21 agosto 2020
Questo articolo è stato pubblicato il 9 ottobre
2015 sul numero
1123 di Internazionale.
“La velocità è dio e il tempo è il demonio”.
Lo ha detto David Hancock, capo della divisione computer portatili
della Hitachi. Nella realtà, la vita accelera fino a far quasi
sparire il tempo: “presto” è sempre troppo tardi, bisogna fare tutto adesso, immediatamente. Fare una
pausa, rimandare, fermarsi, rallentare vuol dire perdere
un’opportunità e dare un vantaggio alla concorrenza. La velocità
è diventata la misura del successo: processori più veloci,
computer più veloci, reti più veloci, connessioni più veloci,
notizie più veloci, comunicazioni più veloci, transazioni più
veloci, scambi più veloci, consegne più veloci, menti più veloci,
bambini più veloci. Perché siamo così ossessionati dalla
velocità?
Il culto della velocità è un fenomeno moderno.
Nel Manifesto del futurismo del 1909, Filippo Tommaso
Marinetti annunciava: “Noi affermiamo che la magnificenza del
mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della
velocità”. Questa venerazione rifletteva il profondo cambiamento
di valori culturali portato dalla modernità e dalla
modernizzazione. All’inizio del ventesimo secolo Frederick Winslow
Taylor portò il cronometro in fabbrica, dando inizio a quella
cultura della sorveglianza che Charlie Chaplin descrisse in modo
memorabile in Tempi moderni. Allora come oggi, la misura
dell’efficienza era data dalla capacità di massimizzare e
velocizzare la produzione attraverso la programmazione del
comportamento umano.
Con il passaggio dalle tecnologie meccaniche a
quelle elettroniche la velocità aumentò moltissimo. Invenzioni
come il telegrafo e il telefono liberarono la comunicazione dalle
costrizioni imposte dai mezzi di trasporto. Prima i messaggi
viaggiavano alla stessa velocità degli uomini, dei cavalli, dei
treni e delle navi. Ora le parole, i suoni, le informazioni e le
immagini riuscivano a percorrere enormi distanze ad altissima
velocità. Le reti di trasporto che poi sono diventate la spina
dorsale delle reti per la comunicazione furono sviluppate dalle
compagnie ferroviarie e navali nella seconda metà dell’ottocento:
le fondamenta dell’infrastruttura materiale delle reti digitali
nordamericane di oggi sono state gettate dal 1858 al 1869, con la
posa dei cavi transatlantici e il completamento della ferrovia
transcontinentale.
Facciamo un salto avanti di cent’anni. Nella
seconda metà del novecento le tecnologie informatiche, delle
comunicazioni e di rete si sono molto evolute, e la velocità di
trasmissione è aumentata vertiginosamente. Ma non sono solo i dati
e le informazioni a spostarsi più rapidamente. La legge di Moore,
secondo cui la velocità dei processori dei computer raddoppia ogni
due anni, oggi sembra applicarsi alla vita stessa. Connessi
ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette e 365 giorni
l’anno, ci affanniamo per cercare di tenere il passo, ma restiamo
sempre più indietro. Più andiamo veloci, meno tempo abbiamo. La
vita accelera, lo stress aumenta e l’ansia passa dai manager ai
lavoratori, dai genitori ai figli.
Le tecnologie che avrebbero dovuto farci
risparmiare tempo non ci lasciano neanche un minuto per noi.
C’è un paradosso di fondo in questi sviluppi.
Con l’emergere dei computer e di altre tecnologie digitali, tra la
fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, molti
analisti predissero un’era in cui avremmo tutti fatto parte di un
unico villaggio globale: finalmente liberati dal fardello del
lavoro, avremmo avuto molto più tempo da dedicare ai nostri
interessi. Non erano solo pochi romantici idealisti a pensarla così,
ma anche serissimi scienziati e politici. Nel 1956 Richard Nixon
immaginò una settimana lavorativa di quattro giorni, e meno di
dieci anni dopo una sottocommissione del senato ascoltò la
testimonianza di un esperto che diceva che nel 2000 gli statunitensi
avrebbero lavorato solo 14 ore a settimana.
