domenica 31 gennaio 2021

La pagina della domenica




In quel tempo, a Cafàrnao Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: Egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.


La gente si stupiva del suo insegnamento, come quando nel deserto del sempre uguale ci si imbatte nell'inaudito. Si stupiva, e l'ascolto si faceva disarmato. E il motivo: perché insegnava con autorità. Gesù è autorevole perché credibile, in lui messaggio e messaggero coincidono: dice ciò che è, ed è ciò che dice. Non recita un ruolo. Autorevole, alla lettera significa “che fa crescere”. Lui è accrescimento di vita, respiro grande, libero orizzonte. Non insegnava come gli scribi...Gli scribi sono intelligenti, hanno studiato, conoscono bene le Scritture, ma le ascoltano solo con la testa, in una lettura che non muove il cuore, non lo accende, non diventa pane e gesto.

Molte volte anche noi siamo come degli scribi con noi stessi, ci basta accostare il Vangelo con la ragione, ci pare anche di averlo capito, spesso ci piace, ma l'esistenza non cambia. La fede non è sapere delle cose, ma farle diventare sangue e vita.

Gesù insegnava come chi ha autorità. Il mondo ha un disperato bisogno di maestri autorevoli. Ma noi chi ascoltiamo? Scegliamoli con cura i nostri maestri e con umiltà, camminando al passo di chi è andato più avanti. Da chi imparare? Da chi ci aiuta a crescere in sapienza e grazia, cioè nella capacità di stupore infinito. Dobbiamo scegliere chi dona ali. I maestri veri non sono quelli che metteranno ulteriori lacci alla mia vita o nuovi pa-letti, ma quelli che mi daranno ulteriori ali, che mi permetteranno di trasformarle, le pettineranno, le allungheranno, le faranno forti. Mi daranno la capacità di volare.

Nella sinagoga di Cafarnao ha luogo poi il primo miracolo. Un indemoniato sta pregando nella comunità, è un habituè del sabato. Ne aveva ascoltate di prediche... Si può passare tutta una vita andando ogni sabato in sinagoga, ogni domenica in chiesa, pregare e ascoltare la Parola, eppure mantenere dentro uno spirito malato, un'anima lontana che non si lascia raggiungere. Si può vivere tutta una vita come cristiani della domenica senza farsi mai toccare dalla Parola di Dio, senza che entri davvero a fare nuova la vita.

Belle e coinvolgenti le due domande che seguono: Che c'entri con noi, Gesù, con la nostra vita quotidiana? Tu sei nel rito della domenica, stai in chiesa, o nell'alto dei cieli; ma cosa c'entri tu con la nostra vita di tutti i giorni? Vuoi sapere se credi? Se questo ti cambia la vita. Sei venuto a rovinarci? La risposta è “sì!”: è venuto a rovinare le spade che diventano falci; è la rovina delle lance che diventano aratri, delle dure conchiglie che imprigionava la perla. «Mia dolce rovina» che rovini maschere e paure, e tutto ciò che rovina l'umano.

Padre Ermes Ronchi


LA FRASE:

Ogni mente crede che i propri limiti siano la realtà. 

Il rospo nel pozzo nega l'esistenza del mare .

MIX - di tutto un po'...



Un giorno una persona salì sulla montagna dove si rifugiava una donna eremita che meditava, e le chiese:

– “Cosa fai in tanta solitudine?”
Al che lei rispose:
– “Ho un sacco di lavoro da fare.”
– “E come fai ad avere così tanto lavoro? …non vedo niente qui…”
– “Devo allenare due falchi e due aquile, tranquillizzare due conigli, disciplinare un serpente, motivare un asino e domare un leone.”
– “E dove sono? …non li vedo…”
– “Li ho dentro.”
– “I falchi si lanciano su tutto quello che mi viene presentato, buono o cattivo, devo allenarli a lanciarsi su cose buone. Sono i miei occhi.”
– “Le due aquile con i loro artigli feriscono e distruggono, devo insegnare loro a non fare del male. Sono le mie mani.”
– “I conigli vogliono andare dove vogliono, scappano dall’affrontare situazioni difficili, devo insegnare loro a stare tranquilli anche se c’è sofferenza o ostacoli. Sono i miei piedi.”
– “L’asino è sempre stanco, è testardo, molto spesso non vuole portare il suo peso. È il mio corpo.”
– “Il più difficile da domare è il serpente. Anche se è rinchiuso in una gabbia robusta, è sempre pronto a mordere e avvelenare chiunque sia vicino. Devo disciplinarlo. È la mia lingua.”
– “Ho anche un leone. Oh… è fiero, vanitoso, crede di essere il re. Devo domarlo. È il mio ego.”
– “Come vedi, amico, ho molto lavoro da fare. E tu? A cosa stai lavorando?”.
Antica leggenda Zen
Foto di strannikfox

La fontana grande a Pedescala




Istantanea di fine '800 della FONTANA GRANDE di Pedescala, da notare l'elegante e lineare manufatto in marmo rosso di Asiago che in quel tempo gettava a un solo zampillo ed era con postura perpendicolare all'attuale, sicuramente per poter abbeverare più armenti in quel periodo molto più numerosi e vitali.

