venerdì 2 settembre 2016

ROTZO - by biblioteca civica


L'AMBIENTE E IL TERRITORIO. 
Il paese di Rotzo, posto all'estremità occidentale dell'Altopiano dei 7 Comuni, è un angolo di mondo aperto a balcone sulla pianura. Un trampolino di lancio, sospeso tra terra e cielo, da cui spiccare voli nel tempo e nello spazio e dove sciogliere i pensieri verso l'infinito. E' un ritaglio di storia, il frammento di un'eterna poesia, il ricordo di un antico giardino: certi scorci di boschi, certi paesaggi rocciosi, certe distese innevate riportano all'Eden, perché così doveva apparire il mondo dopo la Creazione. Boschi, prati, rocce, pianori e precipizi, una natura che affascina: ma non soltanto questo. L'uomo ha saputo, nei secoli, con tenacia e saggezza, trasformare e rendere l'ambiente adatto alla propria vita, consegnandoci il paesaggio come lo vediamo adesso. Questo mirabile connubio di natura ancestrale e umana fatica è qualcosa in grado di colpire e stupire l'animo umano. 
Il Comune di Rotzo è delimitato geograficamente dalla Val D'assa a sud, dalla Val d'Astico a ovest e dalla Val Martello a est, la quale ne definisce il confine con il vicino comune di Roana. A nord invece il territorio comunale confina con la Provincia autonoma di Trento e con il comune di Asiago. I nuclei abitati che lo compongono sono le tre antiche frazioni di Castelletto, Rotzo e Albaredo, dislocate principalmente lungo l'asse della strada provinciale del “Piovan”. Il fatto di essere collocato ai margini dell'Altopiano ha preservato Rotzo dagli eccessi dello sviluppo edilizio, sfociato a volte in vero e proprio saccheggio edilizio, che ha caratterizzato altre realtà dell'Altopiano, in particolar modo la conca centrale: la disposizione urbanistica del territorio è pertanto del tutto simile a quella antica. Fra le contrade di Rotzo e Castelletto, a sud degli abitati, si estende, fatto pressoché unico nell'acrocoro dei 7 Comuni, una distesa pianeggiante: la “Campagna”, quasi un piccolo altopiano all'interno dell'Altopiano stesso. La giacitura dei terreni e la loro esposizione, meravigliosamente a sud, hanno da sempre favorito la messa a coltura degli stessi, con la coltivazione, ai tempi d'oggi, sopratutto della pregiata e rinomata patata; importantissime per il sostentamento della popolazione erano, fino a non molti anni fa, anche le produzioni di cereali e legumi, oggi scomparse per quanto riguarda i cereali e limitate al consumo domestico per i legumi. Il paesaggio della campagna rappresenta tuttora una realtà agreste che mantiene un fascino antico e immutato: e se le coltivazioni, con l'andare dei secoli, sono pur cambiate, la bellezza e l'armonia del luogo sono invece rimaste intatte e le distese dei campi di patate in fiore, a primavera inoltrata, rappresentano già da sole un valido motivo per un'escursione in loco. Gli antichi muretti a secco dei terrazzamenti, i cumuli di sassi derivanti dal paziente e secolare spietramento dei terreni, le stradine di accesso ai coltivi, i filari di nocciolo e maggiociondolo a delimitare le proprietà, i resti di baiti o ricoveri di fortuna sono alcuni degli elementi che arricchiscono e nobilitano il paesaggio, che non ha riscontri in altre zone dell'intero Altopiano. Più a sud, oltre il ciglio che delimita la campagna, scende, in certi punti quasi a precipizio, il versante boscoso che si tuffa nella Valdassa: nella parte alta e assolata troviamo il pino silvestre in combinazione con faggio e sopratutto carpino nero, più in basso in compagnia di orniello e roverella. Nel versante a nord del paese il paesaggio cambia e troviamo predominanti l'abete rosso e il faggio. E' l'ambiente ideale per le escursioni perché il bosco è vicinissimo