lunedì 31 agosto 2020

La Segha di Russa

Gianni Spagnolo © 200830
Non è agevole risalire all’origine delle contra’ dell’Alta Valle dell’Astico. I documenti antichi si limitano a citare gli abitati principali, cioè le ville e i colonnelli, trascurando quelli minori. A parte Bellasio, che era un maso privato e fa un po’ storia a sé.
La maggior parte delle contrade che conosciamo oggi si svilupparono tra la fine del XVI e del XVII secolo, sull’onda di spinte demografiche e furono originariamente corti familiari, dato che di ciascuna possiamo identificare il clan d’origine e la sua provenienza. Sull’altra riva dell’Astico, nelle pertinenze di Forni, si vede ripetersi lo stesso schema già osservato per San Pietro. Contra’ come: Sella (Sella), Maso (Pettina’), Grotta (Fontana), Luconi (Dalla Via) e Soglio (Dal Soglio?) non sono mai nominate nei documenti più antichi, mentre è ovviamente citato Forni, in quanto capoluogo, e Valpegara. Non compare neanche Barcarola, se non alla fine del XVIII secolo, mentre invece ricorre un luogo, per noi moderni, assai misterioso: la Segha di Russa.
Le contra’ periferiche di Forni si sono formate prevalentemente con l’insediarsi di famiglie di Tonezza in un lungo lasso di tempo a partire dalla metà del XVI secolo. Da un documento del 1560 apprendiamo infatti che un Pettina’ di Tonezza si è trasferito ai Forni e vi dimora. Considerato che il clan dei Pettina’ di valle è saldamente insediato in contra’ Maso, è presumibile che quel capostipite si fosse accasato in quel luogo già in origine. La parte del territorio di Forni a monte di Valpegara, stranamente, venne colonizzata da famiglie, non già di Valpegara o Forni, bensì di Tonezza.
Ma torniamo alla Segha di Russa, che con Valpegara e Forni costituiva il territorio di Forni, pertinenza di Rotzo, distretto Vicentino. Essa era proprietà d’un ramo dei Cerato detto, in latinorum: à Ferra Russe (dal maglio - ferro - di Russa?). Questo soprannome identifica una specifica diramazione dei Cerato e fa supporre che costoro abitassero separati dagli altri e che il loro luogo di residenza fosse caratterizzante.
Li c’era dunque una segheria, questo è evidente. Verosimilmente vi coesistevano o preesistevano industrie legate all’utilizzo della forza motrice dell’acqua dell’Astico, come i magli. I Cerato avevano infatti l'investitura esclusiva delle acque del torrente fin da quando questa era stata loro concessa dalla Serenissima nel 1435 in premio dei loro servigi. Erano commercianti di legnami (1) ed è plausibile che la loro fosse stata in principio l’unica segheria della valle. Pare che l’attività sia stata condotta in proprio a lungo per poi passare ai Cechinato (Zecchinati), che pure vi lavoravano da tempo, nel corso del Millesettecento.
Ma dove si trovava esattamente questo sito? I posti candidati sarebbero tre: Maso, Soglio e Barcarola. Tutti situati in riva all’Astico, nell’orbita dei Cerato e potenzialmente adatti ad ospitare simili infrastrutture. Ma è Barcarola, per diversi motivi, la più accreditata. Da un lato gli Zecchinati sono presenti a Barcarola fin dai primi del Milleseicento e non nelle altre contra’ (rif. Cechinato dalla Sega di Russa - primo nato nel 1613), ma soprattutto perché un documento di compravendita del 1783 (2), fra un Cerato e Giovanni Cecchinato, stipulato inizialmente alla Sega di Russa in casa del secondo, venne perfezionato mesi dopo  nella medesima abitazione detta però stavolta a “Barcarola” (3). Ed è la prima volta che compre ufficialmente questo nome. 
Un toponimo che però non deve trarre in inganno: ragionevolmente la barca non c’entra. Il barco, in veneto, è una costruzione rustica destinata a contenere gli attrezzi da lavoro, separata dalla casa d’abitazione (detta anche barcon o barchessa a seconda delle dimensioni). Un edificio di servizio alla segheria, quindi, che sarebbe congruente al contesto. Forse indicava il fabbricato stesso dell’impianto, cioè una costruzione lunga e bassa, verosimilmente mente in legno.  Nel 1720 troviamo citato un Cechinato barcarolo.
Detto questo, rimane da capire la stranezza del toponimo: cosa vuol dire di Russa? Chi è Russa? A cosa rimanda?
Dicevo poc’anzi che quel ramo dei Cerato era detto à Ferra Russe e più recentemente forse Dal Ferro. Qui ci avvitiamo nel processo indiziario, mancando risultanze inequivocabili. Può darsi che proprio in riva a quell’ansa dell’Astico, nel luogo  chiamato oggi Barcarola, si fosse svolta in antico l’attività di lavorazione mineraria del ferro alla quale pare indissolubilmente legata la stessa origine di Forni. Magari lì era concentrata l'attività di frantumazione e lavaggio del minerale che veniva cavato sulla montagna di Tonezza, nelle concessioni dei Conti Maltraversi. Forse l’ossido delle scorie ferrose (le sléche) colorava quella sponda; atteso che l'etimologia di Russa richiami al rosso, ma è più un'assonanza che una convinzione. Mi sa che il vero significato ancora sfugge. 
(1)           D. Reich – Notizie e documenti di Lavarone e dintorni – 1910 - 1599 pg. 179
(2)           AdS Vicenza: Not. A. Dellai - Forni – Atto n. 93 - 01.07.1783 
(3)           AdS Vicenza: Not. A. Dellai - Forni – Atto n. 117 - 17.12.1783

