Alcuni Volontari si stanno prendendo cura della pulizia e dell'abbellimento di Contra' Lucca, in attesa del passaggio della sfilata del ritorno dal bosco.
sabato 30 settembre 2023
L'angolo della Poesia
Lo avrai capito
sono predisposta alla malinconia,
al vago sentire che non so spiegare
e a tratti mi fa stare bene
perché la luce ha un'altra luce,
la solitudine mille solitudini,
i contorni sfumati in arrendevoli attese.
Ma tu non demordere,
ho slanci d'ironia sorprendenti,
fulminei arcobaleni su cieli piovosi,
affondi di allegria...
Lo avrai capito,
io come te...
sono predisposta alla malinconia.
Francesca Stassi
venerdì 29 settembre 2023
L'intimo
L’intimo è ciò che si nega al pubblico per concederlo solo a chi si vuol far entrare nel proprio segreto profondo. Il pudore, che difende la nostra intimità, difende anche la nostra libertà. Non è una faccenda di vesti, sottovesti o abbigliamento intimo, ma una sorta di vigilanza, dove si decide il grado di apertura e di chiusura verso l’altro.
Ma contro tutto ciò soffia il vento del nostro tempo che vuole la pubblicizzazione della propria intimità, perché in una società consumista, dove le merci per essere prese in considerazione devono essere pubblicizzate, si propaga un costume che contagia anche il comportamento degli uomini, i quali hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra. Conformismo e consumismo hanno messo in circolazione un nuovo vizio che per comodità chiamiamo "spudoratezza", con riferimento non tanto a uno scenario sessuale, quanto al crollo di quelle pareti che consentono di distinguere l'interiorità dall'esteriorità, la parte "privata", "intima" di ciascuno di noi dalla sua esposizione e pubblicizzazione.
Ciò produce una metamorfosi dell’individuo che ormai si riconosce solo nella propria immagine, e perciò non cerca più se stesso. I nostri vissuti emotivi, che abitavano il segreto della nostra interiorità, dove domina il raccoglimento e il silenzio, ma forse anche la solitudine, le parole di preghiera, le parole d’amore, le parole d’amicizia, le parole di rabbia, le parole umane, hanno dovuto esteriorizzarsi come la pelle rovesciata di un serpente.
Umberto Galimberti-Il libro delle emozioni
Personalmente lo trovo di una tenerezza infinita...
Accoglienza
L’Alto Vicentino accoglierà 130 migranti con la “Tenda di Abramo”. “Costi non a carico dei Comuni”. Schio non firma il patto
20 Comuni dell’Alto Vicentino hanno sottoscritto il Patto per l’accoglienza diffusa in prosecuzione del progetto “Tenda di Abramo”, avviato per l’emergenza ucraina nel marzo 2022.Si tratta di Breganze, Caltrano, Calvene, Carrè, Chiuppano, Lugo, Malo, Marano Vicentino, Monte di Malo, Thiene, Valdastico, Valli del Pasubio, Velo d’Astico, Villaverla, Zanè, Zugliano, Posina, Salcedo e Sarcedo, oltre a Santorso – capofila. Il Patto, frutto della stretta collaborazione con la Prefettura di Vicenza, prevede la disponibilità di ogni amministrazione comunale ad accogliere richiedenti asilo fino a un numero pari al 3 x mille degli abitanti. E’ quella che viene chiamata tecnicamente la garanzia di salvaguardia, soluzione già sperimentata nei Comuni dell’alto vicentino nel 2016, e che oggi si ripropone come una buona pratica in grado di garantire la sostenibilità dell’accoglienza nel nostro Paese.
L’accordo prevede l’accoglienza di 130 persone: donne e uomini single, nuclei familiari, eventualmente monoparentali, con minori accompagnati dai genitori, accolti in appartamenti diffusi nel territorio, persone inserite in percorsi di accompagnamento ed integrazione nella comunità locale.
E’ la risposta che l’Alto Vicentino mette in campo di fronte al crescente fenomeno migratorio, in continuità con un impegno che dura ormai da più di 20 anni. Era infatti il 2000 quando iniziò il Progetto “Oasi” Sprar,/SAI per l’accoglienza, tutela, ed integrazione di richiedenti asilo e rifugiati.