Ovviamente non è andata così. Contrariamente alle
aspettative, le tecnologie che avrebbero dovuto liberarci ci
schiavizzano e quelle che avrebbero dovuto farci risparmiare tempo
non ci lasciano neanche un minuto per noi. La famosa massima di
Henry Ford – otto ore di lavoro, otto ore di tempo libero e otto
ore di riposo – sembra ormai il curioso ricordo di un’epoca
passata. A livello sia individuale sia collettivo, questi sviluppi
riflettono un cambiamento fondamentale del valore sociale del tempo
libero. Durante l’epoca che Thorstein Veblen descriveva con grande
efficacia in La teoria della classe agiata (1899), lo
status sociale di una persona dipendeva da quanto poco lavorava;
oggi è vero il contrario. Chi non è connesso tutto il tempo non
conta niente. Chi decide coscientemente di scollegarsi per
risposare, per giocare o magari anche solo per non fare niente,
diventa un fannullone di cui si può fare a meno.
L’impatto della velocità è evidente soprattutto
nel mondo della finanza. A partire dagli anni sessanta le tecnologie
informatiche e dei mezzi di comunicazione e d’informazione hanno
dato origine a una nuova forma di capitalismo. Il capitalismo
finanziario si fonda su un cambiamento radicale del modo in cui si
calcola il valore economico, che non dipende più dalla relazione di
titoli monetari e finanziari con materie prime, prodotti o asset
reali come scorte, fabbriche o immobili, ma piuttosto dal loro
rapporto con altri titoli finanziari come valute, opzioni, futures,
derivati, swap, obbligazioni ipotecarie, bitcoin e
un’infinità di altre cosiddette innovazioni finanziarie.
Grazie ai computer e alle reti ad alta velocità,
più del 70 per cento delle transazioni viene eseguito da algoritmi
in pochi nanosecondi. La funzione principale dei mercati finanziari,
dunque, non è più quella di garantire il capitale necessario per
mandare avanti fabbriche e imprese. L’economia virtuale di Wall
street si è svincolata dall’economia reale. Il valore è
determinato da differenze di prezzo infinitesimali che gli esseri
umani non sono in grado di riconoscere abbastanza velocemente per
eseguire delle transazioni: gli algoritmi possono programmare altri
algoritmi di negoziazione in grado di adeguarsi all’istante senza
alcun intervento umano.
Mentre l’importanza di transazioni finanziarie
veloci e sostanziose è ampiamente riconosciuta, le sue implicazioni
politiche non sono state ancora comprese completamente. Il divario
di ricchezza di cui si sente tanto parlare, in concreto è un
divario di velocità.
Negli ultimi cinquant’anni sono emerse due
economie che si muovono a velocità diverse. In una si crea
ricchezza vendendo manodopera o beni, nell’altra scambiando titoli
di altri titoli. Gli asset virtuali assumono valori diversi
a una velocità molto superiore a quella degli asset reali.
Un operaio può produrre solo un certo numero di motociclette, un
insegnante può fare lezione solo a un certo numero di alunni, un
medico può visitare solo un certo numero di pazienti al giorno. Nei
mercati ad alta velocità, invece, si vincono o si perdono miliardi
di dollari in un miliardesimo di secondo. In questo nuovo mondo, la
ricchezza genera ricchezza con una rapidità senza precedenti. Non
importa quanti nuovi posti di lavoro si creano nell’economia
reale: il divario di ricchezza creato dal divario di velocità non
sarà mai colmato. Anzi, continuerà ad allargarsi sempre più
velocemente finché non cambieranno i valori di riferimento.
