Il Croce è andato avanti incamminandosi sulla bianca strada che conduce in alto...
Vogliamo pensare che sia quella che aveva percorso da bambino e che ci racconta in questa sua bella memoria pubblicata quasi quattro anni fa. Passando accanto ai luoghi cari, con passo lieve e cuore sciolto, senza lasciare impronte sulla neve. Rivà al Buso messà che anca stavolta la Vecia no la se farà catare. ... da ultimo il baito dei Bertussi.
Poi il Cielo.
Quel Cielo che ha accolto coloro che ci hanno preceduto e si sono incamminati per la stessa via. Volti cari con cui riannodare fili spezzati, quei fili della memoria che amava tanto ricordare e scorrere.
Ciao Mario.
Gianni e Carla.
La Singéla... la prima volta - l'iniziazione -
Si deve risalire al Medioevo per capire come nelle nostre povere zone e contrade, gli abitanti erano obbligati per vivere a coltivare le piccole proprietà di valle. Soprattutto esercitavano i cosiddetti "usi civici" sui terreni boschivi collettivi che si trovavano in montagna, praticando per i propri bisogni primari famigliari la raccolta dell’erba, della legna da ardere e “roncando“ (dissodando i terreni vegri) per renderli idonei alle coltivazioni agricole.
Così di certo si faceva ab origine a San Pietro e negli altopiani attorno, considerando che l’esercizio di questi usi civici era quasi certamente l’unico modo che spesso impediva di morire di fame quando le annate volgevano a carestie.
Nelle foreste delle nostre montagne dell’Altopiano, così abbondanti di abeti, veniva praticato anche il taglio ed il commercio del legname.
In quel periodo, proprio per mancanza di strade di comunicazione, i tronchi tagliati venivano fatti precipitare nelle valli sottostanti.
La nostra via di comunicazione tra l’alpe e la pianura era la Val Torra, che riceveva nei mesi estivi grandi quantità di legname. Nel periodo invernale poi, si costruivano speciali canalette chiamati ponti, che una volta ghiacciati confluivano a scivolo il legname fino a valle. Qui poi a mezzo di muli, cavalli e soprattutto buoi, attraverso la “Strada Boara” (che ancora si può vedere in località capitello della Torra), venivano trainati e depositati in gradi cataste (tassuni) nelle immediate adiacenze dell’Astico, in attesa di poterli fluttuare lungo il fiume fino alla loro destinazione definitiva, che quasi certamente erano i cantieri navali della Serenissima Repubblica Veneziana, che a quei tempi era riconosciuta una grande potenza e li usava per la sua flotta marinara.
Con l’evolversi del tempo questa pratica venne abbandonata e si dovette pensare ad un nuovo e più adeguato collegamento mediante la realizzazione di una strada carreggiabile.
Si iniziò così la costruzione della “Singéla”.
Non è dato di sapere l’epoca esatta di edificazione del collegamento, di certo la sua realizzazione non fu tra le più semplici, stante l'epoca e il dislivello da superare, nonché la posizione orografica in cui si doveva inserirla.
Sappiamo che la Singéla è nominata per la prima volta in recensioni storiche nell’anno 1602, dal nobile Francesco Caldogno, incaricato dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Egli scrive dopo aver preso visione dei passi ed interessi di stato sui ricchi pascoli di Vezzena e Camporosà e ci informa che imboccò il sentiero della Singéla percorrendo il fianco sinistro della Torra, calando rapidamente in quello dell’Astico. Annotava infatti: “discesa pericolosa e molto longa”, compiuta sotto la pioggia continua.
Si sa poi che tra il 1869 ed il 1880 venne riattata a varie riprese per assumere lo stato ed il percorso attuale; entrò così, nelle tribolazioni e nel mito della gente di San Pietro.
La Singéla, così dice la poesia recitata al capitello della Singéla in occasione della S. Messa d’agosto 2015:
Jero l’arteria principale, colegàvo el servélo dela Vale, con el core dela Montagna, dove jera l’unica cucàgna.
Con questa strada che collega il paese di San Pietro ai boschi di uso civico nelle montagne sovrastanti, gli abitanti hanno sempre avuto un particolare rapporto, direi quasi mitico. Anche ora che è praticamente in disuso, infatti, ogni cittadino appena viene nominata se la sente incollata addosso, quasi obbligato a vivere in simbiosi con la stessa.