Sulla destra spunta il Capitello detto dei "Moji" dei quali si intravede il portone del casato, o dei "Tati" con la loro "palazza" sul davanti dello stesso. Fu eretto dai superstiti del tragico morbo colera che investì tutto il Veneto, il 25 agosto 1855 per grazia ricevuta "al Donator Supremo" (la fontana ebbe anche un suo importantissimo ruolo in quest'evento ma questa è un'altra storia).
All'inizio della "strada Vecia" ora via Asiago si nota l'elegante portone d'entrata della casa dei "nobili Menegatti" di Pedescala (ora abitazioni di altri proprietari) "Tituni, Tonai, Puncini, Mariani".
(Delmo Stenghele)

MIX: di tutto un po'...


Qualche anno fa ho avuto modo di fare la navigazione sul Lago di Garda e, giunta nei pressi di Limone, queste limonaie dismesse han attirato la mia attenzione. Non riuscivo proprio a comprendere cosa mai fossero... mi vergognavo un po' a dover chiedere, ma poi son stata costretta... di mio non riuscivo a comprendere. Credo che nel periodo del loro massimo splendore siano state veramente un'attrattiva da ammirare!







UNA STORICA LIMONAIA in TERRA VENETA!

L'antica serra dei Limoni si trova a Torri del Benaco, in provincia di Verona, ed è un ineguagliabile pezzo di patrimonio storico ed architettonico del Lago di Garda. Nel centro storico del paese, circondato da mura e torri medievali, sorge circondato da un panorama mozzafiato, il Castello degli Scaligeri e al suo interno troverete il prezioso giardino di Limoni che risale ben al 1760.

LE LIMONAIE SUL LAGO DI GARDA sono magnifiche ARCHITETTURE DI ALTRI TEMPI! Si dice che gli agrumi siano arrivati sulle sponde del lago di Garda all'inizio del Seicento. Una delle testimonianze si trova nella chiesa di Limone: un dipinto del 1658 raffigurante Sant’Antonio Abate, con i pilastri delle limonaie sullo fondo. Ma già a metà del 1400 alcuni letterati scrivevano dei “rami frondosi di limoni e di cedri” nei pressi Gargnano e pare che siano stati proprio quei frati francescani a coltivare i primi orti di agrumi. Il Garda rappresentò in passato la zona più settentrionale al mondo in cui si coltivavano gli agrumi a scopo commerciale. Ciò fu consentito non solo dalle favorevoli condizioni climatiche, ma anche dall'ingegnoso lavoro di copertura invernale che permetteva alle piante di superare indenni anche inverni molto rigidi.
DAL GARDA ALLA RUSSIA! Infatti gli agrumi partivano via acqua per poi risalire verso il Nord Europa, la Germania e la Russia.
Erano molto richiesti perchè godevano di costi e tempi di trasporto minori rispetto ai limoni del Sud Italia. Il periodo d'oro dell'agrumicoltura si ebbe nel sec. XVIII, periodo a cui risale anche la nostra serra, fatta costruire da Zeno Zuliani dopo l'abbattimento della seconda cinta muraria e l'interramento del fossato. Il declino di questa attività si ebbe già a partire dal secolo scorso, sia per la comparsa della gommosi, malattia letale per i limoni, sia per la raggiunta Unità d'Italia e la conseguente abolizione dei dazi d'importazione per i frutti provenienti dal Sud. Alcune annate particolarmente rigide (1905, 1929, 1985) dettero poi il colpo di grazia a tale coltura, che ora sopravvive in poche serre sulla sponda bresciana e, sulla sponda veronese.
(foto di Marco Corà)
da Veneto segreto

El cimbro sconto gazòget bor in oarn: Chìtele

Qui ci occuperemo delle parole del nostro dialetto che derivano verosimilmente dal Cimbro. Sono vocaboli dell'antica lingua rimasti nella nostra parlata corrente e che sono sopravvissuti divenendone parte. A volte adattandosi foneticamente, altre assumendo addirittura un significato diverso per allegoria.

La parola di oggi è:

  • Chìtele
  • Gonnellino, e per estensione vestiario leggero e striminzito.
Non ho trovato corrispondenze per questo vocabolo, ma richiama un po' il kilt scozzese, che a sua volta è voce di derivazione scandinava. 

Frase: Soncamì che te te giassi, con quel chìtele live. / É chiaro che hai freddo con quel vestitino lì.  

Ricordi di fantasia, angolo di Pedescala, gioco della tombola (di Laura Marangoni)

 


SNOOPY

 


sabato 30 gennaio 2021

Tanto per dire - Mariano Castello - granfati




 

MIX - di tutto un po'...




Saper ignorare è una forma di saggezza. Volendo essere più esatti, è saggio distinguere tra le cose di cui vale la pena occuparsi e quelle che è meglio lasciar perdere.