Ruota di turbina Pelton

Durante le vacanze a St. Michel de Maurienne, ho visto questa ruota di turbina Pelton. Probabilmente  nessuno dei seguaci del blog è mai stato alla Bissorte, ma molte persone della valle hanno lavorato lassù, di conseguenza nella famiglie questa località era conosciuta. La diga è tutta rivestita di sasso, opera degli scalpellini di Tonezza.
Giorgio Toldo




La tempesta nel giardino di Francesco Lorenzi a Thiene il 29 sera


domenica 30 agosto 2020

Correva l'anno...

Anagrafe del Comune di Valdastico al 1° gennaio 1967

Gianni Spagnolo © 200829
Correva l’Anno del Signore 1967..
.. I campi erano ancora arati dal vecchio mulo di Jijota e il canparo era la bestia nera di noi fanciulli in fiore, che saltavamo le vanède costellate da innumerevoli alberi da frutto. Intoccabili! Come lo era quello biblico della conoscenza del Bene e del Male, ma amorevolmente coltivati dai nostri nonni, vecchi ma ancora abili, che tuttavia non avrebbero visto la fine di quel decennio.
Il paese spalancava le porte alla modernità al massimo del suo sviluppo. Le strade, e perfino il bel saliso dei Chéca, erano stati appena asfaltati e ormai persino le bestie in stalla avevano l’acqua corrente. Sparivano, uno dietro l’altro, i vecchi cagaùri, e le posse ai cui angoli spesso s’ergevano, come torri d’un rustico maniero. Le vacche non caracollavano più lente verso la fontana sul far della sera e solo qualche residua boassa costellava quella nera pavimentazione ancor luccicante di godròn.
Molti di coloro che leggeranno queste note erano già parte di quel mondo e quindi annoverati in uno di quei numerini che sono riportati nell’anagrafe della foto d'apertura.
Non ho sufficiente cuore per invitarvi a mettere gli attuali numeri accanto a quelli. Eppure è passato solo mezzo secolo; ben poca cosa nel divenire umano, ma sufficiente a cambiare molte prospettive.

giovedì 27 agosto 2020

Nuovo tetto per il Capitello dei Fozati

È stato possibile realizzare il tutto con l'idea e il contributo del Geom. Slaviero Claudio e la partecipazione della gente delle tre contrade.
Nelle foto: Gian Paolo Alessi, Adriano Carraro, Loris Pretto, Mario Lorenzi.











martedì 25 agosto 2020

La velocità uccide

Mark C. Taylor, filosofo

21 agosto 2020


Questo articolo è stato pubblicato il 9 ottobre 2015 sul numero 1123 di Internazionale. 



“La velocità è dio e il tempo è il demonio”. 
Lo ha detto David Hancock, capo della divisione computer portatili della Hitachi. Nella realtà, la vita accelera fino a far quasi sparire il tempo: “presto” è sempre troppo tardi, bisogna fare tutto adesso, immediatamente. Fare una pausa, rimandare, fermarsi, rallentare vuol dire perdere un’opportunità e dare un vantaggio alla concorrenza. La velocità è diventata la misura del successo: processori più veloci, computer più veloci, reti più veloci, connessioni più veloci, notizie più veloci, comunicazioni più veloci, transazioni più veloci, scambi più veloci, consegne più veloci, menti più veloci, bambini più veloci. Perché siamo così ossessionati dalla velocità?
Il culto della velocità è un fenomeno moderno. Nel Manifesto del futurismo del 1909, Filippo Tommaso Marinetti annunciava: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità”. Questa venerazione rifletteva il profondo cambiamento di valori culturali portato dalla modernità e dalla modernizzazione. All’inizio del ventesimo secolo Frederick Winslow Taylor portò il cronometro in fabbrica, dando inizio a quella cultura della sorveglianza che Charlie Chaplin descrisse in modo memorabile in Tempi moderni. Allora come oggi, la misura dell’efficienza era data dalla capacità di massimizzare e velocizzare la produzione attraverso la programmazione del comportamento umano.
Con il passaggio dalle tecnologie meccaniche a quelle elettroniche la velocità aumentò moltissimo. Invenzioni come il telegrafo e il telefono liberarono la comunicazione dalle costrizioni imposte dai mezzi di trasporto. Prima i messaggi viaggiavano alla stessa velocità degli uomini, dei cavalli, dei treni e delle navi. Ora le parole, i suoni, le informazioni e le immagini riuscivano a percorrere enormi distanze ad altissima velocità. Le reti di trasporto che poi sono diventate la spina dorsale delle reti per la comunicazione furono sviluppate dalle compagnie ferroviarie e navali nella seconda metà dell’ottocento: le fondamenta dell’infrastruttura materiale delle reti digitali nordamericane di oggi sono state gettate dal 1858 al 1869, con la posa dei cavi transatlantici e il completamento della ferrovia transcontinentale.
Facciamo un salto avanti di cent’anni. Nella seconda metà del novecento le tecnologie informatiche, delle comunicazioni e di rete si sono molto evolute, e la velocità di trasmissione è aumentata vertiginosamente. Ma non sono solo i dati e le informazioni a spostarsi più rapidamente. La legge di Moore, secondo cui la velocità dei processori dei computer raddoppia ogni due anni, oggi sembra applicarsi alla vita stessa. Connessi ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette e 365 giorni l’anno, ci affanniamo per cercare di tenere il passo, ma restiamo sempre più indietro. Più andiamo veloci, meno tempo abbiamo. La vita accelera, lo stress aumenta e l’ansia passa dai manager ai lavoratori, dai genitori ai figli.