Tutti, dico tutti, nei tempi passati, erano obbligati a percorrerla perché lassù c’era in pratica la materia per sostentamento dell’intero Paese.
La prima volta che veniva affrontata la dura salita dai giovani, iniziava un’avventura, ed era proprio di un’avventura che si trattava. L'iniziazione assumeva caratteri di cerimonia, quasi di rito mitologico satanico, morale. Infatti dopo la prima volta che la si superava in età giovanissima, avveniva all’interno della comunità una presa d’atto, una sorta di riconoscimento, come in certi riti nelle tribù africane. Allora non eri più considerato un bambinello (bociéta), ma per aver fatto la Singéla diventavi ragazzo, cioè bòcia.
Ebbene, il dramma di tutti i bocia di San Pietro della prima volta, era il fatto, da tutti ricordato, che bisognava baciare il Lato B pieno di brode alla Vecia, che aspettava tutti al varco prima di arrivare in Cima Singéla, Questo certo ha impedito di dormire a molti ragazzotti in procinto di affrontare l’impresa.
E fu così che, in giovanissima età, toccò anche a me di affrontare l'ignoto. Per l’iniziazione venni accompagnato dal mitico zio Fiòssaro che abitualmente, per ragioni di lavoro, percorreva la strada come cavallaro.
La sera prima vengono preparati con cura gli scarponi e passati con un abbondante strato di saònda, scarponi strettamente fatti a mano dai calzolai Bonato dai Lucca, gli unici abilitati a fare le scarpe alla famiglia Crosati che, data la loro stazza, calzavano abitualmente il numero 46/47. Questi scarpàri si erano dotati delle forme in legno adeguate, e per i ragazzi le calzature venivano abbellite con una cinghietta collocata sopra la tomaia, con relativa fibbia.
Prima di andare a letto bisognava attrezzare e controllare il Baròsso. Si doveva procedere dunque ad oliare l’asse di scorrimento delle ruote con olio usato di ricambio dei motori, che era tenuto in un vecchio barattolo senza coperchio. In questi alloggiava uno speciale pennello fatto con il pelo tagliato alla coda di una mucca e fissato con filo di ferro ad un bastoncino che fungeva da manico; nel contempo veniva oliata pure la bronzina delle ruote del carro el canonsìn e la machinéta, cioè un congegno a vite senza fine che agiva con un tirante su una catena che azionava un freno manuale agente sulle ruote posteriori. Sotto le stanghe del baròsso erano inchiodati due sacchi con le estremità aperte, uno conteneva il fieno e la musetta con la biada per il mulo e nell’altro prima di partire nella notte venivano infilate le provviste di sostentamento: rigorosamente, polenta e formaggio, o qualche fetta di salame o salsiccia lugànega e una bottiglia di acqua; in una di queste sacche prendeva posto anche un ombrello.
La sera fatale a letto prestissimo e nell’occasione si dorme in camera di zio Fiòssaro. Posata nel comodino c’era una sveglia che inizialmente terrorizzava, scandiva i secondi con la rumorosità dei magli che una volta operavano nelle fabbriche delle Seghe di Velo d’Astico; ad ogni secondo tremava il solaio della camera, che era di legno, poi piano piano la stanchezza e la gioventù prendeva il sopravvento ed arrivava il sonno.
Passata di poco la mezzanotte, come un carosello di campane, che squarciava la notte suona la sveglia.
In cucina, a cura della nonna, è pronto il caffelatte, sulla maestà (batùa ) della porta della stalla del mulo si accende una lampadina che era sprovvista di interruttore, ma funzionava manualmente avvitandola o svitandola dal supporto.
Una luce debole illumina la stalla e la corte ove avvengono le operazioni di finimenti al mulo. Per prima è posta in groppa la sella, e sopra di essa viene posizionata una resistente cinghia che deve sostenere il baròsso, poi attraverso il collo viene posizionato il comàcio, e poi il sotopànsa e per ultima la briglia, prima di agganciare il baròsso. Il mulo si chiama Pitone, perché di corporatura superiore alla media, e nonno diceva “Pitone fa ricco il tuo padrone che poi ti vendo.”
Dopo le raccomandazioni materne al Fiòssaro di guardarsi dal male e vegliare al toso, si parte per la grande avventura.
L’apprensione inizia a salire, il pensiero corre alla vecia che mi aspetta..., ma per ora si va.