Ignorare selettivamente è un bene, ci consente di concentrarci sulle cose davvero importanti, ci protegge e agevola la salute mentale; però sono necessari degli accorgimenti. Per trarne vantaggio iniziamo con l’ignorare selettivamente alcune cose:

- Le offese. Non meritano la vostra attenzione. Se una persona apre bocca per dire qualcosa non significa che abbia ragione. Non sprecate un secondo dietro alle offese.
- Le provocazioni. Collocatele nel giusto contesto e capirete che sono solo un disperato tentativo per farvi agire. Pensate ai poveri tori, si agita un panno rosso per farli caricare e consentire al torero di esibirsi. Se la bestia non cercasse di incornare quel panno, lo spettacolo finirebbe prima ancora di iniziare (come del resto le sue sofferenze).
- Le distrazioni. Distolgono l’attenzione da ciò che è davvero importante.
- Le attività di routine non indispensabili. Se rincasate dopo una giornata stremante potete lasciar perdere la pila di piatti da lavare e filare a letto. La cucina in disordine non ha mai ucciso nessuno.
- Certe persone. A volte scegliere di non fare caso alle persone o ai comportamenti negativi può salvarvi la vita e la salute!
- Alcune richieste e sollecitazioni. C’è sempre qualcuno che chiede qualcosa, ma spetta a voi decidere se accontentarlo. Valutate bene se la richiesta merita di essere ascoltata o se potete ignorarla senza gravi conseguenze.
- Alcune conclusioni alle quali siete giunti. Soprattutto quelle deliranti, formulate nei momenti di bassa autostima, quando vi sentite poco bene, insicuri, soli o disorientati. 

(Tratto da Wabi Sabi, scoprire nell’imperfezione la bellezza delle cose di Tomás Navarro)

SNOOPY


 

giovedì 28 gennaio 2021

La madre di tutte le ferrate


Foto di Michele Toldo

【Gianni Spagnolo © 21I21】

Credevate forse che gli Anelli delle Anguane sia stata la prime ferrata del paese? 
Nossignori, grande sbaglio! 
La prima ferrata in assoluto è stata quella delle Grape*, che sale la diga sulla Torra, poco a monte del ponte delle Sléche. 
Beh,... in verità è alquanto breve e non era stata costruita con finalità ludiche, né era capace di attrarre arrampicatori rodati. Però era bella érta, proprio in piedi! Per bociasse alti niente e di bocca buona, attrezzati solo di sbruffonaggine, cimentarsi su quell’arrampicata era una prova di coraggio che preludeva alla più eroica salita alle Scafa dele Anguane.
Vabbé,... effettivamente l’unico vero cimento era infine con sé stessi, cioè se si soffriva o meno di vertigini, dacché chi non ne pativa ci poteva salire con allegra noncuranza.
Non io, che allora avevo per davvero paura del vuoto, ma non potevo sottrarmi alla prova per non essere da meno dei più spavaldi. Il problema principale non era tanto la salita in sé, perché si dava la faccia alla parete, quanto il fatto che la penultima grapa la scorlava. Era un problema di cimento, ma non nel senso dell’ardimento, quanto proprio del cimento che assicurava il ferro alla parete, che a forza di dai s’era allentato lasciando cosi scorlare la clàmara. Arrivare fin lì, quasi in cima e sentir ballare la grapa non era proprio un gran bel stare, tanto che tacavano a balare anche le gambe. Anche perché da lì si doveva salire sul bordo dove finiva ogni appiglio e protezione. Scendere poi, era ancor più problematico, dato che ci si doveva affacciare su quello che allora sembrava un profondo baratro.
La diga è una briglia di sbarramento che regimenta quell’ultimo tratto della valle della Torra e alimenta l’acquedotto della parte settentrionale del paese. Alla sua costruzione ci lavorò anche mio padre, mi pare appena dopo la guerra e prima di emigrare in Francia. Stante che la diga si trova proprio sull’alveo della Torra che segna il confine comunale, il fatto che le Grape fossero fissate sulla metà di destra le attribuiva senza fallo alle pertinenze di San Pietro. Quello era anche il luogo dove un tempo finivano le menàde, ossia i canali di divallamento dei tronchi dal Bìsele che d’inverno si facevano scivolare lungo lunghe condotte nell’alveo del torrente. Da lì venivano poi condotti fuori a strascico fin sopra la riva dell’Astico, per accatastarli e farli poi fluitare a valle con le piene di primavera.
Da quel mio primo timidissimo cimento con le arrampicate mi sono poi via via affrancato con l’età, controllando la paura del vuoto con l’accresciuta esperienza, scalando tutto quel che potevo scalare e prendendomi una sorta di rivincita sul quella nostrana Nord dell’Eiger dalla grapa mola, che mi aveva iniziato da piccolo.

* la grapa, o clàmara, in dialetto è quel ferro a forma di U con due punte che serviva in genere ad unire i tronchi e che, in questo caso, era infissa nella parete della diga a formare una scala di salita.









MIX - di tutto un po'...