Uno dei valori fondamentali da ripensare è la
crescita, che non è sempre stata la base per misurare il successo
economico. L’uso del prodotto nazionale lordo e del prodotto
interno lordo per valutare l’andamento economico di un paese è in
buona parte un effetto della guerra fredda. Siccome il fronte di
guerra tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si era allargato
all’economia, la questione centrale era quale sistema, tra il
capitalismo e il comunismo, fosse in grado di produrre più beni a
una velocità superiore. Poi la guerra fredda è finita, ma
l’attenzione al tasso di crescita non è scesa. Nel 2012 Jared
Bernstein, che era stato consigliere economico del vicepresidente
Joseph Biden nella prima amministrazione Obama, concludeva così un
editoriale sul New York Times: “La prima cosa da fare è
continuare a premere l’acceleratore su quelle misure per la
crescita che rafforzano la domanda a breve termine”.
(Angelo Monne)
Ci sono solo tre modi in cui i mercati possono
espandersi e continuare a far crescere l’economia: nello spazio
(si costruiscono nuove fabbriche e si aprono nuovi negozi in nuove
località), attraverso la differenziazione (si crea una varietà
infinita di nuovi prodotti da far comprare ai consumatori) e nel
tempo (si accelera il ciclo di vita di un prodotto nel mercato).
Quando l’espansione nello spazio e la varietà di produzione
arrivano al limite, la strategia più efficiente ed efficace per
favorire la crescita è accelerare il ricambio dei prodotti. In
campo alimentare, nella moda, sui mercati, il tempo è diventato
denaro ben al di là di quanto aveva immaginato Benjamin Franklin.
Le tanto decantate virtù dell’innovazione sono solo l’ultimo
esempio della “distruzione creatrice” teorizzata da Joseph
Schumpeter, che invitava a sostenere l’economia accelerando
l’obsolescenza. Fuori il vecchio e dentro il nuovo, e prima è
meglio è.
L’ossessione per la rapidità oggi rasenta
l’assurdo. Nel mondo degli scambi finanziari ad alta velocità, un
investitore a Chicago non può più operare sui mercati di New York
per via dei nanosecondi aggiuntivi che gli servirebbero a
trasmettere gli ordini di acquisto e vendita tramite reti mai
abbastanza veloci. Anziché rendere irrilevante lo spazio fisico, la
velocità ha reso la prossimità sempre più importante. Le società
finanziarie, secondo una prassi chiamata co-location,
costruiscono delle sedi per i loro server il più vicino possibile
ai server dei mercati su cui operano.
Ma la velocità ha dei limiti. Man mano che
l’accelerazione aumenta, le persone, le società, le economie e
l’ambiente si avvicinano al baratro. Siamo stati spinti con
l’inganno a idolatrare la velocità da un sistema economico che
crea il desiderio dove non ce n’è bisogno.
Il mondo che la velocità continua a costruire è
insostenibile. Contrariamente a quanto dice Thomas L. Friedman, e
cioè che oggi il capitalismo globale ad alta velocità crea un
mondo piatto dagli orizzonti illimitati, il mondo è rimasto
sferico, e dunque impone delle restrizioni. Se la Terra ha dei
limiti, non può più esserci espansione senza contrazione, e non
può esserci crescita senza redistribuzione. Quando si superano i
limiti, anche le reti che sostengono la vita delle persone sono a
rischio.
Valori distorti
Per capire
perché ci stiamo avvicinando al punto critico, dobbiamo adottare un
approccio di sistema. Il capitalismo finanziario è l’esempio di
un principio che vale per tutti i sistemi complessi. Ognuno di
questi sistemi contiene il germe dalla sua distruzione. Nel caso
degli Stati Uniti, le politiche di crescita che hanno permesso
all’economia di prosperare per decenni oggi minacciano di farla
crollare. Più in generale, i mercati ad alta velocità e ad alti
volumi hanno creato una ricchezza senza precedenti per lo 0,01 per
cento della popolazione, ma come hanno dimostrato la crisi
finanziaria del 2008 e il flash crash del 2010, hanno anche
reso l’economia globale molto più instabile.
Il problema non è solo trovare un rimedio
tecnologico per i mercati truccati, come ha sostenuto Michael Lewis
in Flash boys. Il problema è che l’intero sistema si
fonda su valori ormai distorti – individualismo, utilità,
produttività, concorrenza, consumo, velocità – e, come se non
bastasse, ha represso una serie di valori che oggi bisogna
ricominciare a coltivare: sostenibilità, comunità, cooperazione,
generosità, pazienza, sottigliezza, riflessione, lentezza. Per
evitare il tracollo psicologico, sociale, economico e anche
ecologico, abbiamo bisogno di quella che Nietzsche opportunamente
chiamava “trasvalutazione dei valori”.