alle case e basta percorrere anche solo poche decine di metri per trovarsi immersi nella natura. E' proprio questo il grande pregio che offre Rotzo: quasi tutte le case sono distribuite lungo la strada principale e da qualunque parte si decida di dare inizio all'escursione, sia a scendere in campagna che a salire verso il monte, si entra in breve tempo nell'incanto. Il bosco di abete bianco e rosso, più raro il larice, domina incontrastato nella parte alta del territorio comunale, fra i 1.500 e i 1.800 metri di quota, intervallato solamente dalle distese prative delle 5 malghe che compongono, boschi e malghe assieme, il patrimonio silvo-pastorale di Rotzo. Va precisato che tale patrimonio è in comproprietà con le sue ex frazioni di Pedescala e San Pietro, le quali nel 1940 si sono staccate dal comune di Rotzo per fare parte del nuovo comune di Valdastico. Dalla visita ad una malga si può intuire la sapienza e la saggezza delle generazioni che si sono succedute e che per secoli hanno vissuto nel loro territorio, imparando a conoscerlo, a capirlo e a rispettarlo come nessun manuale riuscirà mai ad insegnare. La disposizione degli edifici, la localizzazione della stalla per il ricovero e la mungitura dei bovini, la creazione di pozze per l'abbeverata, sono elementi ben studiati e mai casuali, pensati e realizzati per sfruttare al meglio la morfologia e le condizioni naturali del posto. Sono luoghi incantevoli, da godere d'estate come d'inverno, approfittando delle splendide e ben tenute piste da sci di fondo che le percorrono in un fitto intreccio di tracciati.
LA STORIA
Narrare delle vicende storiche di Rotzo significa in buona parte ripercorrere la storia dell'Altopiano. Da sempre riconosciuto come il più antico dei 7 Comuni, Rotzo può vantare i natali del più illustre fra i suoi figli, quell'abate Agostino Dal Pozzo che nacque proprio a Castelletto e che fu storico profondissimo nonché studioso attento di tutte le vicende legate al territorio dei 7 Comuni. Ci lasciò in eredità, fra le numerosissime altre pubblicazioni, alcune delle quali andate purtroppo disperse, le “Memorie istoriche dei Sette Comuni Vicentini”, uno studio approfondito sull'origine di questi popoli e sulla lingua da loro parlata, così radicalmente diversa dalle popolazioni confinanti. Fu proprio questo fatto a incuriosire e spingere l'illustre abate ad approfondire la questione: come è possibile che nell'Altopiano dei 7 Comuni, come pure in quel di Luserna e nei 13 Comuni Veronesi, si parli una lingua denominata cimbra, risalente all'alto tedesco, che non ha riscontro con le lingue usate dalle popolazioni venete a sud né con le trentine a nord? Un'isola linguistica, potremmo definirla, dove si usa un linguaggio certamente di origine germanica ma così diverso dalla lingua tedesca parlata, ad esempio, dalle popolazioni dell'odierno Alto Adige? Gli studi intrapresi, la passione e un pizzico di fortuna portarono il Dal Pozzo a scoprire nel 1781, in un fondo di sua proprietà in località Bostel, un villaggio protostorico, risalente alla seconda età del ferro, dove furono portate alla luce numerosissime casette strutturate in un villaggio organizzato. Ai giorni nostri l'area del Bostel, il sito archeologico più importante dei 7 Comuni, è organizzata in parco archeologico. La presenza dell'uomo sull'Altopiano è peraltro documentata in epoca ben più antica rispetto al villaggio del Bostel; nella vicina località Bisele, nella destra orografica del torrente Ghelpach, in comune di Roana, negli anni 1947-1948, durante gli scavi per la costruzione di una strada, venne alla luce un ricco giacimento fossilifero di Ursus Speleus e molti manufatti silicei risalenti al paleolitico medio (100.000 – 35.000 anni fa). Poche sono le notizie su Rotzo dall'epoca romana all'anno 1.000, quando l'intero Altopiano, rimasto per secoli pressoché disabitato, fu ricolonizzato da popolazioni provenienti dalla Baviera e spinte a scendere in Italia, sembra, dai frequenti periodi di carestia nei paesi di origine. Furono proprio queste popolazioni a portare la lingua cimbra in Altopiano e nelle zone montuose limitrofe; tale lingua venne parlata per molti e molti secoli, fino a lambire quasi i nostri giorni. Risalente quasi di sicuro al secolo XI è l'antica chiesetta di S. Margherita, fra le località di Castelletto e Rotzo, primo segno della religione cristiana fra i nostri monti. Nel 1310 si costituì la “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, una federazione fra tutti i Comuni dell'Altopiano nata con lo scopo di darsi un'amministrazione e una forma di governo autonoma e indipendente. L'adesione a Venezia del 1404 portò un periodo di prosperità a Rotzo e a tutto l'Altopiano, anche in virtù delle esenzioni fiscali e delle altre agevolazioni che la Serenissima concesse agli alpigiani dei 7 Comuni, quale riconoscimento del difficile vivere in zone montane (magari la Venezia di adesso fosse così attenta, saggia e lungimirante!) e in cambio, peraltro, della difesa dei confini, continuamente minacciati dalle scorrerie degli eserciti imperiali. Era anche un apprezzamento per la lealtà dimostrata dalla Reggenza nei confronti di Venezia e per l'aiuto che i 7 Comuni non le facevano mai mancare, sia in termini di materiali, sopratutto legname per la costruzione delle case e per l'arsenale, sia in termini di uomini e soldati, tanto da meritarsi il titolo di “Fedelissimi”. Il periodo di prosperità, pur fra alti e bassi, durò fino all'avvento di Napoleone Bonaparte che decretò la fine sia di Venezia che della Reggenza: da quel momento l'Altopiano divenne territorio austriaco perdendo così ogni forma di autonomia. Nel 1866, in seguito alla 3^ guerra d'Indipendenza, Rotzo e l'Altopiano furono uniti al giovane Regno d'Italia. Diventato terra di confine, l'Altopiano sopravvisse a quegli anni difficili, di cui si ricorda l'estrema e assoluta povertà della gente, con la pratica del contrabbando e con l'emigrazione, di solito stagionale e praticata, ironia della sorte, sopratutto in quei territori austriaci dai quali ci si era appena separati. A Rotzo moltissimi erano gli emigranti che si recavano nelle miniere della Stiria per cavare il ferro o il carbone dalle montagne: lavoro durissimo e pericoloso perché anche chi riusciva a sopravvivere alla miniera ritornava a casa “minato” nei polmoni e nel fisico dalla silicosi, tanto che gran parte dei minatori non superava i 50 anni di età. Le vicende di quegli anni sono meravigliosamente descritte nel libro “Storia di Tonle”, capolavoro del nostro grande conterraneo Mario Rigoni Stern, nel quale si narra la vita e le avventure di un uomo libero, costretto all'emigrazione da una condanna in contumacia, che ogni primavera, finché le gambe glielo permetteranno, scavalca per sentieri impervi i confini di stato e gira per tutte le terre dell'Impero Austro-Ungarico a svolgervi le più disparate professioni (escluso il minatore, per sua fortuna!). Negli anni attorno al 1880 iniziò l'emigrazione, in questo caso non più stagionale ma ovviamente definitiva, verso il Brasile, in particolare nello stato del Rio Grande do Sul. Le grandi navi di linea, con il loro carico di disperati, attraccavano nella capitale, Porto Alegre; i territori più comodi e fertili, però, erano già stati assegnati agli emigranti tedeschi, giunti prima di loro, così ai nostri toccarono le terre più scomode e difficili. Furono anni di fatiche