“In tutti questi anni – racconta Franco Balzi, sindaco di Santorso, capofila del progetto – abbiamo seguito in modo efficace più di 800 persone in fuga dalla guerra o dalle persecuzioni, provenienti da ogni parte del mondo”. Il presupposto – precisa – è che il fenomeno migratorio non va subito, ma va invece gestito dai Comuni, che devono avere un ruolo diretto, e devono essere interlocutori privilegiati dello Stato e delle Prefetture. Non basta fare accoglienza, aggiunge: bisogna fare anche una buona integrazione”.
La Tenda di Abramo intende da una parte tutelare le donne, i bambini e gli uomini che arrivano anche nel vicentino dopo viaggi drammatici e molto sofferti; e al contempo offrire risposte sostenibili, che non alimentino le paure della popolazione locale.
“Il progetto – sottolinea ancora Balzi – è il risultato di una fitta interlocuzione intrapresa dal Prefetto Salvatore Caccamo, che ha visto il Vescovo Giuliano Brugnotto sensibile punto di riferimento. Di fronte a una situazione così complicata è decisivo il lavoro di rete sul territorio. In tale prospettiva, per favorire i percorsi di inserimento lavorativo, intendiamo coinvolgere fattivamente anche le associazioni di categoria e i sindacati”.
“Di fronte alle ipotesi di questi ultimi giorni, che propongono blocchi navali, respingimenti, tendopoli, Cpr (Centri per il rimpatrio), gli enti locali dell’Alto Vicentino rispondono dunque con pragmatismo, ribadendo che la risposta più efficace è quella dell’accoglienza diffusa, l’unica che questo può permettere una gestione ordinata e degna di un paese civile. Va sottolineato e chiarito, per evitare facili e inutili strumentalizzazioni, – conclude il primo cittadino di Santorso – che i costi dell’accoglienza non pesano sui bilanci comunali, essendo finanziati a livello ministeriale e che questi fondi non possono essere usati in altro modo. Nessun danno ai nostri concittadini e nessun privilegio ma, al contrario, piena applicazione del mandato costituzionale, che si traduce in un investimento di risorse a favore di tutto il territorio, tramite posti di lavoro, acquisto di beni e ampliamento di servizi di welfare”.
Schio, Fara Vicentino e Piovene Rocchette non hanno aderito al patto.
I consigli di Elettra
- Attenzione all'aria di casa -
L'aria di casa è spesso più inquinata di quella esterna.
Per questo viene consigliato di areare spesso i locali, anche d'inverno, anche se fa freddo.
Il carico di elementi estranei e tossici sono molti e derivano da:
- tessuti, divani, tappeti
- detersivi, ammorbidenti
- mobili, vernici
- plastiche usate
- strumenti elettronici
- detergenti, profumi
Per migliorare e 'profumare' l'aria di casa è opportuno usare solo oli essenziali.
Con i diffusori a ultrasuoni o altri strumenti è facile diffondere nell'aria queste gocce aromatiche che possiedono anche proprietà terapeutiche.
È importante scegliere solo oli essenziali naturali, puri, non tagliati, non adulterati.
Un olio essenziale integrale e puro viene riconosciuto dal corpo come erba o pianta o frutto, è sicuro ed innocuo.
Questo riconoscimento come molecole 'naturali' è importante per evitare di aumentare il carico tossico a cui siamo continuamente esposti.
Specialmente per le persone che passano in casa molto tempo come anziani o bambini e anche perché i loro processi "depurativi" sono insufficienti o lenti o carenti.
Gli oli essenziali da diffondere in casa possono essere:
- balsamici, per migliorare la respirazione (eucalipto, abete, ravintsara, pino)
- rilassanti, per creare un ambiente accogliente (geranio, legno di rosa, litsea, mandarino, arancio)
- tonici, per studiare (bergamotto, limone, menta)
Porre nel diffusore 5-8 gocce di un'essenza o un mix di essenze, e ricaricare 2-3 volte al dì.
Come scegliere?
Annusando.
Perché il nostro naso possiede un contatto diretto con la mente ed è tramite le sensazioni che una miscela ci fa esperire che scegliamo.
Ognuno di noi ha la sua storia, le sue memorie che rispondono ad aromi specifici.
Scegliere è dare voce al nostro vissuto, alle esperienze e sensazioni che ci hanno formato, è dare voce alla nostra anima.