Da insegnante, mi piacerebbe che questo processo
cominciasse nelle scuole. Purtroppo, molti degli sviluppi che hanno
cambiato il nostro sistema economico hanno trasformato anche il
nostro sistema scolastico. Spesso mi chiedono che variazioni ho
notato negli studenti e nell’istruzione superiore durante i miei
quarant’anni d’insegnamento. Non è facile dare una risposta, ma
i cambiamenti principali possono essere classificati sotto cinque
voci: iperspecializzazione, quantificazione, distrazione,
accelerazione e professionalizzazione.
Come ho già detto, molte tecnologie che sono state
concepite per mettere in contatto e avvicinare le persone stanno
creando profonde divisioni sociali, politiche ed economiche. Nei
mezzi di comunicazione, la proliferazione delle testate ha portato a
una sorta di personalizzazione di massa, che permette a singoli
individui e a gruppi isolati di ricevere notizie tagliate su misura
per loro e di rinchiudersi nelle loro torri d’avorio senza
preoccuparsi di conoscere altri punti di vista. Questo fenomeno sta
contagiando anche l’istruzione.
Dall’inizio degli anni settanta, l’istruzione
superiore ha sofferto di una specializzazione sempre più esasperata
e, di conseguenza, di un’eccessiva professionalizzazione. Si è
così creata una cultura della competenza specialistica in cui gli
studiosi, che sanno sempre di più su sempre meno cose, passano
tutta la loro vita professionale a parlare con altri studiosi che
s’interessano a cose simili e si preoccupano poco del mondo che li
circonda. E la conseguenza è stata una frammentazione di
discipline, dipartimenti e piani di studio.
Con internet ci sarebbe stata la possibilità di
erodere queste barriere e di abbattere i muri, ma gli interessi
particolari di amministratori ansiosi e professori baroni ancora
legati a modi obsoleti di organizzare la conoscenza e di insegnare
hanno vanificato questa prospettiva. Anziché allargare il campo
della discussione, le tecnologie di rete ne hanno soprattutto
ristretto i confini. Affrontare i problemi posti da un mondo sempre
collegato richiederà una ristrutturazione radicale del sistema
scolastico, a tutti i livelli.
La crescente preoccupazione per l’efficacia
dell’istruzione primaria, secondaria e postsecondaria ha fatto
concentrare l’attenzione di tutti sulla valutazione di studenti e
insegnanti. Per gli amministratori, costantemente sotto pressione,
il modo più rapido ed efficiente di fare queste valutazioni è
stato adottare metodi quantitativi che si sono dimostrati molto
efficaci nel mondo delle imprese. Misurare i flussi in entrata e in
uscita e la capacità produttiva è diventato un metodo
universalmente accettato per calcolare costi e benefici
dell’istruzione. La valutazione quantitativa sarà anche efficace
per alcune attività e materie, ma molti degli aspetti più
importanti dell’istruzione non si possono quantificare. Quando si
comincia a credere che ciò che non si può misurare non è reale,
l’istruzione (e per estensione, la società) perde la sua anima.
I giovani di oggi non sono solo distratti: internet
e i videogiochi gli stanno riconfigurando il cervello. I
neuroscienziati hanno riscontrato differenze cerebrali evidenti tra
gli adolescenti “dipendenti” e gli utenti “sani”. La
dipendenza da internet è un’area su cui la ricerca scientifica ha
appena cominciato a lavorare sul serio. L’epidemia di disturbo da
deficit di attenzione è un’ulteriore dimostrazione degli effetti
deleteri che ha un uso eccessivo degli strumenti di comunicazione
digitali. Per aiutare i pazienti che hanno difficoltà a
concentrarsi, molti medici prescrivono a cuor leggero il Ritalin,
che è praticamente un’anfetamina, e gli studenti che restano
alzati la notte per studiare lo prendono per avere un vantaggio sui
loro colleghi.
