Noi, già rotti, siamo indistruttibili.
Me lo diceva sempre il nonno, mentre lo osservavo preparare i suoi sabot all'alba. Quei vecchi zoccoli di legno, consumati da anni di risaie, erano come una seconda pelle per lui. Li teneva accanto al letto come reliquie, e ogni mattina compiva lo stesso rituale: prendeva una manciata di paglia fresca dal fienile, la sistemava con cura all'interno, modellandola con le dita fino a creare un nido per i suoi piedi provati dal tempo.
"Vedi," mi diceva mentre infilava i piedi negli zoccoli malandati, "questi sabot hanno più storia di tutti i libri che tieni nello zaino." E rideva, con quella sua risata che sembrava il crepitio del legno nel camino.
Il rumore secco del legno sul terreno scandiva i suoi passi lungo gli argini delle risaie vercellesi, mentre io, bambino di dieci anni, cercavo di tenere il suo passo, affascinato dal ritmo di quel concerto rustico.
Le crepe nel legno degli zoccoli erano come le rughe sul suo viso, raccontavano storie di albe gelide e tramonti infuocati, di raccolti abbondanti e stagioni avare. A volte, quando l'acqua era troppo alta, gli zoccoli galleggiavano appena, e lui sembrava camminare sulle acque come un santo contadino, con la paglia che sbucava dai bordi come un'aureola sgualcita ai suoi piedi.
"La paglia negli zoccoli," mi spiegava con la sua voce roca, "è come la pazienza nella vita. Ne metti un po' ogni giorno, e ti aiuta a sopportare il peso del cammino." Si fermava spesso, si chinava a toccare l'acqua con quelle dita nodose che parevano rami di una quercia antica, mentre gli zoccoli si impregnavano dell'umidità delle risaie.
Ricordo il rumore dei suoi passi sul legno della balconata, quando rientrava la sera: tac-tac-tac, un rosario di suoni che annunciava il suo ritorno.
Si sedeva sulla soglia, si sfilava gli zoccoli con la reverenza di chi maneggia oggetti sacri, e la paglia umida cadeva a terra come i pensieri della giornata.
Una sera mi mostrò una crepa particolarmente profonda in uno degli zoccoli. "Questa," disse accarezzandola come si accarezza una cicatrice, "è del gelone del '63. Un inverno così duro che il legno stesso piangeva. Ma vedi? Lo zoccolo non si è spezzato. Si è solo segnato, come noi."
Ora, quando ripenso a quelle parole - noi già rotti siamo indistruttibili - rivedo i suoi sabot, quelle povere scarpe di legno che erano più di semplici calzature. Erano la testimonianza vivente di una verità antica: che la forza non sta nell'essere intatti, ma nel continuare a camminare nonostante le crepe, con un po' di paglia a cuscinetto tra noi e le durezze della vita.
Il nonno se n'è andato in una giornata d'autunno, quando le risaie si tingono d'oro e il cielo sembra più vicino alla terra. I suoi vecchi sabot sono rimasti, come sentinelle silenziose di un tempo che non torna. E ogni volta che la vita mi mette alla prova, sento ancora l'eco dei suoi passi sul legno, quel tac-tac-tac che mi ricorda che siamo come i suoi amati zoccoli: segnati dal tempo, rattoppati dalla vita, ma proprio per questo indistruttibili.
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