Sebbene siamo in piena notte, quando si arriva nelle vicinanze di Tullio del Sauro, questi viene chiamato rumorosamente dallo zio; già si vede che comunque è operativo e si accinge a partire. Si arriva nella piazza del paese e con un urlo lo zio chiama el Moro Lusso, che bisogna partire; intanto lo zio continua la traversata di San Pietro e con le medesime tonalità canore che sono delle vere grida, vengono invitati i restanti cavallari, cioè: Ice Conte, Gigiòta, Pesavento e Giani Minai a seguire la carovana. Sono questi infatti, a mio ricordo, gli ultimi professionisti, mitici, eroi, che chiuderanno l’epopea tribolata e fortunosa dei cavallari della Singéla.
Sono stati veramente questi gli ultimi che hanno operato per una vita sulla Singéla.
Personaggi che hanno vissuto sulla loro pelle le immani tribolazioni che il duro compito imponeva loro, lavorando con le mani, con la testa, ma soprattutto con il cuore; hanno vissuto, oltre che la fine di una epopea, anche una esperienza unica che solo praticando la montagna può manifestarsi, la vera amicizia, il lavorare insieme, sentirsi tutt’uno con il pericolo, la fatica, nel bisogno aiutarsi. Sapere che avevi dei compagni su cui potevi affidare la tua vita e sui quali contare nei momenti di particolare disagio sia fisico che morale.
Non disdegnavano però, in alcuni momenti quando casualmente si ritrovavano sui repòssi della Singéla, anche se particolarmente stanchi, di dedicarsi ad un momento di relax e particolare felicità. Così, fra le donne che scendevano con il carrettino a mano carico, venivano chiamate a raccolta le Bonate, la Linche, l’Argenta, le Lusse, la Catina, la Nebrasca, che erano autentiche canterine note anche per la loro tonalità canora. Queste, accompagnate dalla possente voce di Giani Minai, inneggiavano alla partenza per l’America, alla malattia della Emma a chi si è fatta Monaca, alla Barbiera, all’amore, e certo non mancavano gli inni alla miseria, e alla sfortuna.
Erano cante popolari molto conosciute e intonate con maestria, che toglievano le fatiche e per un momento facevano dimenticare le difficoltà del momento e le privazioni presenti in ogni famiglia della valle.
Intanto il paese viene attraversato e già si intravede l’ultima luce pubblica che illumina con una luce fioca la contra' Lucca, questa è agganciata all’angolo della casa della Moretta, dove si diparte la Singéla.
Appena la conformazione del fondo stradale cambia, le gambe di Mario subiscono un primo tremolio, ora prende coscienza che la vecia lo aspetta!...
La salita si fa dura, e bisogna prevedere delle soste per far riposare il mulo.
1° repòsso al Sojòlo, già si sentono i rumori dei baròssi le cui ruote saltano sul selciato della strada: sono i colleghi cavallari che salgono.
2° repòsso l’ara del Salto, i rumori di quelli che seguono si avvicinano, anche perché i loro animali sono partiti più tardi e sono dunque più riposati. Si arriva al 3° repòsso al Buso de Paolo e qui i cavallari si radunano, si accendono una sigaretta, fanno quattro chiacchiere, però la novità è che Mario deve baciare il lato B alla vecia...
Ice Conte si diletta nella descrizione del deretano in maniera spaventosa e probabilmente solo perché gli manca il coraggio Mario non scappa.
Mano a mano che si sale, a Mario terrorizzato incominciano a chiudersi gli occhi dal sonno, cosicché si appoggia con una mano al traverso del scagnélo che copre le ruote e dove verranno caricati i tronchi, con gli occhi chiusi accompagna il carro; senonché, non vedendo la conformazione della carreggiata, ad ogni traverso (canaletta profonda di scolo delle acque piovane poste di traverso alla carreggiata) che incontra, rischia di caderci dentro.
Si sale il Pontaròn e per un tratto le pendenze cambiano, infatti si arriva sui Fundi, (zona pianeggiante), poi al 4° repòsso si arriva al Capitello della Singéla, e tutti raggruppati di nuovo, con l’ordine del giorno: Mario e... el buso della Vecia da passare prima di arrivare alla cima.
Ripartendo e lasciando l’ansa del 4° repòsso, già le folate dell’aria fresca della Val Longa investe fa capire che la sommità è vicina dunque bisognerà pagare pegno.