Le tecnologie che avrebbero dovuto farci risparmiare tempo non ci lasciano neanche un minuto per noi.

C’è un paradosso di fondo in questi sviluppi. Con l’emergere dei computer e di altre tecnologie digitali, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, molti analisti predissero un’era in cui avremmo tutti fatto parte di un unico villaggio globale: finalmente liberati dal fardello del lavoro, avremmo avuto molto più tempo da dedicare ai nostri interessi. Non erano solo pochi romantici idealisti a pensarla così, ma anche serissimi scienziati e politici. Nel 1956 Richard Nixon immaginò una settimana lavorativa di quattro giorni, e meno di dieci anni dopo una sottocommissione del senato ascoltò la testimonianza di un esperto che diceva che nel 2000 gli statunitensi avrebbero lavorato solo 14 ore a settimana.
Ovviamente non è andata così. Contrariamente alle aspettative, le tecnologie che avrebbero dovuto liberarci ci schiavizzano e quelle che avrebbero dovuto farci risparmiare tempo non ci lasciano neanche un minuto per noi. La famosa massima di Henry Ford – otto ore di lavoro, otto ore di tempo libero e otto ore di riposo – sembra ormai il curioso ricordo di un’epoca passata. A livello sia individuale sia collettivo, questi sviluppi riflettono un cambiamento fondamentale del valore sociale del tempo libero. Durante l’epoca che Thorstein Veblen descriveva con grande efficacia in La teoria della classe agiata (1899), lo status sociale di una persona dipendeva da quanto poco lavorava; oggi è vero il contrario. Chi non è connesso tutto il tempo non conta niente. Chi decide coscientemente di scollegarsi per risposare, per giocare o magari anche solo per non fare niente, diventa un fannullone di cui si può fare a meno.
L’impatto della velocità è evidente soprattutto nel mondo della finanza. A partire dagli anni sessanta le tecnologie informatiche e dei mezzi di comunicazione e d’informazione hanno dato origine a una nuova forma di capitalismo. Il capitalismo finanziario si fonda su un cambiamento radicale del modo in cui si calcola il valore economico, che non dipende più dalla relazione di titoli monetari e finanziari con materie prime, prodotti o asset reali come scorte, fabbriche o immobili, ma piuttosto dal loro rapporto con altri titoli finanziari come valute, opzioni, futures, derivati, swap, obbligazioni ipotecarie, bitcoin e un’infinità di altre cosiddette innovazioni finanziarie.
Grazie ai computer e alle reti ad alta velocità, più del 70 per cento delle transazioni viene eseguito da algoritmi in pochi nanosecondi. La funzione principale dei mercati finanziari, dunque, non è più quella di garantire il capitale necessario per mandare avanti fabbriche e imprese. L’economia virtuale di Wall street si è svincolata dall’economia reale. Il valore è determinato da differenze di prezzo infinitesimali che gli esseri umani non sono in grado di riconoscere abbastanza velocemente per eseguire delle transazioni: gli algoritmi possono programmare altri algoritmi di negoziazione in grado di adeguarsi all’istante senza alcun intervento umano.
Mentre l’importanza di transazioni finanziarie veloci e sostanziose è ampiamente riconosciuta, le sue implicazioni politiche non sono state ancora comprese completamente. Il divario di ricchezza di cui si sente tanto parlare, in concreto è un divario di velocità.
Negli ultimi cinquant’anni sono emerse due economie che si muovono a velocità diverse. In una si crea ricchezza vendendo manodopera o beni, nell’altra scambiando titoli di altri titoli. Gli asset virtuali assumono valori diversi a una velocità molto superiore a quella degli asset reali. Un operaio può produrre solo un certo numero di motociclette, un insegnante può fare lezione solo a un certo numero di alunni, un medico può visitare solo un certo numero di pazienti al giorno. Nei mercati ad alta velocità, invece, si vincono o si perdono miliardi di dollari in un miliardesimo di secondo. In questo nuovo mondo, la ricchezza genera ricchezza con una rapidità senza precedenti. Non importa quanti nuovi posti di lavoro si creano nell’economia reale: il divario di ricchezza creato dal divario di velocità non sarà mai colmato. Anzi, continuerà ad allargarsi sempre più velocemente finché non cambieranno i valori di riferimento.
Uno dei valori fondamentali da ripensare è la crescita, che non è sempre stata la base per misurare il successo economico. L’uso del prodotto nazionale lordo e del prodotto interno lordo per valutare l’andamento economico di un paese è in buona parte un effetto della guerra fredda. Siccome il fronte di guerra tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si era allargato all’economia, la questione centrale era quale sistema, tra il capitalismo e il comunismo, fosse in grado di produrre più beni a una velocità superiore. Poi la guerra fredda è finita, ma l’attenzione al tasso di crescita non è scesa. Nel 2012 Jared Bernstein, che era stato consigliere economico del vicepresidente Joseph Biden nella prima amministrazione Obama, concludeva così un editoriale sul New York Times: “La prima cosa da fare è continuare a premere l’acceleratore su quelle misure per la crescita che rafforzano la domanda a breve termine”.