Elettra Erboristeria
Cornedo Vicentino
giovedì 28 settembre 2023
El clintòn
Il Clinto non è un’uva europea e la sua coltivazione è proibita. Venne infatti importata in Europa durante il XIX secolo dall’altra sponda dell'Atlantico. All’inizio, le nuove viti americane, come l’uva Fragola (anche detta Isabella) della Vitis labrusca, riscossero molto successo. I botanisti le studiavano e i produttori europei iniziarono a piantarla. L’orribile minaccia della filossera della vite – che fece stragi tra le vigne d’Europa – aumentò l’uso delle specie d’origine americana resistenti all’insetto e l’ibridazione. Fu così che nacque, verso la fine del 1800, il Clinto, anche detto Clintòn, Grintòn, Grinto e Bacò: un ibrido nato da Vitis labrusca e Vitas risparia.
L'arrivo in Europa della filossera fu una delle calamità naturali più gravi dell'agricoltura, un animaletto parassita micidiale, che si nutre delle radici delle viti e che, una volta attaccato un vigneto, lo distrugge completamente. Dalla Francia si estense rapidamente, arrivando fin da noi e distruggendo i vigneti. I vitivinicoltori le tentarono tutte, ma senza successo. Finalmente il professor Planchoin di Montpellier ha la giusta intuizione: quella "peste" arriva dalle Americhe e laggiù le piante delle viti hanno già sviluppato da secoli efficaci armi di difesa. Anche qui da noi parte la corsa al trapianto di radici di "vite americana", sulle quali innestare i vitigni desiderati.
Il vino è salvo!
Ma la storia dei vitigni europei era ormai compromessa e molte varietà autoctone scomparvero. Ci vollero anni e anni per trovare i giusti innesti e gli ibridi di specie americane e, successivamente, altri ibridi di specie americane con specie europee. Il Clintòn è aromatico e spesso porta in sé il sapore delle fragole di bosco e dei frutti rossi. I produttori europei iniziarono presto a usare questa vite molto resistente per produrre vino da tavola dal colore tipicamente rosso scuro. In Italia attecchì soprattutto in Veneto. In Francia riscosse successo nelle regioni meridionali dell’Ardèches e sulle colline ai piedi delle Cevenne. In Austria furono i contadini del Burgenland a farlo proprio. Fu proprio al sua popolarità a decretarne la proibizione.
Dai primi del ‘900 il Clinto iniziò a farsi una cattiva reputazione. I suoi detrattori puntavano il dito sul fatto di non essere nativo d’Europa giocava a suo sfavore, sulla necessità di mantenere le tradizioni e il prestigio dei cultivar autoctoni. Le viti americani erano giudicate di qualità inferiore, e si arrivò a scrivere che erano potenzialmente tossiche. Dicono che la cattiva vinificazione e la presenza nelle bucce di sostanze tossiche, oltre al valore tannico molto elevato, rendesse nocivo questo vino, se assunto in dosi eccessive. Da qui il divieto di commercializzazione del vino prodotto con questa uva, la legge italiana impose l'estirpazione della vite, ma mancò un decreto applicativo. Così il Clintòn è oggi quasi scomparso, ma gode di grande popolarità tra i conoscitori, perché “piccole quantità ad uso familiare" sono tutt'oggi tacitamente consentite.
Il governo austriaco fu il primo a proibire le specie americane, vietando la coltivazione di Clinto, Isabella, Noah, Othello, Jacquez e Herbemont, tutte viti americane. Le proibizioni seguirono in Italia nel 1931, in Francia nel 1934, in Germania e Spagna nel 1935. Poco dopo la guerra, nel 1955 le autorità francesi imposero l’estirpazione dei vitigni, e nel 1979 l’Unione Europea introdusse ulteriori restrizioni, che interessava tutti gli stati membri, rendendo illegale la produzione di vino dalla Vitis vinifera. Meno di un decennio dopo, si cercò di sradicare completamente le viti americane dal suolo europeo: tra il 1988 e il 1993 più di 300 000 ettari di Clinto furono sradicate in Italia (soprattutto settentrionale) e in Francia, in seguito a politiche che pagavano i viticultori per sradicare le viti americane. Nel frattempo ci si dovette accontentare di produrre un vino aspro, particolarmente intenso e grezzo, dal colore viola/rosso intenso. Un vino che macchia irrimediabilmente la tovaglia, lascia una traccia densa nelle bottiglie e sui bicchieri, segna la scuela, la tazza di ceramica bianca dove il contadino beve il clintòn.
mercoledì 27 settembre 2023
L'angolo della Poesia
Ho sentito i tuoni arrivare da lontano,
poi avvicinarsi ed esplodere nel cielo
davanti la mia finestra a picco
sulle solite malinconie del sabato sera,
quando è ancora tutto da decidere
e la pioggia, fresca, musicale come non mai,
decide per me.