 



(so di averlo già proposto, ma mi piace troppo perchè per me tanto significativo)

Un anziano incontra un giovane che gli chiede:

- Si ricorda di me? E il vecchio gli dice di no.
Allora il giovane gli dice che è stato il suo studente. E il professore gli chiede:
- Ah sì? E che lavoro fai adesso?
Il giovane risponde:
Beh, faccio l’insegnante.
- Oh, che bello come me? gli ha detto il vecchio
- Beh, sì. In realtà, sono diventato un insegnante perché mi hai ispirato ad essere come te.
L'anziano, curioso, chiede al giovane di raccontargli come mai. E il giovane gli racconta questa storia:
- Un giorno, un mio amico, anch'egli studente, è arrivato a scuola con un bellissimo orologio, nuovo e io l’ho rubato. Poco dopo, il mio amico ha notato il furto e subito si è lamentato con il nostro insegnante, che era lei. Allora, lei ha detto alla classe:
- L'orologio del vostro compagno è stato rubato durante la lezione di oggi. Chi l'ha rubato, per favore, lo restituisca.
Ma io non l'ho restituito perché non volevo farlo.
Poi lei hai chiuso la porta e ci ha detto a tutti di alzarci in piedi perché avrebbe controllato le nostre tasche una per una. Ma, prima, ci ha detto di chiudere gli occhi. Così abbiamo fatto e lei ha cercato tasca per tasca e, quando è arrivato da me, ha trovato l'orologio e l'ha preso.
Hai continuato a cercare nelle tasche di tutti e, quando ha finito, ha detto:
-Aprite gli occhi. Ho trovato l'orologio. Non mi ha mai detto niente e non ha mai menzionato l'episodio. Non ha mai fatto il nome di chi era stato quello che aveva rubato. Quel giorno, lei ha salvato la mia dignità per sempre. È stato il giorno più vergognoso della mia vita. Non mi hai mai detto nulla e, anche se non mi ha mai sgridato né mi ha mai chiamato per darmi una lezione morale, ho ricevuto il messaggio chiaramente. E grazie a lei ho capito che questo è quello che deve fare un vero educatore. Si ricorda di questo episodio, professore?

E il professore rispose:
-Io ricordo la situazione, l'orologio rubato, di aver cercato nelle tasche di tutti ma non ti ricordavo, perché anche io ho chiuso gli occhi mentre cercavo.
Questo è l'essenza della decenza. Se per correggere hai bisogno di umiliare, allora non sai insegnare.

(Web)

mercoledì 27 gennaio 2021

Ciao Mario

Il Croce è andato avanti incamminandosi sulla bianca strada che conduce in alto...

Vogliamo pensare che sia quella che aveva percorso da bambino e che ci racconta in questa sua bella memoria pubblicata quasi quattro anni fa. Passando accanto ai luoghi cari, con passo lieve e cuore sciolto, senza lasciare impronte sulla neve. Rivà al Buso  messà che anca stavolta la Vecia no la se farà catare.   ... da ultimo il baito dei Bertussi.

Poi il Cielo. 

Quel Cielo che ha accolto coloro che ci hanno preceduto e si sono incamminati per la stessa via. Volti cari con cui riannodare fili spezzati, quei fili della memoria che amava tanto ricordare e scorrere.

Ciao Mario. 

Gianni e Carla.


La Singéla... la prima volta - l'iniziazione -

Si deve risalire al Medioevo per capire come nelle nostre povere zone e contrade,  gli abitanti erano obbligati per vivere a coltivare le piccole proprietà di valle. Soprattutto esercitavano i cosiddetti "usi civici" sui terreni boschivi collettivi che si trovavano in montagna, praticando per i propri bisogni primari famigliari la raccolta dell’erba, della legna da ardere e “roncando“ (dissodando i terreni vegri) per renderli idonei alle coltivazioni agricole.
Così di certo si faceva ab origine a San Pietro e negli altopiani attorno, considerando che l’esercizio di questi usi civici era quasi certamente l’unico modo che spesso impediva di morire di fame quando le annate volgevano a carestie.
Nelle foreste delle nostre montagne dell’Altopiano, così abbondanti di abeti, veniva praticato anche il taglio ed il commercio del legname.
In quel periodo, proprio per mancanza di strade di comunicazione, i tronchi tagliati venivano fatti precipitare nelle valli sottostanti.
La nostra via di comunicazione tra l’alpe e la pianura era la Val Torra, che riceveva nei mesi estivi grandi quantità di legname. Nel periodo invernale poi, si costruivano speciali canalette chiamati ponti, che una volta ghiacciati confluivano a scivolo il legname fino a valle. Qui poi a mezzo di muli, cavalli e soprattutto buoi, attraverso la “Strada Boara” (che ancora si può vedere in località capitello della Torra), venivano trainati e depositati in gradi cataste (tassuni) nelle immediate adiacenze dell’Astico, in attesa di poterli fluttuare lungo il fiume fino alla loro destinazione definitiva, che quasi certamente erano i cantieri navali della Serenissima Repubblica Veneziana, che a quei tempi era riconosciuta una grande potenza e li usava per la sua flotta marinara.
Con l’evolversi del tempo questa pratica venne abbandonata e si dovette pensare ad un nuovo e più adeguato collegamento mediante la realizzazione di una strada carreggiabile.
Si iniziò così la costruzione della “Singéla”.
Non è dato di sapere l’epoca esatta di edificazione del collegamento, di certo la sua realizzazione non fu tra le più semplici, stante l'epoca e il dislivello da superare, nonché la posizione orografica in cui si doveva inserirla.
Sappiamo che la Singéla è nominata per la prima volta in recensioni storiche nell’anno 1602, dal nobile Francesco Caldogno, incaricato dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Egli scrive dopo aver preso visione dei passi ed interessi di stato sui ricchi pascoli di Vezzena e Camporosà e ci informa che imboccò il sentiero della Singéla percorrendo il fianco sinistro della Torra, calando rapidamente in quello dell’Astico. Annotava infatti: “discesa pericolosa e molto longa”, compiuta sotto la pioggia continua.
Si sa poi che tra il 1869 ed il 1880 venne riattata a varie riprese per assumere lo stato ed il percorso attuale; entrò così, nelle tribolazioni e nel mito della gente di San Pietro.