(Angelo Monne)

Ci sono solo tre modi in cui i mercati possono espandersi e continuare a far crescere l’economia: nello spazio (si costruiscono nuove fabbriche e si aprono nuovi negozi in nuove località), attraverso la differenziazione (si crea una varietà infinita di nuovi prodotti da far comprare ai consumatori) e nel tempo (si accelera il ciclo di vita di un prodotto nel mercato). Quando l’espansione nello spazio e la varietà di produzione arrivano al limite, la strategia più efficiente ed efficace per favorire la crescita è accelerare il ricambio dei prodotti. In campo alimentare, nella moda, sui mercati, il tempo è diventato denaro ben al di là di quanto aveva immaginato Benjamin Franklin. Le tanto decantate virtù dell’innovazione sono solo l’ultimo esempio della “distruzione creatrice” teorizzata da Joseph Schumpeter, che invitava a sostenere l’economia accelerando l’obsolescenza. Fuori il vecchio e dentro il nuovo, e prima è meglio è.
L’ossessione per la rapidità oggi rasenta l’assurdo. Nel mondo degli scambi finanziari ad alta velocità, un investitore a Chicago non può più operare sui mercati di New York per via dei nanosecondi aggiuntivi che gli servirebbero a trasmettere gli ordini di acquisto e vendita tramite reti mai abbastanza veloci. Anziché rendere irrilevante lo spazio fisico, la velocità ha reso la prossimità sempre più importante. Le società finanziarie, secondo una prassi chiamata co-location, costruiscono delle sedi per i loro server il più vicino possibile ai server dei mercati su cui operano.
Ma la velocità ha dei limiti. Man mano che l’accelerazione aumenta, le persone, le società, le economie e l’ambiente si avvicinano al baratro. Siamo stati spinti con l’inganno a idolatrare la velocità da un sistema economico che crea il desiderio dove non ce n’è bisogno.
Il mondo che la velocità continua a costruire è insostenibile. Contrariamente a quanto dice Thomas L. Friedman, e cioè che oggi il capitalismo globale ad alta velocità crea un mondo piatto dagli orizzonti illimitati, il mondo è rimasto sferico, e dunque impone delle restrizioni. Se la Terra ha dei limiti, non può più esserci espansione senza contrazione, e non può esserci crescita senza redistribuzione. Quando si superano i limiti, anche le reti che sostengono la vita delle persone sono a rischio.
Valori distorti
Per capire perché ci stiamo avvicinando al punto critico, dobbiamo adottare un approccio di sistema. Il capitalismo finanziario è l’esempio di un principio che vale per tutti i sistemi complessi. Ognuno di questi sistemi contiene il germe dalla sua distruzione. Nel caso degli Stati Uniti, le politiche di crescita che hanno permesso all’economia di prosperare per decenni oggi minacciano di farla crollare. Più in generale, i mercati ad alta velocità e ad alti volumi hanno creato una ricchezza senza precedenti per lo 0,01 per cento della popolazione, ma come hanno dimostrato la crisi finanziaria del 2008 e il flash crash del 2010, hanno anche reso l’economia globale molto più instabile.
Il problema non è solo trovare un rimedio tecnologico per i mercati truccati, come ha sostenuto Michael Lewis in Flash boys. Il problema è che l’intero sistema si fonda su valori ormai distorti – individualismo, utilità, produttività, concorrenza, consumo, velocità – e, come se non bastasse, ha represso una serie di valori che oggi bisogna ricominciare a coltivare: sostenibilità, comunità, cooperazione, generosità, pazienza, sottigliezza, riflessione, lentezza. Per evitare il tracollo psicologico, sociale, economico e anche ecologico, abbiamo bisogno di quella che Nietzsche opportunamente chiamava “trasvalutazione dei valori”.
Da insegnante, mi piacerebbe che questo processo cominciasse nelle scuole. Purtroppo, molti degli sviluppi che hanno cambiato il nostro sistema economico hanno trasformato anche il nostro sistema scolastico. Spesso mi chiedono che variazioni ho notato negli studenti e nell’istruzione superiore durante i miei quarant’anni d’insegnamento. Non è facile dare una risposta, ma i cambiamenti principali possono essere classificati sotto cinque voci: iperspecializzazione, quantificazione, distrazione, accelerazione e professionalizzazione.
Come ho già detto, molte tecnologie che sono state concepite per mettere in contatto e avvicinare le persone stanno creando profonde divisioni sociali, politiche ed economiche. Nei mezzi di comunicazione, la proliferazione delle testate ha portato a una sorta di personalizzazione di massa, che permette a singoli individui e a gruppi isolati di ricevere notizie tagliate su misura per loro e di rinchiudersi nelle loro torri d’avorio senza preoccuparsi di conoscere altri punti di vista. Questo fenomeno sta contagiando anche l’istruzione.