disumane e di enormi tribolazioni, in mezzo ad una natura ostile e pericolosa, con la nostalgia e forse anche il rimpianto a rendere meno belli certi coloratissimi tramonti brasiliani. Ai giorni d'oggi la comunità di Rotzo è ben presente in quei lontani territori e i loro discendenti hanno riallacciato i legami, rimasti interrotti per tre generazioni, con il paese di origine. L'Europa, purtroppo, è però in fermento e lungo il confine, da entrambe le parti, si mette mano alla costruzione della poderosa linea fortificata che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei generali, arrestare un'eventuale azione offensiva avversaria: e questo la dice lunga sul clima di fiducia esistente nei rapporti fra Italia e Austria, fino a quel momento ancora formalmente alleate! Il territorio di Rotzo ospitò forse il più bello, perlomeno dal punto di vista panoramico, fra i forti costruiti da parte italiana; il forte di cima Campolongo. La guerra è ormai all'orizzonte: alle 4 di mattina del 24 maggio 1915 il primo colpo di cannone sparato dal forte Verena dà inizio alle ostilità dell'Italia contro l'Impero Austro-Ungarico. Le prime settimane di scontri fecero però capire in fretta a quanto poco sarebbero serviti i forti, perlomeno quelli italiani: progettati per resistere a proiettili di piccolo e medio calibro, risultarono del tutto inefficaci contro le bombe da 305 mm. sparate dagli obici e dai mortai che gli austriaci avevano posizionato nelle vicinanze del fronte. Ridotto ad un ammasso di rovine, dopo che un proiettile aveva forato la copertura in cemento ed era esploso al suo interno, provocando in un solo colpo ben 42 morti, il forte Verena venne abbandonato mentre il forte Campolongo venne smobilitato. Entrambi, comunque, finirono in mano austriaca in occasione dello sfondamento del fronte nel maggio 1916, e vi rimasero fino alla fine della guerra. Seguirà il periodo più nero e tragico dell'intera storia di Rotzo e dell'Altopiano, che diventerà per quattro lunghi anni un immane campo di battaglia, con le popolazioni civili costrette al profugato e disperse, quasi un esodo biblico, in ogni parte del Regno d'Italia. Barbarano Vicentino divenne sede provvisoria dell'Amministrazione comunale, come Noventa lo fu per Asiago e Poiana per Roana. La preoccupazione dei soldati altopianesi al fronte divenne angoscia al pensiero delle proprie famiglie costrette ad affrontare l'incognito, oltretutto prive dell'aiuto e della protezione dei loro uomini. Fosse almeno possibile rimanere uniti! Numerosi furono i soldati di Rotzo morti nei vari campi di battaglia, successivamente ricordati nello splendido monumento ai caduti, inaugurato nel 1922 e costruito dai fratelli Stefani, artisti impareggiabili nella lavorazione del marmo; anche fra la popolazione civile ci furono perdite, che nessuna lapide, purtroppo, ricorderà mai. Al loro ritorno in Altopiano le popolazioni profughe dei 7 Comuni non troveranno più i loro boschi, tagliati per le esigenze degli eserciti o distrutti dai bombardamenti, non troveranno più i pascoli né i prati né i campi, sconvolti dalle esplosioni e disseminati di crateri; sopratutto non troveranno i loro paesi, le loro case, le loro chiese, i loro affetti frettolosamente lasciati nelle abitazioni al momento della partenza, in obbligo agli ordini ricevuti, perché si doveva partire in fretta, con il minimo indispensabile, lasciando aperte le porte delle case. Entro pochi giorni, così garantivano le regie autorità, si sarebbe ritornati, ma purtroppo mai previsione si rivelò tanto sbagliata. Quattro anni di guerra, a dirla con le parole di Mario Rigoni Stern, avevano distrutto anche le macerie. A Rotzo pressoché tutte le case erano