La Singéla, così dice la poesia recitata al capitello della Singéla in occasione della S. Messa d’agosto 2015: 
 Jero l’arteria principale, colegàvo el servélo dela Vale, con el core dela Montagna, dove jera l’unica cucàgna. 
Con questa strada che collega il paese di San Pietro ai boschi di uso civico nelle montagne sovrastanti, gli abitanti hanno sempre avuto un particolare rapporto, direi quasi mitico. Anche ora che è praticamente in disuso, infatti, ogni cittadino appena viene nominata se la sente incollata addosso, quasi obbligato a vivere in simbiosi con la stessa.
Tutti, dico tutti, nei tempi passati,  erano obbligati a percorrerla perché lassù c’era in pratica la materia per sostentamento dell’intero Paese.
La prima volta che veniva affrontata la dura salita dai giovani, iniziava un’avventura, ed era proprio di un’avventura che si trattava.  L'iniziazione assumeva caratteri di cerimonia, quasi di rito mitologico satanico, morale. Infatti dopo la prima volta che la si superava in età giovanissima, avveniva all’interno della comunità una presa d’atto, una sorta di riconoscimento, come in certi riti nelle tribù africane. Allora non eri più considerato un bambinello (bociéta), ma per aver fatto la Singéla diventavi ragazzo, cioè bòcia.
Ebbene, il dramma di tutti i bocia di San Pietro della prima volta, era il fatto, da tutti ricordato, che bisognava baciare il Lato B pieno di brode alla Vecia,  che aspettava tutti al varco prima di arrivare in Cima Singéla, Questo certo ha impedito di dormire a   molti ragazzotti in procinto di affrontare l’impresa.
E fu così che, in giovanissima età, toccò anche a me di affrontare l'ignoto. Per l’iniziazione venni  accompagnato dal mitico zio Fiòssaro che abitualmente, per ragioni di lavoro, percorreva la strada come cavallaro.

La sera prima vengono preparati con cura gli scarponi e passati con un abbondante strato di saònda, scarponi strettamente fatti a mano dai calzolai Bonato dai Lucca, gli unici abilitati a fare le scarpe alla famiglia Crosati che, data la loro stazza, calzavano abitualmente il numero 46/47. Questi scarpàri si erano dotati delle forme in legno adeguate, e per i ragazzi le calzature venivano abbellite con una cinghietta collocata sopra la tomaia, con relativa fibbia.
Prima di andare a letto bisognava attrezzare e controllare il Baròsso. Si doveva procedere dunque ad oliare l’asse di scorrimento delle ruote con olio usato di ricambio dei motori, che era tenuto in un vecchio barattolo senza coperchio. In questi alloggiava uno speciale pennello fatto con il pelo tagliato alla coda di una mucca e fissato con filo di ferro ad un bastoncino che fungeva da manico; nel contempo veniva oliata pure la bronzina delle ruote del carro el canonsìn e la machinéta, cioè un congegno a vite senza fine che agiva con un tirante su una catena che azionava un freno manuale agente sulle ruote posteriori. Sotto le stanghe del baròsso erano inchiodati due sacchi con le estremità aperte, uno conteneva il fieno e la musetta con la biada per il mulo e nell’altro prima di partire nella notte venivano infilate le provviste di sostentamento: rigorosamente, polenta e formaggio, o qualche fetta di salame o salsiccia lugànega e una bottiglia di acqua; in una di queste sacche prendeva posto anche un ombrello.

La sera fatale a letto prestissimo e nell’occasione si dorme in camera di zio Fiòssaro. Posata nel comodino c’era una sveglia che inizialmente terrorizzava, scandiva i secondi con la rumorosità dei magli che una volta operavano nelle fabbriche delle Seghe di Velo d’Astico; ad ogni secondo tremava il solaio della camera, che era di legno, poi piano piano la stanchezza e la gioventù prendeva il sopravvento ed arrivava il sonno.