Dall’inizio degli anni settanta, l’istruzione superiore ha sofferto di una specializzazione sempre più esasperata e, di conseguenza, di un’eccessiva professionalizzazione. Si è così creata una cultura della competenza specialistica in cui gli studiosi, che sanno sempre di più su sempre meno cose, passano tutta la loro vita professionale a parlare con altri studiosi che s’interessano a cose simili e si preoccupano poco del mondo che li circonda. E la conseguenza è stata una frammentazione di discipline, dipartimenti e piani di studio.
Con internet ci sarebbe stata la possibilità di erodere queste barriere e di abbattere i muri, ma gli interessi particolari di amministratori ansiosi e professori baroni ancora legati a modi obsoleti di organizzare la conoscenza e di insegnare hanno vanificato questa prospettiva. Anziché allargare il campo della discussione, le tecnologie di rete ne hanno soprattutto ristretto i confini. Affrontare i problemi posti da un mondo sempre collegato richiederà una ristrutturazione radicale del sistema scolastico, a tutti i livelli.
La crescente preoccupazione per l’efficacia dell’istruzione primaria, secondaria e postsecondaria ha fatto concentrare l’attenzione di tutti sulla valutazione di studenti e insegnanti. Per gli amministratori, costantemente sotto pressione, il modo più rapido ed efficiente di fare queste valutazioni è stato adottare metodi quantitativi che si sono dimostrati molto efficaci nel mondo delle imprese. Misurare i flussi in entrata e in uscita e la capacità produttiva è diventato un metodo universalmente accettato per calcolare costi e benefici dell’istruzione. La valutazione quantitativa sarà anche efficace per alcune attività e materie, ma molti degli aspetti più importanti dell’istruzione non si possono quantificare. Quando si comincia a credere che ciò che non si può misurare non è reale, l’istruzione (e per estensione, la società) perde la sua anima.
I giovani di oggi non sono solo distratti: internet e i videogiochi gli stanno riconfigurando il cervello. I neuroscienziati hanno riscontrato differenze cerebrali evidenti tra gli adolescenti “dipendenti” e gli utenti “sani”. La dipendenza da internet è un’area su cui la ricerca scientifica ha appena cominciato a lavorare sul serio. L’epidemia di disturbo da deficit di attenzione è un’ulteriore dimostrazione degli effetti deleteri che ha un uso eccessivo degli strumenti di comunicazione digitali. Per aiutare i pazienti che hanno difficoltà a concentrarsi, molti medici prescrivono a cuor leggero il Ritalin, che è praticamente un’anfetamina, e gli studenti che restano alzati la notte per studiare lo prendono per avere un vantaggio sui loro colleghi.
Anziché resistere a queste pressioni, molti genitori le accentuano, programmando la vita dei loro figli fin dall’asilo in funzione del successo. Ma la vera conoscenza non si può programmare, e la creatività non si può affrettare: va coltivata lentamente e pazientemente. Come molti scienziati, scrittori e artisti ripetono da tempo, le idee più creative spesso vengono nei momenti di ozio.
Molti si lamentano del fatto che i giovani non leggono o non scrivono più come facevano una volta. Ma è un approccio sbagliato: probabilmente i giovani leggono e scrivono molto più che in passato. Il problema è come leggono e cosa scrivono. È ormai dimostrato che quando si è online ci si dedica a queste attività in modo diverso. Di nuovo, la variabile cruciale è la velocità. Il più delle volte, la lettura online sembra più un’elaborazione istantanea delle informazioni che una riflessione attenta e consapevole. I ricercatori hanno scoperto che la lettura dei contenuti web procede secondo un “modello a forma di F”: quando si scorre una pagina si leggono sempre meno parole su ogni riga man mano che si va avanti. Quando la velocità è essenziale, la brevità diventa una virtù, la complessità cede il passo alla semplicità e la profondità di significato si dissolve: email frammentate, tweet di 140 caratteri al massimo, blog sciatti e pieni di errori. Oscurità, ambiguità e incertezza, che sono la linfa vitale dell’arte, della letteratura e della filosofia, diventano questioni di decodifica.
Infine, la professionalizzazione. Vista l’impennata dei costi dell’università, oggi genitori, studenti e politici s’interrogano sull’utilità dell’istruzione superiore. L’università prepara gli studenti per il mondo del lavoro di domani? Quale laurea dà più sbocchi professionali? Gli amministratori delle università difendono il valore economico dell’istruzione superiore citando il maggiore potenziale di guadagno dei laureati. Ma il valore non si misura solo in termini economici, e l’attenzione a ciò che il mercato considera utile e pratico ha portato a un declino del valore percepito delle arti e degli studi umanistici, che oggi molti vedono come lussi superflui.