Sto immobile a guardarla,
sorpresa
come un'amica che non vedo da tempo
e che ora è qui.
I tuoni insistono a farsi largo tra le nuvole,
spezzano il rumore della pioggia, i pensieri
a mezz'aria, le ore nel cambio improvviso
e provvidenziale.
Respiro l'odore della terra bagnata,
l'asfalto della strada lucidato a nuovo,
il vento passare da porta a porta
e ancora la pioggia
forte
decisa
sul pomeriggio lungo da passare.
La casa è un nido vuoto,
di più quando piove.
Francesca Stassi
martedì 26 settembre 2023
Francesco Vidotto
“nascere e morire: un unico punto. L’inizio e la fine di un cerchio, e tutto attorno… è magia”...
LA PRIMA ETA’
Il padre Gianni è direttore di un’azienda che opera nel settore del giardinaggio, mentre la madre Angela è insegnante di geografia economica presso un istituto superiore.
Trascorre i primi anni di vita a Tai di Cadore, con i nonni materni, mentre i genitori sono impegnati al lavoro.
All’età di cinque anni gli capita di affrontare la sua prima scalata: l’ascesa alla cima del monte Ciareido in Marmarole.
Per frequentare le scuole elementari, si trasferisce a Conegliano. Vive in città durante i giorni della settimana e ritorna nei pascoli, tra le montagne, tutti quanti i weekend e le ferie.
A quattordici anni s’iscrive al liceo scientifico Marconi, sempre a Conegliano, e lo porta a termine con fatica.
Trascorre i pomeriggi a suonare il blues con la sua chitarra elettrica Gibson Es-335 – (Lucille): vuole vivere di musica e spesso le persone che lo vedono ciondolare in città con i capelli lunghi e il giubbotto di pelle scuotono la testa.
Lui sorride.
Sono più i giorni che trascorre al bar con gli amici che quelli in aula.
“fare musica è facile, il difficile è viverla“
Si avvicina alla narrativa per caso quando, un pomeriggio di primavera, legge “la storia infinita” di Michael Ende.
“Ero poco più che bambino e avevo visto il film. Per me all’epoca i film erano droga e lo sono ancora. Allora ho comperato il libro ed è stato amore”.
Inizia a divorare volumi su volumi arrivando a leggere, nei soli anni di liceo, più di centocinquanta libri.
In quel periodo fonda con il chitarrista Simone detto Bibo, il fratello batterista Alberto, il bassista Riccardo, un gruppo rock blues dal nome “I maleducati”, destinato a sciogliersi cinque anni più tardi a causa di un dissapore tra i musicisti.
“Era una notte come un’altra e ne avevo bevute un bel po’ e per un niente me la sono presa con uno della band e abbiamo litigato pesantemente. Troppo pesantemente e l’avventura si è sciolta e con lei anche un bel po’ di sogni e prospettive. Questa storia mi ha insegnato che, a volte, per un niente… muore qualcosa”.
Partecipa come cantautore alle selezioni per il premio Tenco e per il festival di San Remo con un pezzo dedicato ai nonni, senza ottenere risultati degni di nota.
“La musica è un linguaggio universale. Vibrazione. E’ questo che mi fa impazzire. Il libri sono gelosi delle canzoni. Gelosi da morire”.
L’ultimo anno di liceo, innamoratosi delle parole altrui, decide di provare a scriverne delle proprie, mettendo insieme un romanzo dal titolo “Alter Ego” e riponendolo nel più basso cassetto della sua scrivania e subito dopo un secondo breve romanzo dal titolo “Il selvaggio”.
Quando non legge inizia a rincorrere l’adrenalina nello sport estremo. E’ una maniera di sentirsi al centro, senza bisogno di altra gente. Al centro di sé stesso.
