così via fino a quando la ricetta perfetta è stata trovata e tutti sono stati soddisfatti del risultato. «Sacrilegio o meno, il ‘salted caramel panettone' è talmente buono che scommetto che l'anno prossimo verrà lanciato anche in Italia».
di Nicol Degli Innocenti-ilsole24ore

venerdì 23 dicembre 2016

L'ultimo abitante della Contra' Baise

Un viaggiatore, proveniente da Arsiero, imboccando la strada della Valle dell'Astico, che corre sinuosa e incastrata fra fiume e montagna, nota che, passato il ponte di Pedescala, la Valle improvvisamente si allarga. Si può così osservare, sulla sinistra del fiume ed un po' rialzate sulla collina, la lunga fila di case del paese di San Pietro con, sul retro, un po' sgradevole alla vista, della sua chiesa. Specialmente la notte si presenta un'immagine suggestiva delle sue contrade piccole e grandi, sparse sullle pendici della montagna. La fievole luce che si vede lassù, la più in alto di tutte, quella é la luce della “Contra' Baise”.
Il luogo è configurato da cinque case, quasi gemelle, unite da tezze, stalle e scantinati alla sesta casa: la casa “madre”. La prima costruita verso la fine del cinquecento-inizio seicento, dalla famiglia dei BONIFACI soprannominati “BAISE”.

Per tradizione familiare, trasmessa da generazione in generazione, si racconta che gli antenati di questa famiglia,
fossero degli abitanti della repubblica di Pisa, emigrati in Corsica del Sud, prima dell'anno mille. Avessero fondato il porto e la città di Bonifacio, assumendosene così anche il nome. Nel 1400 furono espulsi dalla Corsica dai Genovesi, loro acerrimi nemici. La maggior parte si rifugiarono nel sud della Francia, nell'attuale Provenza, dove vivono ancor oggi molti discendenti.

L'Antenato dei Bonifaci “Baise” invece, ritornò in Toscana e si mise al servizio dell'esercito pontificio. Persona irrequieta e focosa, commise una grave “sciocchezza”. Fu

costretto a fuggire la rigorosità papale e rifugiarsi sotto la protezione di Venezia. Per evitare ritorsioni da parte papalina, il Doge lo spedì ai Torrioni di Pedescala a proteggere la “strada de l'Alemagna” (così si chiamava anticamente questa via, sola percorribile, situata alla sinistra dell'Astico) infestata da frequenti scorribande di teutonica provenienza. Sotto la vecchia chiesa di San Pietro in contrada "Checa" conobbe una fanciulla avvenente e di nobil stirpe se ne innamorò e, stanco di una vita randagia, se la sposò e per amore, divenne pastore. Con il passare degli anni, i suoi discendenti tanto lavorarono e tanto intrapresero

da rendere gelosi e cattivi i vecchi abitanti che, tanto loro fecero di soprusi ed angherie da costringerli ad abbandonare il paese e rifugiarsi in un luogo più sicuro e tranquillo. Scomodo e senza vie di accesso, ma sicuro e sopraelevato. Da lassù dominavano tutta la Valle dell'Astico: dal Colletto di Velo a sud, al Becco di Filadonna a Nord. Potevano vedere ed osservare ogni movimento.

Più probabilmente si installarono lassù ai “Baise”' per la vicinanza della Torra, torrente certo, ma sopratutto, a quei tempi, unica strada che collegava il fiume Astico alle ricche montagne dell'altipiano. Migliaia di metri cubi di legname, di tutte le lunghezze, che serviva alla costruzione delle fondamenta delle case e dei palazzi di Venezia, transitarono in pericolose condotte per questa via, dando lavoro a tanti uomini, che altrimenti sarebbero stati costretti, come successe più tardi, ad abbandonare il paese.

Non solo, ma la Torra era anche il confine naturale tra la repubblica di Venezia e l'Impero austriaco, di cui Casotto, il paese più vicino, faceva parte. Tanto vicino che, pur in un linguaggio tutto loro le genti da una sponda all'altra si parlavano e si ingiuriavano, senza difficoltà. Per tre secoli, tonnellate di cereali e carni hanno attraversato i confini dal territorio veneziano a quello del “Sud Tirol”. Fino a una cinquantina di anni fa esistevano, solo a Casotto di sotto, cinque mulini lungo l'Astico. Non é che macinassero i sassi delle Marogne!

La stessa cosa dalla parte opposta con il tabacco ed il sale

proveniente dalle saline di Salisburgo.