C’è un profondo equivoco su ciò che è pratico e ciò che non lo è, e anche una certa confusione tra il concetto di “pratico” e quello di “professionale”. Gli studi umanistici e letterari non sono mai stati così importanti come nel mondo globalizzato di oggi. L’istruzione focalizzata su scienza, tecnologia, ingegneria e matematica non basta: per sopravvivere – e magari anche per avere successo – nel ventunesimo secolo, bisogna studiare religione, filosofia, arte, lingue, letteratura e storia. I giovani devono imparare che la memoria non può essere affidata alle macchine, e che le soluzioni a breve termine per problemi a lungo termine non sono mai sufficienti. I professori hanno la responsabilità di insegnare agli studenti a pensare in modo critico e creativo ai valori che guidano la loro vita e modellano la società in generale.
Tutto questo non si può fare in fretta: ci vorrà il tempo che troppe persone oggi pensano di non avere.
L’accelerazione è insostenibile. Alla fine la velocità uccide. 
Il rallentamento necessario a rimandare e forse a evitare l’implosione dei sistemi collegati che tengono insieme le nostre vite non è solo il tempo che ci prendiamo per sentire il profumo delle rose o per stare con la famiglia, anche se queste cose sono importanti.
Nel lungo arco della storia, l’ossessione per la velocità è uno sviluppo recente, frutto di valori che sono diventati distruttivi. Non tutta la realtà è virtuale, e non è detto che chi è più veloce erediterà la Terra. I sistemi complessi non possono adattarsi all’infinito, e quando crollano lo fanno da un momento all’altro, spesso in modo inaspettato. Il tempo sta velocemente scadendo.
(Traduzione di Fabrizio Saulini)

21 agosto - il cielo dal capitello della Torra (a occhio nudo non si vedeva quello della prima foto) - foto di Federico e Samuele



Curiosità segnalate da Francesco Lorenzi








Potpourri


La maggior parte dell'umanità è predisposta alla sottomissione.
Gente inconsapevole, gestita completamente.
Chi ha capito, ha capito, non ha bisogno di consigli. Chi non ha capito, non capirà mai.
Io non biasimo queste persone perché sono struttutate per vivere e basta.
Cosa vuol dire vivere e basta?
Mangiare, bere, respirare, partorire, lavorare, guardare la televisione, mangiare la pizza il sabato sera, andare a vedere la partita, il loro mondo finisce lì.
Non sono in grado di percepire altro.
C'è un piccolissimo gruppo di esseri umani che sono "difetti di fabbricazione"; sono sfuggiti al controllo qualità della linea di produzione.
Sono pochi, sono eretici, sono guerrieri.

(Carlos Castaneda)

lunedì 24 agosto 2020

Si guardano sempre volentieri le foto di un tempo che fu... (foto da Carlo Slaviero)





 1 - LORENZI NEREO
 2 -
 3 - PIEROTTO MARILENA
 4 - GIANNA TOLDO baga
 5 - CERATO LILIANA
 6 - SLAVIERO TERENZIO
 7 -
 8 -
 9 - LORENZI ANTONIETTA
10 - STEFANI LUIGIA
11 - TOLDO FERNANDA
12 - LORENZI LORENZO
13 - SLAVIERO GIOVANNI
14 - LORENZI GIOVANNI
15 - MUNARI CANDIDA
16 - SELLA VITO
17 - moglie GIACOMELLI NICO
18 - GIACOMELLI NICO



 1 - Alessi Celso?
 2 - Lorenzi Domenico
 3 - Pretto Rosalia
 4 - Slaviero Giovanni
 5 - Toldo Domenico
 6 -
 7 - Munari Candida
 8 -
 9 -
10 - Stefani Luigia
11 -
12 - Sella Francesco

domenica 23 agosto 2020

La pagina della domenica




IL VANGELO DI OGGI

 
di Luciano Manicardi

Gesù si fa domanda per i suoi discepoli. E Gesù raggiunge noi come domanda. Lui stesso è la domanda che ci inquieta, che ci scuote, che non chiede di essere evasa da una risposta illusoriamente esauriente, ma riproposta ogni giorno e in ogni fase della vita. Anche per il credente Gesù non è anzitutto e soltanto una risposta, o la risposta, ma una domanda, la domanda.