“Devo sentirmi vivo e mi sento vivo nei libri, perché lì riesco a confrontarmi con me stesso, e nella musica, che mi fa vibrare e mi sento vivo quando sono a contatto con questa terra. Non è colpa mia se gran parte del pianeta è profondità e vertigine. Ho dovuto adeguarmi. E poi lassù, sui picchi, sono a casa. Ha imparato a scalare prima ancora che a camminare”
E’ istruttore di subacquea, pratica lo sci alpinismo, il free ride, l’arrampicata, l’equitazione ed il trekking. Sale gran parte delle vette delle dolomiti Ampezzane, sempre in compagnia del fratello Alberto.
“Del mio rapporto con la montagna non ho nulla da dire. E’ una faccenda privata. La montagna è femmina: se l’affronti con gentilezza ti lascia passare altrimenti ti sbarra la strada.
A parer mio non esistono gradi o difficoltà. Solo il piacere di trovare un appiglio messo al posto giusto dalla roccia. Solo il piacere di scendere un canalino di neve impossibile.
Non esiste competizione. Amore piuttosto. Amore e la paura di rimanerne ucciso da questo sentimento senza confine. Nient’altro”.
Nel 1998 è chiamato alle armi e svolge il servizio militare come Caporale Istruttore presso la caserma Salsa, al 16° reggimento Alpini di Belluno. In questo periodo sviluppa alcune tra le amicizie più significative della sua vita.
“La naja mi ha insegnato ad amare un cappello per quello che rappresenta. Credo non sia poca cosa”.
Spinto dalle circostanze si iscrive alla facoltà di Economia e Commercio presso l’università Ca’ Foscari di Venezia. Porta a termine il corso di laurea in quattro anni facendo il pendolare tra Conegliano, Venezia e le Dolomiti. Il tragitto in treno gli è utile per continuare a leggere e scrivere. Durante l’università viaggia molto assieme alla sua famiglia visitando gran parte del pianeta.
“Il viaggiare con gli occhi aperti è cultura e la cultura ti dà la possibilità di apprezzare e quindi accettare le differenze. Ti dà la possibilità di non giudicare. Amo il viaggio, molto meno il giudizio”
LA SECONDA ETA’
A metà dell’ultimo anno di università entra nella società di revisione di bilancio Deloitte & Touche Spa per redigere la tesi di Laurea.
Una volta terminati gli studi resta a lavorare per la multinazionale americana fino alla posizione di Senior.
Cinque anni più tardi acquista una società di consulenza finanziaria e di gestione d’azienda a Treviso e ne rimane proprietario per quattro anni sviluppandola in maniera molto importante e successivamente rivendendola.
A partire dal 2010 collabora con il più importante gruppo cartario privato italiano con il ruolo di General Manager di tre stabilimenti tra i più grandi del paese.
“Tutti a chiedermi: ma come riesci a dedicarti al lavoro, ai libri e allo sport? Beh, non è questione della quantità di tempo che dedichi, ma dell’efficienza organizzativa che riesci a mettere in piedi per raggiungere gli obiettivi e soprattutto di come riesci a valorizzare il lavoro dei collaboratori. In special modo questo: valorizzare il lavoro altrui perché ho avuto modo di appurare che in molti sono davvero più bravi di me”.
Un bel giorno e qualche anno più tardi capisce che la carriera gli mangia la vita: la vita e il tempo. Decide così di ritornare in Dolomiti, nella casa che i nonni gli hanno lasciato e di dedicarsi alle sue storie.
“Preferisco avere nel taschino un paio d’ore libere che il portafogli gonfio”.
Offre ancora qualche consulenza ad un unico importante imprenditore italiano.
“Lui è un personaggio pazzesco e mi ha trattato bene quando le cose andavano storte. Questa non è una faccenda che si può scordare per cui, se serve, ci sono”.
Nel corso degli anni di lavoro accade l’avventura dell’editoria.
Nel 1995 i casuali incontri con il famoso regista Italiano Pupi Avati e con lo scrittore Mauro Corona lo portano a decidere di spedire un breve romanzo dal titolo: “Il selvaggio” ad alcune case editrici.
L’unica risposta arriva nel 2005, dieci anni più tardi, da parte dell’editore Carabba di Lanciano. Subito dopo “il selvaggio” pubblica “Signore delle Cime” – Carabba 2007.