demolite dai bombardamenti e solo qualcuna, più fortunata, era solo gravemente danneggiata; stessa sorte toccò anche alle contrade di valle Pedescala e San Pietro, all'epoca frazioni di Rotzo, entrambe rase al suolo. I boschi comunali, che rappresentavano, oltre che il sostentamento, anche il vanto e l'orgoglio dei rotzesi, erano quasi tutti distrutti, dato l'enorme numero di ordigni bellici, di ogni calibro e dimensione, compresi quelli caricati a gas, esplosi su ogni palmo di terreno. Le disgrazie, si sa, non vengono mai sole e al peggio non c'è mai limite: così successe che l'enorme massa di legname schiantato o divelto al suolo creò le condizioni ideali per la diffusione di un insetto parassita degli abeti, il bostrico, che negli anni successivi al conflitto fece strage delle piante sopravvissute alla guerra, per cui la perdita del patrimonio boschivo fu quasi totale. Nella primavera del 1919, dopo una sbrigativa bonifica bellica operata dal Genio Militare, iniziò la ricostruzione dei paesi e la rimessa a coltura dei campi, sconvolti e distrutti. La Grande Guerra decretò, fra le altre cose, anche la fine della lingua cimbra, fino a quel momento correttamente parlata a Rotzo e in vari paesi dell'Altopiano. Durante il profugato, alla popolazione civile era severamente proibito esprimersi in quell'antico idioma, perché ritenuto troppo simile alla lingua del nemico! e gravi avrebbero potuto essere le conseguenze per chi trasgrediva! Il profugato rappresenta il periodo più triste per la storia dell'Altopiano, con le popolazioni civili costrette ad abbandonare in fretta il poco che avevano per andare, malviste e trattate con sospetto, quasi fossero la causa dello sfondamento del fronte, ad affrontare l'ostilità di una popolazione fortemente prevenuta nei loro confronti dalla propaganda di guerra. Dispersi in mille località diverse, costretti quasi ad elemosinare il sussidio di Stato, i profughi, formati essenzialmente da donne, bambini e vecchi, molti dei quali morirono per età o crepacuore nei paesi ospitanti, riebbero stima e ammirazione solo quando l'odiosa cortina di prevenzione nei loro confronti si sciolse e la gente capì il loro dramma. Alla comunità di Barbarano Vicentino e a tutte quelle che ospitarono e in qualunque modo aiutarono le famiglie di Rotzo va tutta la nostra riconoscenza. Con la ricostruzione del paese e la bonifica dei campi da tutte le scorie che la guerra vi aveva lasciato, si ritornò alla vita di sempre, ai problemi di sempre. L'economia, di stretta sussistenza, non garantiva a tutti il necessario per vivere; gli uomini validi ripresero così la via dell'emigrazione cercando fortuna in vari paesi europei o in America. Molti, anche a Rotzo, intrapresero il nuovissimo e quanto mai pericoloso mestiere di recuperante, trovando sì il modo di sfamare la propria famiglia ma concedendo anche alla guerra la possibilità di prolungare i propri effetti distruttivi anche in tempo di pace. Ma l'Europa era nuovamente inquieta, quasi non fosse ancora paga di tutto il sangue versato. Nuovi movimenti, nati sull'onda della rivalsa e dell'astio dei paesi sconfitti e umiliati, cominciarono a diffondere teorie che non promettevano niente di buono e che di lì a poco avrebbero fatto ripiombare il mondo in un altro devastante conflitto. Nuovamente a Rotzo ci furono madri in preghiera per i propri figli chiamati a combattere in tutti i fronti d'Europa e d'Africa e nuovamente i regi carabinieri, assieme ai dispacci con i nomi dei caduti, portarono lutto e disperazione fra le famiglie. L'epilogo del conflitto fu anche peggio, si trasformò in guerra civile e vide italiani scontrarsi con altri italiani. Era nata la resistenza e Rotzo divenne il