Sempre in salita arriviamo al 5° repòsso, al Tornante del Costo de Baù, poi al tornante successivo la svolta del Moltrin, da cui zio Fiòssaro chiama le Vecia, le mie gambe sono debolissime e frolle, chiama la vecchia signora ancora più volte, ma non c’è nessuna risposta, rallenta un po' e Giani Minai mi dice: vuoi vedere che sei fortunato “ la Vecia no ghe ze”.
Il mio cuore batte a mille finché arrivo davanti al buso dela Vecia, non è ancora l'alba, per cui non posso vedere niente all’interno, i muli ed i baròssi oltrepassano il luogo che è stato per le ultime due ore il mio calvario. Più ci allontaniamo e più mi rincuoro e prendo coraggio, saliamo sempre, ecco la svolta del Toro, sempre sù ed eccoci alla svolta nuova, passiamo finalmente sotto el Sojo Alto e oltrepassiamo la svolta della Manetta, e mi rendo conto dell’immane pericolo a cui sono scampato. Eccoci ora al Cògolo del salàdo, in dirittura Cima Sojo Alto, qui le compagni si dividono. Chi si dirige verso la Porta, chi va verso i Frattùni, l'ultimo saluto guardéve dal male e si risponde: se Dio vole.
Con zio Fiòssaro e Tullio del Sauro prendiamo la direzione dei Frattoni: la strada cambia in queste zone di pendenza e si fa pianeggiante, si sta facendo giorno ed appena giriamo a sinistra e ci inoltriamo nella Val del Cimitero, un profumo di fragole, lamponi, mirtilli (azaréle) mi avvolge e mi toglie tutta la stanchezza.
Arrivati sul Tasòn di carico delle bore, i muli vengono staccati dai baròssi e lasciati liberi a riposare; viene dato loro il fieno e poi saranno ricompensati dalle fatiche con una musetta di biada che attaccata al collo dell’animale viene consumata liberamente.
Intanto per primo viene acceso il fuoco, sulle cui braci poi verrà messa a brustolare la polenta, accanto al fuoco mi rincuoro e prendo coraggio e già vedo qualche fragolina che prontamente raccolgo,
L’albeggiare ha lasciato il posto al sole e la giornata si preannuncia bellissima, sono invaso da sensazioni uniche che ancora mi sembra di percepire, il profumo dei grossi abeti, dei frutti di bosco, la rugiada sull’erba, l’odore dei sudore dei muli per l’immane fatica di aver trainato fin quassù il carro, i rumori e le grida della gente compaesana presente nei dintorni, la nostra montagna insomma, e forse non da ultimo il fatto di aver evitato il bacio mortale! E la consapevolezza di aver fatto la Singéla la prima volta.
Intanto i due compagni, si aiutano predispongono il carico dei baròssi, ogni tronco viene valutato con occhio intenditore se va caricato di testa o di coda, secondo lo spazio che resta nel carro.
Quando i carichi sono ultimati, prendiamo posto attorno al fuoco, mentre i muli si riposano viene consumata con voracità la polenta brustolà che ha il sapore ed il profumo di un manicaretto.
E’ ora di intraprendere la discesa, che va predisposta con particolare perizia, per il potenziale pericolo che comporta.
Da sopra il Sojo Alto, una breve sosta per controllare il carico e se tutto è perfettamente in regola; si controlla soprattutto che la macchinetta sia efficiente, che lo strascico (strosso) sia adeguato al carico che parte in discesa. Da quella posizione è tutto perfettamente visibile il tracciato della Singéla, scoperto dalla vegetazione, che si intaglia sulle cenge della Val Torra fin dove si intravede l’Astico nel fondovalle.
Mentre la stanchezza incomincia a prendermi, ripasso davanti al Buso dela Vecia e mi rendo conto, sebbene giovane, delle fandonie cui avevo creduto, constatando che in quel buco non poteva vivere nessuno. Prendo atto così di questa credenza popolare che ancora oggi, in qualche famiglia di San Pietro, è raccontata e che nel tempo della mia giovinezza ha creato non pochi incubi...