In quel tempo Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.


LA FRASE

Per conservare un Amico bisogna onorarlo in presenza, lodarlo in assenza e aiutarlo nel bisogno.


LA POESIA

Sola
nel buio soffuso
del pensiero ricorrente
che non si stanca
di mostrarmi estranea al mondo
Freddo acceso
questo non senso dell'esistere
ed insistere a misurarsi col tempo
e perdere sempre


Francesca Stassi

RELAX



Riflettiamo...


Post di Anna Belloni

Immagina di esser nato nel 1900.
Quando hai 14 anni
inizia la prima guerra mondiale
e finisce quando ne hai 18
con 22 milioni di morti.

Poco dopo, una pandemia mondiale,
una influenza chiamata "spagnola",
uccide 50 milioni di persone.
Ne esci vivo e indenne,
hai 20 anni.

Poi a 29 anni sopravvivi alla crisi economica mondiale iniziata con il crollo della borsa di New York, provocando inflazione, disoccupazione e carestia.

A 33 anni i nazisti arrivano al potere.
Hai 39 anni quando inizia la Seconda guerra mondiale
e finisce quando hai 45 anni. Durante l'Olocausto (Shoáh) muoiono 6 milioni di ebrei.
Ci saranno oltre 60 milioni di morti in totale.

Quando hai 52 anni inizia la guerra di Corea.

Quando hai 64 anni inizia la guerra del Vietnam e finisce quando hai 75 anni.

Un bambino nato nel 1985 pensa che i suoi nonni non abbiano idea di quanto sia difficile la vita,
e invece sono sopravvissuti a diverse guerre e catastrofi.

Un ragazzo nato nel 1995 e oggi di 25 anni pensa che sia la fine del mondo quando il suo pacco Amazon richiede più di tre giorni per arrivare o quando non ottiene più di 15 ′′like′′ per la sua foto pubblicata su Facebook o Instagram...

Nel 2020 molti di noi vivono nel comfort, abbiamo accesso a diverse fonti di intrattenimento a casa e spesso abbiamo più del necessario.

Ma le persone si lamentano per ogni cosa.
Eppure hanno elettricità, telefono, cibo, acqua calda e tetto sulla testa.

Nulla di tutto questo esisteva in passato.
Ma l'umanità è sopravvissuta a circostanze molto più gravi e non ha mai perso la gioia di vivere.

Forse è ora di essere meno egoisti, smettere di lamentarsi e piangere.

(Anonimo)

Potpourri


Quando uno è arrabbiato,
 dice cose che spesso non pensa.
E' una reazione spontanea,
è nell'indole di ogni uomo.
Quando uno è arrabbiato,
cerca le frasi
che possano il più possibile
ferire la persona a cui sono dirette.
Ma in realtà,
a conti fatti,
a litigio terminato,
sta più male
la persona che ha ricevuto
quelle frecce avvelenate
o colui
che le ha scagliate?

L. A. Seneca

Il convolvolo: l'erba infestante dai bei fiori a campana.





Il convolvolo, o vilucchio, è una pianta erbacea perenne, infestante: il fusto è strisciante si avvolge attorno alle altre piante o ai loro sostegni arrampicandovisi. Ma in assenza di piante coltivate o di altri sostegni, il vilucchio “cammina” sul terreno e può raggiungere una lunghezza di 5 metri. Molto presente negli incolti ai margini delle strade, infesta siepi, giardini, orti, vigneti, frutteti e varie colture poliennali.
Cresce dal mare alla zona montana nelle regioni temperate dei due emisferi eccetto l’Australia.
Fiorisce da maggio ad ottobre con bei fiori campanulati bianchi o rosa.

Ora che leggo... qualcosina mi ricordo...