Nel 2010 scrive “Siro” e, per farlo leggere da un editore importante si finge pastore.
“In questo paese figlio della cultura, gli editori non leggono un manoscritto a sputare il sangue. Ti lasciano lì a marcire nel silenzio”.
Il romanzo esce nel 2011 per Minerva, partecipa a tre premi letterari e li vince tutti e tre. Successivamente esce “Zoe” – Minerva 2012 e a seguire “Oceano” – Minerva 2014.
“Siro” e “Oceano” sono due piccoli miracoli nel mercato italiano degli editori indipendenti vendendo, solamente grazie al passaparola, un numero di copie da far invidia alle major.
Nel 2016 lo scrittore Mauro Corona, colpito dalle storie di “Siro” e di “Oceano”, lo mette in contatto con l’editor della narrativa italiana di Mondadori.
“dovrebbero leggerli libri come i tuoi” dice.
Pochi giorni più tardi Francesco viene contattato telefonicamente da Marilena Rossi la quale gli chiede se ha qualcosa di nuovo da sottoporle.
La telefonata è infinita.
“Ha parlato a lungo con lei. Non mi interessava molto pubblicare con un gruppo editoriale di dimensioni gigantesche perché avevo avuto la fortuna d’incontrare Roberto Mugavero, un editore vero con il quale era nata anche una bella amicizia, ma sono stato colpito dalla sensibilità di Marilena, questo sì ed io ero alla ricerca di qualcuno che guidasse i miei personaggi con il cuore e ho avuto la sensazione che lei fosse la persona giusta.
Non me la sono sentita di lasciar scappare quel treno.
Volevo lavorare con lei.
Lo dovevo se non altro alle mie storie”
Così Francesco le spedisce un romanzo tutto nuovo: “Fabro”. Quattro giorni più tardi è di nuovo Marilena a chiamare.
“Ti invio il contratto se vuoi. Subito” – dice.
Così Fabro esce nel 2016 per Mondadori.
Ora Francesco spende la settimana scrivendo e andando per monti.
“La montagna, secondo me, è un tentativo del mondo di avvicinarsi a Dio. Lassù sei più buono e più umile e vedi la bellezza. Salendo in alto spesso mi è capitato di capire a fondo”.
“Amo scrivere storie. Mi piace l’invenzione e la finzione, ma la cosa che prediligo è cercare delle storie tra gli ultimi. Storie di vita, e regalare loro una dignità nuova e per sempre, raccontandole in un libro”
Vuole ritornare ad essere padrone del proprio tempo vivendolo in maniera umana, evitando di farsi travolgere dal vortice di impegni e scadenze che privano l’individuo della possibilità di gustare appieno il presente. Spera di incontrare una fata con le ali di farfalla.
“Se Peter Pan ha conosciuto Campanellino… non credo di poter essere da meno”.
Guarda le persone diritto negli occhi, stringe la mano con onestà e schiettezza, crede nella parola data.
“Ciò che sei è tutto quello che hai. Io, nel dubbio, dico quello che penso. Odio fingere. L’ho fatto per troppo tempo”.
LA TERZA ETA’:
Non è ancora arrivata e forse nemmeno arriverà.
“Crescere è una realtà. Diventare grandi è un’idea… una pessima idea”.
SAN ANTONIO DI PADOVA (dalla serie Capitelli di Pedescala)
L'angolo della Poesia
È un ricucire vecchie ferite
lo stare al mondo,
come sono fragili i punti di sutura
alle parole, i gesti, i luoghi,
gli odori che tornano a dirti
quello che sei stato,
dove e quando
- tuo malgrado -
hai vissuto e lasciato una parte di te.
Non lo sa nessuno
quanto pesa un ricordo
se non la memoria
che lo mette in evidenza
quando l'anima
non è ancora pronta.