Passata di poco la mezzanotte, come un carosello di campane, che squarciava la  notte suona la sveglia.
In cucina, a cura della nonna, è pronto il caffelatte, sulla maestà (batùa ) della porta della stalla del mulo si accende una lampadina che era sprovvista di interruttore, ma funzionava manualmente avvitandola o svitandola dal supporto. 
Una luce debole illumina la stalla e la corte ove avvengono le operazioni di finimenti al mulo. Per prima è posta in groppa la sella, e sopra di essa viene posizionata una resistente cinghia che deve sostenere il baròsso, poi attraverso il collo viene posizionato il comàcio, e poi il sotopànsa e per ultima la briglia, prima di agganciare il baròsso. Il mulo si chiama Pitone, perché di corporatura superiore alla media, e nonno diceva “Pitone fa ricco il tuo padrone che poi ti vendo.”
Dopo le raccomandazioni materne al Fiòssaro di guardarsi dal male e vegliare al toso, si parte per la grande avventura.
L’apprensione inizia a salire, il pensiero corre alla vecia che mi aspetta..., ma per ora si va.
Sebbene siamo in piena notte,  quando si arriva nelle vicinanze di Tullio del Sauro, questi viene chiamato rumorosamente dallo zio; già si vede che comunque è operativo e si accinge a partire. Si arriva nella piazza del paese e con un urlo lo zio chiama el Moro Lusso, che bisogna partire; intanto lo zio continua la traversata di San Pietro e con le medesime tonalità canore che sono delle vere grida, vengono invitati i restanti cavallari, cioè: Ice Conte, Gigiòta, Pesavento e Giani Minai a seguire la carovana. Sono questi infatti, a mio ricordo, gli ultimi professionisti, mitici, eroi, che chiuderanno l’epopea tribolata e fortunosa dei cavallari della Singéla.

Sono stati veramente questi gli ultimi che hanno operato per una vita sulla Singéla.
Personaggi che hanno vissuto sulla loro pelle le immani tribolazioni che il duro compito imponeva loro, lavorando con le mani, con la testa, ma soprattutto con il cuore; hanno vissuto,   oltre che la fine di una epopea, anche una esperienza unica che solo praticando la montagna può manifestarsi, la vera amicizia, il lavorare insieme, sentirsi tutt’uno con il pericolo, la fatica, nel bisogno aiutarsi. Sapere che avevi dei compagni su cui potevi affidare la tua vita e sui quali contare nei momenti di particolare disagio sia fisico che morale.
Non disdegnavano però, in alcuni momenti quando casualmente si ritrovavano sui repòssi della Singéla, anche se particolarmente stanchi, di dedicarsi ad un momento di relax e particolare felicità. Così, fra le donne che scendevano con il carrettino a mano carico, venivano chiamate a raccolta le Bonate, la Linche, l’Argenta, le Lusse, la Catina, la Nebrasca, che erano autentiche canterine note anche per la loro tonalità canora. Queste, accompagnate dalla possente voce di Giani Minai, inneggiavano alla partenza per l’America, alla malattia della Emma a chi si è fatta Monaca, alla Barbiera, all’amore, e certo non mancavano gli inni alla miseria, e alla sfortuna.
Erano cante popolari molto conosciute e intonate con maestria, che toglievano le fatiche e per un momento facevano dimenticare le difficoltà del momento e le privazioni presenti in ogni famiglia della valle.

Intanto il paese viene attraversato e già si intravede l’ultima luce pubblica che illumina con una luce fioca la contra' Lucca, questa è agganciata all’angolo della casa della Moretta, dove si diparte la Singéla.
Appena la conformazione del fondo stradale cambia, le gambe di Mario subiscono un primo tremolio, ora prende coscienza che la vecia lo aspetta!...
La salita si fa dura, e bisogna prevedere delle soste per far riposare il mulo.
1° repòsso al Sojòlo, già si sentono i rumori dei baròssi le cui ruote saltano sul selciato della strada: sono i colleghi cavallari che salgono.
2° repòsso l’ara del Salto, i rumori di quelli che seguono si avvicinano, anche perché i loro animali sono partiti più tardi e sono dunque più riposati.  Si arriva al 3° repòsso al Buso de Paolo e qui i cavallari si radunano, si accendono una sigaretta, fanno quattro chiacchiere, però la novità è che Mario deve baciare il lato B alla vecia...