Il 20 Agosto 1973, al Sud, ci fu una grande epidemia di colera.
L'epidemia di colera ad Agosto del 1973 è stata un'epidemia che si verificò nelle aree costiere delle regioni Campania, Puglia e Sardegna tra il 20 agosto e il 12 ottobre, quando vennero diagnosticati 278 casi di colera causati dal Vibrione del colera. Quasi tutti i casi coinvolsero gli adulti, con una preponderanza di uomini, e causarono complessivamente 24 decessi.
L'improvvisa epidemia, forse causata dal consumo di cozze crude o altri frutti di mare contaminati dal vibrione, causò un grande allarmismo nella popolazione (all'ospedale Cotugno di Napoli vennero ricoverate 911 persone in dieci giorni), ma già pochi giorni dopo l'inizio dell'emergenza venne avviata la più grande operazione di profilassi nel secondo dopoguerra che portò alla vaccinazione di circa un milione di napoletani in appena una settimana, grazie anche all'aiuto dell'impiego delle siringhe a pistola messe a disposizione dalla Sesta flotta degli Stati Uniti d'America.
Già dopo ferragosto del 1973 risultarono alcuni casi di gastroenterite acuta che avevano portato al decesso di alcune persone presenti nel napoletano.
Il 26 e 27 agosto morirono all'ospedale Maresca di Torre del Greco due donne residenti a San Giuseppe alle Paludi, di 70 e 78 anni. 
Il professor Antonio Brancaccio (1930-2011), primario di medicina dell'ospedale Maresca, ipotizzò tuttavia che si trattasse di qualcosa di ben più grave, annotando nelle cartelle cliniche una "sindrome coleriforme" e chiedendo il trasferimento all'ospedale Cotugno di Napoli: peraltro, Ferruccio De Lorenzo, direttore dell'ospedale partenopeo, criticò polemicamente tale diagnosi, accusando il collega di "scandalismo". La notizia del colera iniziò a diffondersi la sera 28 agosto, il Ministero della sanità emise un comunicato stampa secondo cui dal 23 agosto nella zona di Ercolano-Torre del Greco si erano manifestati 14 casi di gastroenterite acuta, per i quali era sorto il sospetto che si trattasse di infezione da vibrione colerico, il cui focolaio era però circoscritto ai casi individuati.
Il giorno dopo, il quotidiano Il Mattino aprì la prima pagina con la notizia di sette morti (cinque a Torre del Greco e due a Napoli) e più di 50 ricoverati all'ospedale Cutugno. In brevissimo tempo si scatenò il panico tra la popolazione, si registrarono infatti rivolte, blocchi stradali, rifiuti incendiati e assalti ai camion della disinfestazione. Paolo Cirino Pomicino, all'epoca assessore ai cimiteri di Napoli, fu accusato di nascondere centinaia di cadaveri per occultare l'emergenza. Le autorità provvedettero ad iperclorinare le acque dell'acquedotto municipale, proibendo la vendita dei frutti di mare e sequestrandoli nei ristoranti, avviando una campagna straordinaria di raccolta dei rifiuti, pulizia delle strade e disinfestazione dalle mosche, vennero interdette le spiagge e le aree di balneazione, ispezionati teatri, cinema e altri luoghi di aggregazione. Il 31 agosto, quando all'ospedale Cotugno di Napoli risultavono ricoverati già 220 pazienti sospettati di aver contratto la patologia, i cittadini partenopei assediarono il municipio di Napoli, data la carenza di vaccini e sulfamidici, mentre i limoni (il cui succo può attenuare gli effetti del vibrione) erano ormai disponibili solo al mercato nero a prezzi proibitivi. A Ercolano i carabinieri furono costretti a disperdere la folla con il lancio di lacrimogeni. Data la lentezza dell'amministrazione comunale di Napoli, alcuni militanti del Partito Comunista Italiano allestirono in fretta il primo centro vaccinale nei pressi della Casa del Popolo nel quartiere Ponticelli, poi trasferito nella scuola Enrico Toti.
Si stima che i presidi sanitari riuscirono a vaccinare il 50-80 per cento della popolazione.
A Napoli e Ercolano venne vietato il commercio di molluschi, pesci e fichi, e fu disposto il sequestro delle cozze, provocando la rivolta dei pescatori professionali che per protesta mangiarono i loro prodotti ittici crudi per evidenziarne la purezza e in effetti col passare di altri giorni si determinò la causa dell’infezione intestinale, che fu sì individuata nelle cozze, ma in una partita arrivata dalla Tunisia, si può quindi ben dire che il colera arrivò in Italia tramite dei frutti di mare tunisini contaminati.
Anche a Bari, il problema fu inizialmente sottovalutato. La Gazzetta Del Mezzogiorno titolava: "E' colera, ma non c'è da perdere la testa".
Il presidente Giovanni Leone, nella sua visita al Policlinico di Bari del 1973, disse, rivolgendosi a un gruppo di giovani ricoverate: "Vedo che ci sono anche delle signorine. Auguri di buona salute. Sono certo che con il sussidio di questi bravi medici, tornerete presto a casa".
Tuttavia le disfunzioni erano evidenti: l'ospedale "Di Venere" rimase senz'acqua in piena emergenza. Vennero chiusi cinema, scuole, università, vennero vietati i bagni sia nelle spiagge libere che in quelle a pagamento. La squadra di calcio del Verona annullò la partita in programma con il Bari.
Curiosamente, l'ultimo caso di colera a Napoli venne diagnosticato il 19 settembre, nella ricorrenza patronale di San Gennaro, anche se in tale occasione non avvenne il prodigio della liquefazione del sangue del santo contenuto nell'ampolla.
(da una ricerca in Internet)
... io avevo 12 anni e mi ricordo qualcosa, abitavo già a Torino, ma in Estate tornavo al mio paese, Gioia Del Colle, provincia di Bari e se non ricordo male quell'anno non scendemmo giù perchè appunto c'era l'emergenza del colera e ricordo che qualcuno, a noi meridionali trapiantati al Nord, ci guardavano con sospetto come se fossimo portatori di colera... io ero solo una bambina e certe cose ancora non le capivo... non capivo questo "odio razziale"... così come non lo capisco nemmeno adesso...
Maria Siniscalchi web

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...