Francesca Stassi
lunedì 25 settembre 2023
Mòcoli (2) El secèlo de otòn
[Gianni Spagnolo © 23H8]
I rituali si ripetevano sempre uguali, altrimenti non sarebbero stati tali; bisognava però apprenderli e saperli eseguire con abilità, precisione e decoro. I riti preconciliari prescrivevano che la posizione canonica del mòcolo a riposo fosse sempre con le mani giunte, ossia in atteggiamento ostentatamente devoto e orante. La fissa nel tenere le mani giunte era simile a quella che ci avrebbero inculcato, anni dopo, sotto naja, per tenere le mani a “penna”. Fare sempre l’angioléto era perciò assai impegnativo e spesso disatteso, ma bastavano le ocià del prete a riportarci all’ordine. In chiesa eravamo infatti costantemente all'occhio di celebranti e fedeli. Qualche maggior libertà si aveva tuttavia nelle uscite.
Si usciva per la benedizione pasquale delle case, a portare i oji, con le varie processiòn, funerali, ecc. Ma era soprattutto nelle Rogazioni di maggio, che ci sentivamo più a nostro agio. Le due uniche incombenze dei mocòli, che ovviamente vi partecipavano in massa, erano di portare la croce e il secèlo, ed entrambe compensavano il privilegio con l’essere però sotto controllo. Portare el secèlo con l’aspersorio significava star senpre tacà al prete, porgendogli l’accessorio nelle ripetute benedizioni ai campi. L’aspersorio era un bastoncino metallico, con una sfera cava e bucherellata alla sua estremità ed era immerso in un pesante secchiello di ottone pieno di acqua santa. Le rogassiòn si facevano da secoli sui strodi che portavano in campagna, verso i quattro angoli del paese. Era opportuno che nessun coltivo fosse privato di copiosa benedissiòn. Nosessamai! L’acqua benedetta doveva arrivare possibilmente su ogni vanèda, ogni patatàra, ogni frasca de téghe, e bagnare anca el fén. Sarà da lì che nacque il detto: Co tuto va ben, anca l'àcoa séca el fén! Dove non poteva fisicamente arrivare l’acqua benedetta, ci si consolava col fatto che na benedissiòn la passa sete muri. Anche se muri, nello specifico, non ce n'erano proprio, ma era confortante il concetto.
L’aspetto critico era proprio el secèlo: si partiva col contenitore pieno di acqua benedetta e bisognava star ténti a no spanderla. Spander partera l’àcoa santa, era sagrilegio! Data la forma bassa e larga del secchiello, e lo scorlaménto del grande e malfermo mànego, .. era un’impresa. Nar su par strodi e salìsi col secèlo, sensa spandere, a no jera pargnenete fassile, sahìo!
A fulgore et tempestate .. libera nos, Domine!
- E dó àcoa!
Ut fructus terrae dare et conservare digneris… Te rogamus, audi nos!
- E dó àcoa!
A peste, fame et bello, libera nos Domine!
- E dó àcoa!
Ab omni peccato… Ab ira tua… Ab insidiis diabuli… A spiritu fornicationis… A morte perpetua... Libera nos, Domine!
- E dó àcoa!
Nonostante tutte queste ampie abluzioni, l’aspersorio non riusciva a svuotare del tutto il secèlo e rimaneva sempre dell’acqua santa in fondo. Bujarla partera gnanca a pensarghe, per cui bisognava riportare il secchiello in chiesa e svuotarlo accuratamente nella pila dell’acqua santa. I portatori di croce e secchiello, dovevano quindi necessariamente rientrare in chiesa col prete. Nel contempo tutti gli altri mocòli, sbarazzatesi delle vesti e caricatele ai due porigrami, si dileguavano svelti per campi e vanède.
Il paio di mocòli porigrami rimasti dovevano quindi rientrare in piazza al passo del prete e delle veciòte della piassa che immancabilmente lo accompagnavano, attardandosi fra ciacole, litanìe e socolamìnti.
Poi le rogazioni sono state abbandonate, sono stati inventati gli aspersori con l’acqua incorporata, la borsa nera è stata sostituita dai bonifici bancari, il prete va in giro da solo, in borghese, con una stola che tira fuori solo all’ultimo momento, e anche il libro sembra stia lasciando il posto a qualche super efficiente supporto informatico. Ma questi sono altri oggetti. Questa è un’altra storia. Mi a resto al me poro secèlo!
domenica 24 settembre 2023
Due "Nonni" speciali
Tornare indietro con il tempo grazie a una fotografia, è veramente un viaggio che può aprirci i cassetti della memoria per spolverarne i ricordi.
Guardando vecchie foto a casa di mia mamma, mi sono imbattuta in un’immagine datata 1970, che mi ha fatto sorridere il cuore.