Ice Conte si diletta nella descrizione del deretano in maniera spaventosa e probabilmente solo perché gli manca il coraggio Mario non scappa.
Mano a mano che si sale, a Mario terrorizzato incominciano a chiudersi gli occhi dal sonno, cosicché si appoggia con una mano al traverso del scagnélo che copre le ruote e dove verranno caricati i tronchi, con gli occhi chiusi accompagna il carro; senonché, non vedendo la conformazione della carreggiata, ad ogni traverso (canaletta profonda di scolo delle acque piovane poste di traverso alla carreggiata) che incontra, rischia di caderci dentro.
Si sale il Pontaròn e per un tratto le pendenze cambiano, infatti si arriva sui Fundi, (zona pianeggiante), poi al 4° repòsso si arriva al Capitello della Singéla, e tutti raggruppati di nuovo, con l’ordine del giorno: Mario e... el buso della Vecia da passare prima di arrivare alla cima.
Ripartendo e lasciando l’ansa del 4° repòsso, già le folate dell’aria fresca della Val Longa investe fa capire che la sommità è vicina dunque bisognerà pagare pegno.
Sempre in salita arriviamo al 5° repòsso, al Tornante del Costo de Baù, poi al tornante successivo la svolta del Moltrin, da cui zio Fiòssaro chiama le Vecia, le mie gambe sono debolissime e frolle, chiama la vecchia signora ancora più volte, ma non c’è nessuna risposta, rallenta un po'  e Giani Minai mi dice: vuoi vedere che sei fortunato “ la Vecia no ghe ze”.
Il mio cuore batte a mille finché arrivo davanti al buso dela Vecia, non è ancora l'alba, per cui non posso vedere niente all’interno, i muli ed i baròssi oltrepassano il luogo che è stato per le ultime due ore il mio calvario. Più ci allontaniamo e più mi rincuoro e prendo coraggio, saliamo sempre, ecco la svolta del Toro, sempre sù ed eccoci alla svolta nuova, passiamo finalmente sotto el Sojo Alto e oltrepassiamo la svolta della Manetta, e mi rendo conto dell’immane pericolo a cui sono scampato. Eccoci ora al Cògolo del salàdo, in dirittura Cima Sojo Alto, qui le compagni si dividono. Chi si dirige verso la Porta, chi va verso i Frattùni, l'ultimo saluto guardéve dal male e si risponde: se Dio vole.
Con zio Fiòssaro e Tullio del Sauro prendiamo la direzione dei Frattoni: la strada cambia in queste zone di pendenza e si fa pianeggiante, si sta facendo giorno ed appena giriamo a sinistra e ci inoltriamo nella Val del Cimitero, un profumo di fragole, lamponi, mirtilli (azaréle) mi avvolge e mi toglie tutta la stanchezza.
Arrivati sul Tasòn di carico delle bore, i muli vengono staccati dai baròssi e lasciati liberi a riposare; viene dato loro il fieno e poi saranno ricompensati dalle fatiche con una musetta di biada che attaccata al collo dell’animale viene consumata liberamente.
Intanto per primo viene acceso il fuoco, sulle cui braci poi verrà messa a brustolare la polenta, accanto al fuoco mi rincuoro e prendo coraggio e già vedo qualche fragolina che prontamente raccolgo,
L’albeggiare ha lasciato il posto al sole e la giornata si preannuncia bellissima, sono invaso da sensazioni uniche che ancora mi sembra di percepire, il profumo dei grossi abeti, dei frutti di bosco, la rugiada sull’erba, l’odore dei sudore dei muli per l’immane fatica di aver trainato fin quassù il carro, i rumori e le grida della gente compaesana presente nei dintorni, la nostra montagna insomma, e forse non da ultimo il fatto di aver evitato il bacio mortale! E la consapevolezza di aver fatto la Singéla la prima volta.
Intanto i due compagni, si aiutano predispongono il carico dei baròssi, ogni tronco viene valutato con occhio intenditore se va caricato di testa o di coda, secondo lo spazio che resta nel carro.

Quando i carichi sono ultimati, prendiamo posto attorno al fuoco, mentre i muli si riposano viene consumata con voracità la polenta brustolà che ha il sapore ed il profumo di un manicaretto.
E’ ora di intraprendere la discesa, che va predisposta con particolare perizia, per il potenziale pericolo che comporta.
Da sopra il Sojo Alto, una breve sosta per controllare il carico e se tutto è perfettamente in regola; si controlla soprattutto che la macchinetta sia efficiente, che lo strascico (strosso) sia adeguato al carico che parte in discesa. Da quella posizione è tutto perfettamente visibile il tracciato della Singéla, scoperto dalla vegetazione, che si intaglia sulle cenge della Val Torra fin dove si intravede l’Astico nel fondovalle.
Mentre la stanchezza incomincia a prendermi, ripasso davanti al Buso dela Vecia e mi rendo conto, sebbene giovane, delle fandonie cui avevo creduto, constatando che in quel buco non poteva vivere nessuno. Prendo atto così di questa credenza popolare che ancora oggi, in qualche famiglia di San Pietro, è raccontata e  che nel tempo della mia giovinezza ha creato non pochi incubi...
Scendendo la Singéla, incontro dei paesani che stanno salendo a raccogliere la legna che sarà caricata su dei carrettini (scalà)  ora sono portati sulle spalle dei più forti, mentre i giovani che accompagnano devono subirsi le ruote, o le corde e quant'altro occorra per allestire poi il carico. Incontro Gusto Recieta e anca el vecio Matiùni, gli stradini che, ognuno nel suo tratto di competenza , stanno facendo manutenzione alla strada, curando i bocarùi, che nel tardo pomeriggio, dopo il passaggio degli ultimi utenti che tornano a casa, dovranno essere accuratamente ricostruiti, per impedire il dilavamento della carreggiata in caso di temporali. Non di rado, questi incaricati, quando nelle notti estive si sentiva il temporale da lontano ed il tempo prometteva piogge intense, si alzavano a qualsiasi ora e, illuminati da una lanterna (ferale), o addirittura da una candela, risalivano la Singéla al fine di accertarsi che tutto fosse a posto e in regola, pena l’asportazione del fondo stradale.  Durante la giornata,   con apposite mazze de bàtere giara, frantumavano dei sassi per ridurli in ghiaia da stendere sulla sede stradale, considerato che nelle vicinanze era praticamente impossibile reperire dello stabilizzato per dare una certa conformità al fondo stradale.
Più scendo e più la stanchezza mi assale, le gambe tentano di incrociarsi e finalmente arriviamo al Campo dove si ha la panoramica della Valle.  Saremo presto a casa, dove infatti, dopo aver portato il carico alla segheria dei Barattieri dei Arfiri (segheria Lorenzi di Forme Cerati), dirigiamo i nostri passi.
Ci aspetta un fumante minestrone e dopo aver mangiato... di filato a letto, strettamente senza lavarsi, come dice la nonna, l’acqua risveglia e rende nervosi quando si è stanchi.
Dopo una dormita ristoratrice mi alzo ed appena esco nella corte mi sento un altro ragazzino, anzi non lo sono più... son un bocia che gà fato la Singéla per la prima volta.