Scendendo la Singéla, incontro dei paesani che stanno salendo a raccogliere la legna che sarà caricata su dei carrettini (scalà) ora sono portati sulle spalle dei più forti, mentre i giovani che accompagnano devono subirsi le ruote, o le corde e quant'altro occorra per allestire poi il carico. Incontro Gusto Recieta e anca el vecio Matiùni, gli stradini che, ognuno nel suo tratto di competenza , stanno facendo manutenzione alla strada, curando i bocarùi, che nel tardo pomeriggio, dopo il passaggio degli ultimi utenti che tornano a casa, dovranno essere accuratamente ricostruiti, per impedire il dilavamento della carreggiata in caso di temporali. Non di rado, questi incaricati, quando nelle notti estive si sentiva il temporale da lontano ed il tempo prometteva piogge intense, si alzavano a qualsiasi ora e, illuminati da una lanterna (ferale), o addirittura da una candela, risalivano la Singéla al fine di accertarsi che tutto fosse a posto e in regola, pena l’asportazione del fondo stradale. Durante la giornata, con apposite mazze de bàtere giara, frantumavano dei sassi per ridurli in ghiaia da stendere sulla sede stradale, considerato che nelle vicinanze era praticamente impossibile reperire dello stabilizzato per dare una certa conformità al fondo stradale.
Più scendo e più la stanchezza mi assale, le gambe tentano di incrociarsi e finalmente arriviamo al Campo dove si ha la panoramica della Valle. Saremo presto a casa, dove infatti, dopo aver portato il carico alla segheria dei Barattieri dei Arfiri (segheria Lorenzi di Forme Cerati), dirigiamo i nostri passi.
Ci aspetta un fumante minestrone e dopo aver mangiato... di filato a letto, strettamente senza lavarsi, come dice la nonna, l’acqua risveglia e rende nervosi quando si è stanchi.
Dopo una dormita ristoratrice mi alzo ed appena esco nella corte mi sento un altro ragazzino, anzi non lo sono più... son un bocia che gà fato la Singéla per la prima volta.
Di seguito altre tantissime volte sono salito sulla Singéla, fino a raggiungere i luoghi più distanti della nostre montagne, sia con zio Fiòssaro sia con i miei genitori o parenti, ed in quelle occasioni ho imparato a conoscere i luoghi e le località i toponimi dei nostri territori di uso civico che permettono di conoscere in qualsiasi momento il luogo esatto della montagna;
Frattoni, Pra de Zorzi, Teleferica, i Runchi Veci, Posta della Pontare, Fratte de Poselaro, Val del Vacaretto, Longalaita, Dosso del Trugolo,Val del Vacaretto ecc.
Sono le località nelle quali i nostri avi hanno praticato lavorando, dissodando coltivando con immane tribolazioni, vivendo di stenti e di quanto il territorio proponeva e dove avrei dovuto tribolare e vivere anch’io.
Fortunatamente le cose sono cambiate, l’era industriale ha sconvolto la nostra civiltà rurale, la maniera di vivere, tutto è cambiato, dandoci tutte le comodità ed agi possibili.
Meglio così! Allora la Singéla come dice la poesia era... da dòvene jero bela, jero forte, robusta e potente;
portavo muli baròssi e gente… desso no porto pi gnente...son ruinà e decadente... Desso che son vecia e bruta... no ghe zè pì nessun che me juta.
Ora si sale la Cingella! (ha cambiato perfino il nome!) per fare una passeggiata, nel periodo di ferie o nei giorni festivi, attrezzati di tutto punto con abbigliamento da montagna all’ultima moda, acquistato nei magazzini specializzati con scarpe che respirano, con borracce termiche, con zaini strapieni di integratori, con cioccolate di tutti i tipi, con due bastoni di alluminio, per non cadere nei Bocarùi!...
Meglio così?…
Fermatevi una volta al buso dela vecia e immaginatevi quanta polenta è passata di là; immaginatevi gli scarponi fatti a mano con sopra la cintura e la fibia, i baròssi ed i cavallari, e carrettini a mano. Pensate a quanta povera gente piegata su se stessa nell’intento di strascicare verso casa alcune rami o piantine di abete è transitata negli ultimi secoli, ma soprattutto, annusate. Annusate, se arriverete a percepire le sensazioni, gli odori ed i profumi che ha sentito Mario per la prima volta in Val del Cimitero sarete invasi ne sono sicuro da sensazioni uniche che non potrete dimenticare più...
San Pietro, 17/03/2017
Mario Pesavento Crosato