Luigi e Angelina erano arrivati a Pedescala insieme al figlio, don Romeo Martello, per stare con lui e occuparsi di tutto quello di cui aveva bisogno.
Una coppia con cui era piacevole conversare:
lei sempre sorridente curava i fiori in canonica, lui sfrecciava con la sua bicicletta alzando il cappello in segno di saluto, con chi incontrava.
Nonostante la mia giovane età, portando il latte in canonica ogni sera, avevo instaurato un bel rapporto con questi nonni speciali e spesso mi fermavo volentieri a chiacchierare.
Luigi frequentava casa mia perché se aveva bisogno di attrezzi o riparazioni, sapeva che mio papà era sempre disponibile.
Erano persone rispettose e miti e chi andava in canonica per qualsiasi bisogno erano sempre cordiali e affettuosi, specialmente con i nipoti di Roana, che spesso venivano in visita.
Guardando la foto, ho provato un’infinita tenerezza per i due nonni e ho pensato a quanta dedizione e rispetto hanno avuto per quel figlio sacerdote. Nonno Gigio e nonna Angelina sono rimasti per me un dolce ricordo e rivedendoli, li ho ringraziati per il tempo che sono stati nel mio paese e ho recitato per loro una preghiera.
Mi piace ricordare questa frase che ho letto in giro:
“Siamo tutti destinati a diventare un ricordo e ce ne dimentichiamo ogni giorno….”
Rimanere nel cuore delle persone non è scontato, ma a volte con un sorriso, un gesto, una parola, ognuno di noi potrà impegnarsi per cercare di diventare un ricordo importante, almeno per alcune persone.
Lucia Marangoni (Dàmari)
Pedescala 22 settembre 2023
Avvisi funebri (FC)
La ricordano i figli Luciana, Vivien, Leo e Marisa con le loro famiglie.
(l'avevamo ricordata il 19 luglio scorso con il post dei 100 anni!)
sabato 23 settembre 2023
Filosofia, cultura e...
La laurea in lettere? Le facoltà umanistiche? Non servono a nulla! Non danno lavoro!
Vedete, fin da quando ero una ragazza mi hanno rotto le scatole con questa cosa qua: che la cultura è inutile e che tanto non avrei trovato lavoro! Per tutta la vita mi sono sentita dire: «ma perché sprechi il tuo tempo dietro ai libri?» Oppure: «dovrai ridurti a fare l’insegnante». Perché a quanto pare essere un’insegnante viene visto come un lavoro di ripiego, come qualcosa che «ti riduci a fare perché non hai trovato di meglio».
Sì, perché in una società che va in visibilio davanti alle affermazioni di una Chiara Ferragni, che sa a malapena chi sia Leopardi, che crede che Moravia sia il nome di qualche strana malattia, la cultura non serve proprio a nulla! Anzi, è contro producente. Chi ha la cattiva abitudine di leggere e pensare, non si presta a obbedire senza porre domande, a omologarsi quando dovrebbe, ad assentire quando gli viene richiesto.
E sapete una cosa? In un certo senso avevano ragione. Perché se il tuo scopo nella vita è «lavorare, comprare, consumare», allora no, la laurea in lettere non ti sarà utile. Io non sono diventata ricca insegnando o scrivendo libri. Però, ed è questo che vorrei dire ai ragazzi, non scambierei la possibilità di fare ciò che amo con mille borse di Louis Vuitton o come diavolo si chiama, con mille macchine lussuose o qualche stipendio da capogiro. Essere un’insegnante secondo me è il mestiere più bello al mondo, perché se tu ci metti passione, «i ragazzi ti ripagheranno con uno stipendio che nessun altro mestiere dà: saranno degli innamorati del bene, della verità, della bellezza».
E a tutti i ragazzi che si sono appena iscritti alla facoltà di lettere, filosofia, storia, arte, psicologia o una di quelle altre facoltà che il mondo giudica inutili, voglio dire: non date ascolto ai consigli di quelli che vorrebbero rubarvi i vostri sogni! Perché abbiamo bisogno di voi. Abbiamo bisogno della vostra passione, del vostro amore, di uomini e donne capaci di mantenere intatta la curiosità e lo stupore.
G. Middei
Potenza del nome
[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...