Di seguito altre tantissime volte sono salito sulla Singéla, fino a raggiungere i luoghi più distanti della nostre montagne, sia con zio Fiòssaro sia con i miei genitori o parenti, ed in quelle occasioni ho imparato a conoscere i luoghi e le località i toponimi dei nostri territori di uso civico che permettono di conoscere in qualsiasi momento il luogo esatto della montagna;
Frattoni, Pra de Zorzi, Teleferica, i Runchi Veci, Posta della Pontare, Fratte de Poselaro, Val del Vacaretto, Longalaita, Dosso del Trugolo,Val del Vacaretto ecc.
Sono le località nelle quali i nostri avi hanno praticato lavorando, dissodando coltivando con immane tribolazioni, vivendo di stenti e di quanto il territorio proponeva e dove avrei dovuto tribolare e vivere anch’io.
Fortunatamente le cose sono cambiate, l’era industriale ha sconvolto la nostra civiltà rurale, la maniera di vivere, tutto è cambiato, dandoci tutte le comodità ed agi possibili.
Meglio così! Allora la Singéla come dice la poesia era...  da dòvene jero bela, jero forte, robusta e potente;
portavo muli baròssi e gente… desso no porto pi gnente...son ruinà e decadente... Desso che son vecia e bruta... no ghe zè pì nessun che me juta.

Ora si sale la Cingella! (ha cambiato perfino il nome!) per fare una passeggiata, nel periodo di ferie o nei giorni festivi, attrezzati di tutto punto con abbigliamento da montagna all’ultima moda, acquistato nei magazzini specializzati con scarpe che respirano, con borracce termiche, con zaini strapieni di integratori, con cioccolate di tutti i tipi, con due bastoni di alluminio, per non cadere nei Bocarùi!...
Meglio così?…
Fermatevi una volta al buso dela vecia e immaginatevi quanta polenta è passata di là; immaginatevi gli scarponi fatti a mano con sopra la cintura e la fibia, i baròssi ed i cavallari, e carrettini a mano. Pensate a quanta povera gente piegata su se stessa nell’intento di strascicare verso casa alcune rami o piantine di abete è transitata negli ultimi secoli, ma soprattutto, annusate. Annusate, se arriverete a percepire le sensazioni, gli odori ed i profumi che ha sentito Mario per la prima volta in Val del Cimitero sarete invasi ne sono sicuro da sensazioni uniche che non potrete dimenticare più...

San Pietro, 17/03/2017
Mario Pesavento Crosato





Delmo Stenghele a perpetuam memoria del Papà

 A PERPETUAM MEMORIA

di Stenghele Giovanni Battista "mio padre" che dopo la tragica ritirata della campagna di Russia fu internato per 20 mesi nello "STAMMLAGER XVIII A" nella bassa Austria.











... sempre, Mario...



E' un ritaglio di foto, un ritaglio piccolo, offuscato, anche dal tempo.
E' una foto di sedici anni fa, siamo in pochi ritratti. Conta che ci sei tu. Conta la tua presenza, la tua divisa, la tua bandiera.
Certo, Mario, ho dovuto cercare. Ti cercavo insieme al gonfalone, al simbolo più vero di tutte le contraddizioni che sono... Valdastico!
Sono stato l'ultimo sindaco ad aver avuto la fortuna di averti al suo fianco. Ero giovane, per te venivo dopo un sacco di anni passati al servizio di Giorgio e (Pier)Giorgio, e solo noi due sappiamo quante volte hai chiamato anche me Giorgio! Eri la memoria di cui ogni sindaco poteva aver bisogno, una miniera di informazioni, la chiave di accesso ad ogni archivio.
Non so se sai fino in fondo quanta memoria di Valdastico ti porti via. Se non lo sai tu, lo sa il tuo paese, Mario.
A seconda del tuo impegno ti abbiamo visto combattente, cives, emigrante, pensionato. Tra tutti questi compiti rimarrai sempre il Messo Comunale. Quello che consegnava la tessera elettorale, a San Pietro, a Forni, a Pedescala, persino a Casotto.
Ora il tuo paese ha bisogno di aneddoti, Mario; il tuo paese ha bisogno di raccontarti, lascia che parli di te. Io nel mio piccolo fatico ad ordinare i miei ricordi, solo il silenzio riesce a tenerli insieme davvero. Tra tutti dominano i più intimi, quelli che in pochi o in due soli ci si può capire...
...Occhio fine, Mario, sempre...
Alberto Toldo

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...