Anziché resistere a queste pressioni, molti
genitori le accentuano, programmando la vita dei loro figli fin
dall’asilo in funzione del successo. Ma la vera conoscenza non si
può programmare, e la creatività non si può affrettare: va
coltivata lentamente e pazientemente. Come molti scienziati,
scrittori e artisti ripetono da tempo, le idee più creative spesso
vengono nei momenti di ozio.
Molti si lamentano del fatto che i giovani non
leggono o non scrivono più come facevano una volta. Ma è un
approccio sbagliato: probabilmente i giovani leggono e scrivono
molto più che in passato. Il problema è come leggono e cosa
scrivono. È ormai dimostrato che quando si è online ci si dedica a
queste attività in modo diverso. Di nuovo, la variabile cruciale è
la velocità. Il più delle volte, la lettura online sembra più
un’elaborazione istantanea delle informazioni che una riflessione
attenta e consapevole. I ricercatori hanno scoperto che la lettura
dei contenuti web procede secondo un “modello a forma di F”:
quando si scorre una pagina si leggono sempre meno parole su ogni
riga man mano che si va avanti. Quando la velocità è essenziale,
la brevità diventa una virtù, la complessità cede il passo alla
semplicità e la profondità di significato si dissolve: email
frammentate, tweet di 140 caratteri al massimo, blog sciatti e pieni
di errori. Oscurità, ambiguità e incertezza, che sono la linfa
vitale dell’arte, della letteratura e della filosofia, diventano
questioni di decodifica.
Infine, la professionalizzazione. Vista l’impennata
dei costi dell’università, oggi genitori, studenti e politici
s’interrogano sull’utilità dell’istruzione superiore.
L’università prepara gli studenti per il mondo del lavoro di
domani? Quale laurea dà più sbocchi professionali? Gli
amministratori delle università difendono il valore economico
dell’istruzione superiore citando il maggiore potenziale di
guadagno dei laureati. Ma il valore non si misura solo in termini
economici, e l’attenzione a ciò che il mercato considera utile e
pratico ha portato a un declino del valore percepito delle arti e
degli studi umanistici, che oggi molti vedono come lussi superflui.
C’è un profondo equivoco su ciò che è pratico
e ciò che non lo è, e anche una certa confusione tra il concetto
di “pratico” e quello di “professionale”. Gli studi
umanistici e letterari non sono mai stati così importanti come nel
mondo globalizzato di oggi. L’istruzione focalizzata su scienza,
tecnologia, ingegneria e matematica non basta: per sopravvivere –
e magari anche per avere successo – nel ventunesimo secolo,
bisogna studiare religione, filosofia, arte, lingue, letteratura e
storia. I giovani devono imparare che la memoria non può essere
affidata alle macchine, e che le soluzioni a breve termine per
problemi a lungo termine non sono mai sufficienti. I professori
hanno la responsabilità di insegnare agli studenti a pensare in
modo critico e creativo ai valori che guidano la loro vita e
modellano la società in generale.
Tutto questo non si può fare
in fretta: ci vorrà il tempo che troppe persone oggi pensano di non
avere.
L’accelerazione è insostenibile. Alla fine la
velocità uccide.
Il rallentamento necessario a rimandare e forse a
evitare l’implosione dei sistemi collegati che tengono insieme le
nostre vite non è solo il tempo che ci prendiamo per sentire il
profumo delle rose o per stare con la famiglia, anche se queste cose
sono importanti.
Nel lungo arco della storia, l’ossessione per la
velocità è uno sviluppo recente, frutto di valori che sono
diventati distruttivi. Non tutta la realtà è virtuale, e non è
detto che chi è più veloce erediterà la Terra. I sistemi
complessi non possono adattarsi all’infinito, e quando crollano lo
fanno da un momento all’altro, spesso in modo inaspettato. Il
tempo sta velocemente scadendo.
(Traduzione di Fabrizio Saulini)