L'arrivo agli albori dell'ottocento delle truppe napoleoniche e la loro rivoluzione, portarono la miseria più nera nella Valle dell'Astico: più legname per Venezia occupata e più contrabbando non esistendo più le frontiere.

A partire dal 1870 mio nonno Basilio decise di scendere definitivamente in Contra' Lucca dove le famiglie possedevano delle case in cui passavano una parte dell'inverno. Successivamente tutte le famiglie “Bonifaci Baise” fecero la stessa cosa. L'ultimo fu un certo Antonio nel 1900 che partì direttamente per l'America. Durante la guerra del 1915-18 le case in prima linea furono completamente distrutte. Nel 1920 furono ricostruite nello stile di quell'epoca. Non furono mai più abitate, all'infuori della Casa Madre, la prima della fila a destra.
In questa casa era rimasto solo un certo Valentino Carraro, originario di Grantorto nel padovano, che aveva sposato una vedova Bonifaci. Costei morì senza lasciare figli, ma lasciando al marito come eredità, un terzo di tutti i beni che possedevano i “Bonifaci ai Baise”.

Il Carraro si risposò con una vedova da Forni, una certa Maddalena Dalla Via, che portò con sè una figlia: Domenica. Ebbero assieme due figli: Antonio e Maria.

Antonio si sposò con una cugina: Maddalena ed ebbero

sei figli ed una figlia. I figli assieme al padre, si costruirono a Piovene un appartamento ciascuno. I più giovani avendo il lavoro vicino si installarono subito “in città”. Con i genitori rimasero: Valentino, il più anziano e Dino che quando sua madre si ammalò in forma grave abbandonò l'Arma dei carabinieri e si dedicò a curarla fino alla sua morte, dedicandosi anche ai lavori delle abbondanti terre. 
Grande amatore di belle donne e del gioco, Dino fu colpito anche lui dallo stesso male della madre, già molto tempo fa, ma non si lasciò mai abbattere, anzi, si direbbe che la malattia gli abbia, fino a qualche anno fa, duplicato le forze.

Ora però, la natura sta presentando il conto. Piano piano il mondo sta chiudendosi attorno a lui. Valentino, vecchio “fauno dei boschi” e grande coltivatore della “Singela”, pur facendo una vita ineguagliabilmente sana, la brutta malattia se l'è portato via, lasciando solo il fratello ottantenne.

Fu un duro colpo!

Oh... Non era certamente il grande amore fra loro due, di carattere diametralmente opposti. Dino, ancora impregnato dell'educazione dell'Arma, Valente di quella appresa nelle stalle e nei cantieri.. eppure ora gli sta mancando molto la sua presenza!

Amorevolmente assistito dalla sorella Pia e dal fratello “tuttofare” Adriano, l'ottantunenne Dino, ora molto malato, vive tutto solo lassù, isolato dal mondo.




Certamente, ultimo abitante della “CONTRA' BAISE”!
Lino Bonifaci





Cogollo. Attivisti del ‘No Valdastico Nord’ in azione

Non vogliono aspettare di vedere le ruspe in azione sul primo scavo che darebbe avvio al cantiere della Valdastico Nord.

Gli attivisti contrari al proseguimento dell’autostrada promettono filo da torcere ed hanno deciso ieri di dare risonanza alle loro convinzioni con una azione dimostrativa, fasciando con funerei striscioni ‘No Valdastico Nord, Vicenza si solleva’ un mezzo dedicato alle ispezioni geologiche pro autostrada, parcheggiato sul territorio di Cogollo del Cengio, nella zona del ponte Sant’Agata.

I mezzi per il carotaggio del terreno, già in azione da una settimana in tutta la vallata (un altro era operativo a Casotto di Pedemonte), sarebbero proprio finalizzati a ricavare le necessarie informazioni per consentire la realizzazione del progetto esecutivo dell’autostrada.

La progettazione definitiva del 1° lotto del proseguimento della A31, conosciuto come ‘lotto veneto’, è infatti in fase conclusiva, e dovrebbe essere pronto all’inizio del 2017, per poi avviare l’iter approvativo di legge obiettivo (verifica di ottemperanza Via, conferenza di servizi consultiva, Cipe).

Tra mille incertezze, cambi di rotta e l’ostilità di Trento i simpatizzanti del gruppo ‘Salviamo la Valdastico’ hanno ‘ricevuto con piacere la notizia dell’azione degli attivisti’, come ha commentato soddisfatta la loro coordinatrice Giuliana Marchi. Ma che l’azione sia solo un innocuo ‘zampino’ o la promessa di una guerra vera e propria, forse non bisognerà aspettare molto per capirlo.


Marta Boriero - Altovicentinonline

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...