territorio operativo di formazioni armate della divisione di ispirazione comunista “A. Garemi”, a differenza della restante parte dell'Altopiano dove operava invece la divisione alpina “Monte Ortigara”, più vicina ai cattolici. Furono anni difficili, con rastrellamenti, arresti e deportazioni da parte delle brigate nere (alcuni fra i deportati finirono nei campi di concentramento tedeschi) a cui si contrapponevano sabotaggi e requisizioni operati dai partigiani, che arrivarono anche a rapire e assassinare, era la notte fra il 24 e 25 luglio 1944, il podestà di Rotzo Spagnolo Matteo e il vice segretario comunale Pellizzari Giuseppe. Fu un fatto gravissimo, fra l'altro del tutto trascurato dalla storiografia ufficiale, in conseguenza del quale gli uffici comunali furono trasferiti nel più sicuro municipio di Asiago. La guerra stava ormai per finire ma il 26 aprile 1945 un attacco partigiano ad una colonna di soldati che scendeva da Castelletto a Pedescala, erano truppe russe al comando di ufficiali tedeschi, preparò le condizioni per scatenare la rabbia delle truppe naziste. Quello stesso attacco costò anche la vita a due giovani partigiani di Rotzo, Stefani Alfeo e Dal Pozzo Matteo, che perirono per l'esplosione del mortaio con il quale stavano sparando. Il 30 aprile un altro proditorio quanto inutile attacco colpì le colonne di tedeschi in ritirata lungo la Valdastico: quella che ne scaturì non fu una rappresaglia ma un'orrenda strage che distrusse un paese e marchiò d'infamia gli esecutori, che si accanirono come belve sulle inermi popolazioni civili. Dopo tre interminabili giorni, tanto durò l'eccidio, si contarono i caduti: 63 furono i martiri di Pedescala, 19 quelli di Forni e Settecà. I superstiti e coloro che riuscirono a sfuggire al massacro trovarono proprio nelle case e nelle famiglie di Rotzo sostegno e rifugio sicuro. Il comune di Rotzo aiutò le sue ex frazioni anche nei momenti successivi, fornendo il legname per la ricostruzione delle case bruciate. Ritornata finalmente la pace, a Rotzo riprese la vita. Si ricominciò a emigrare, tanto per cambiare, e fra le mete questa volta si inserì anche l'Australia, dove i nostri emigranti, temprati ad ogni fatica, si fecero stimare e benvolere. Degna di essere ricordata, sia per la singolarità dell'evento che per il clamore che suscitò all'epoca sulla stampa e nella televisione, fu l'amministrazione che governò il paese dal 1964 al 1970: il consiglio comunale era infatti formato da sole donne. Sarebbe un fatto straordinario anche adesso, in epoca di emancipazione e parità di diritti, ma se pensiamo al ruolo della donna in quegli anni - da nemmeno un ventennio godevano del diritto di voto - è da rimanere veramente stupefatti. Carla Slaviero, di professione insegnante elementare, riunì un gruppo di otto donne e con l'appoggio della DC Provinciale presentò una lista alle elezioni amministrative del 1964, diventando così il primo sindaco donna di Rotzo. Non c'erano liste concorrenti in quanto gli uomini preferirono defilarsi per opportunità politiche, considerando auspicabile l'arrivo di un commissario prefettizio, l'unico in grado, a loro parere, di gestire la difficile situazione finanziaria del momento e l'annosa questione della comproprietà con le ex frazioni di S. Pietro e Pedescala. Proprio durante il suo mandato, infatti, il sindaco Slaviero ebbe il merito di chiudere la vertenza inerente la proprietà del patrimonio silvo-pastorale, conclusasi nel 1967 con la salomonica sentenza Terracina che attribuiva la quota del 50% al comune di Rotzo e del 50% alle sue due ex frazioni S. Pietro e Pedescala. Il resto è cronaca dei nostri giorni.

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