lunedì 26 agosto 2024

Fén

[Gianni Spagnolo © 24H4]

Questa foto è fortemente evocativa d’un mondo perduto e riaccende i ricordi, sbiaditi dalla fanciullezza, di chi quella civiltà l’ha vista spegnersi nei suoi ultimi sussulti. L’immagine coglie un istante di vita rurale nella Carnia del secolo scorso, ma potrebbe essere stata presa in un qualunque posto della nostra fascia prealpina. Da noi, forse, emergerebbe qualche angolo del tarlisòn e le naéje sconte intà i fastùghi, ma uguali il contesto e la fatica di vivere che esprime. Uguale il peso sostenuto dalle donne, col marito emigrato o al fronte. Uguale l’attenzione all’economia delle piccole cose, dove ogni risorsa, azione e sforzo era costantemente rivolta all’utilità. Il dovere anteposto al piacere e l’utile all’improduttivo, sempre e dopo ancora!

Indefinibile l’età che potevano avere queste due donne soverchiate dall'ingombrante fardello. Paiono anziane, ma gli abiti non danno molti indizi; nella loro monotona austerità feriale, potevano abbigliare tanto la sposa che la vedova. Ai piedi sicuramene gli scalsaròti, che in Carnia chiamavano scarpéts.

Le destinatarie di quella provvista di cibo saranno state probabilmente delle capre, più che delle vacche, e chissà in quali remote èrte era stata falciata ed essiccata. Galìne, cuniji, cavra e mastcio: erano questi gli animali di casa, ospiti necessari di ogni famiglia. Insieme agli orti e ai magri campi davano origine ad un’economia parallela di autoconsumo e sussistenza che si affiancava, e spesso sostituiva, quella ufficiale basata sulle palanche. Erano tempi in cui servizi e prestiti si pagavano con trì ùvi, on conejo, on salado, dó vérde, na sesta de patate o na gaja de ùa,  a seconda dell’entità e delle possibilità. Talvolta bastava anche il richiamo alla misericordia eterna: Che Dio ve ne renda merito!

Fémene di prima mattina a far erba pai cuniji drìo i stròdi, col saco in man e la sésola infilà dadrìo, intéle stringhe del gronbiàle. In scalsaròti dó pai Salti, col tarlisòn de farléto. Oltra ai Àldare a cavar pavio e sapàr patate, ... su par le vanéde col dérlo. Funzionò così, e lo fece per secoli e secoli, plasmando il nostro retaggio. Un paio di generazioni ci separano da questo quadro, due generazioni soltanto, in cui il nostro mondo è cambiato vorticosamente come mai prima d’ora nella storia dell'umanità, togliendo tante precarietà, ma generandone altre e più subdole. 

Forse pensiamo che la tecnologia ci protegga dalla Natura, ma mi sa che quest’ultima ha molta più esperienza e pazienza da spendere. Aspetterà la prima catastrofe energetica per vederci tornare ai tempi antichi, a copàr i pioci coi pìchi. Solo che allora non ci sarà forse più nessuno capace di seminar patate o bruscàr viséle, neppure copàre on conejo. Basta aspettare che spariscano anche i libri, ed è cosa fatta!


6 commenti:

  1. Guardo molto triste i nostri, una volta bellissimi prati dellAstico.

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  2. Sempre bellissimi i tuoi racconti Gianni! Era da un po' che mancavi.

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  3. Bella rievocazione di altri tempi con la visione della natura e sue buone pratiche colme di affetto e felicità.Purtroppo in questo secolo l'uomo compie" passi da gigante "con guerre continue e conquiste spaziali sempre più avanzate dimenticando se stesso e la culla di origine che se bene coltivata può rispondere al ogni aspirazione umana.

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  4. Incredibile e ammirevole come tu riesca a ricordare e rievocare quei tempi che rivedo uguali, per merito tuo grazie.E' sempre un piacere leggerti,

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  5. Complimenti Gianni. Hai una dote straordinaria di raccontare i tempi andati, rievocando quelle parole in dialetto stretto, che , quasi quasi non ricordo più, nonostante la non più giovane età. Grazie

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  6. Sempre bravo el Koscri gi

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