martedì 30 giugno 2020

El Prà de Tasinazi

Gianni Spagnolo © 200629
Alla ricerca dei toponimi perduti, ci trasferiamo oggi nelle pertinenze di Forni per individuare il luogo indicato come “Contra’ del pra’ di Tasinazi”. Corre infatti l’anno del Signore 1748 quando un mio lontano parente, certo Tomaso fg. di Gio. Battista Spaniolo de Albaredo de Rozzo, che ora abita a San Pietro con la moglie Dona Chiara Cerato, affitta per 18 anni e per 144,13 ducati un prato a tal Zuane fg. di Antonio De Lai del loco di Forni comune di Tonezza, posto appunto in contra’ detta del Pra’ di Tasinazi. Il luogo confina a levante con la strada pubblica, a ponente con l’Astico, a mezzogiorno con Bortolo del fu Pietro Cerato e a settentrione col medesimo affittuario. Da queste sommarie indicazioni, avendo l’Astico ad Ovest, il luogo dovrebbe trovarsi nella striscia di prati rivieraschi situati fra la Bréiola e Settecà. 
Non avendo eccessiva dimestichezza con quei luoghi, lascio a qualche volonteroso lettore di quelle zone l’onere di individuarne la collocazione con maggiore precisione. “Tasinazi” in dialetto si sarà detto probabilmente Tasinassi o Tasinadi, ma non mi suggerisce niente riguardo ad una sua possibile origine etimologica.

La foto curiosa inviataci da Guido Lorenzi: un nido di cimici sulla sua porta a vetro


domenica 28 giugno 2020

La pagina della domenica





IL VANGELO DELLA DOMENICA


In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».


LA POESIA

Tornare bambina
nei momenti più impensati,
giocare con le foglie,
farne ali da spedire al cielo,
ballare a piedi nudi
tra l'erba che mi conosce appena
e pur comprende la voglia
di uscire da me stessa
e tornare con pochi anni addosso.
Come son belli i fiori
muti danzatori di letizia,
grazia perenne per gli occhi
tornati a vederne l'essenza,
il punto cruciale verso
il centro della terra: io adesso.

Francesca Stassi


LA FRASE

Serve il potere solo quando si vuole fare qualcosa di dannoso, altrimenti l'Amore è sufficiente per tutto il resto...

IL PROVERBIO

A chi non vuole credere, poco o nulla valgono mille testimoni.


Ma quanto bello è questo stambecco (Sorapis)? (video di Laura Dal Bianco)





El galo de San Piero


Nella vita contadina dei nostri paesi ogni cosa, ogni animale aveva un suo ruolo, niente o quasi era tenuto come “sovrappiù” se non qualche uccellino in gabbia, catturato durante il passaggio autunnale. Così il cavallo, o l’asino si meritavano le cure del padrone perché avevano il compito di tirare il carro, di rivoltare la terra con l’aratro, di trainare nel bosco i tronchi dei grandi abeti o dei faggi abbattuti. La mucca era accudita perché preziosa per il latte e i vitelli e chi non poteva permettersi una mucca poteva almeno allevare qualche capra o pecora. Le galline davano uova, ogni giorno e poi pulcini che sarebbero diventati polli per la cucina della festa. E il gallo? Beh, il gallo aveva un ruolo importante nel pollaio che lo autorizzava a vivere praticamente “a sbafo” cibandosi per primo, del più buon grano e girando di qua e di là, razzolando, altezzoso e colorato, come un re. Anche lui aveva un importante ruolo, anzi due: fecondava, in primavera, le uova delle galline in modo che, dalla cova, nascessero i nuovi pulcini e dava la sveglia al padrone e all’intero paese, al sorgere del sole, ogni mattina. Ma quando si avvicinava l’estate il pollaio era pieno di nuovi galletti e gallinelle nate nel periodo pasquale e, in un mondo dove nessuno poteva essere mantenuto “a scrocco” una delle funzioni del gallo, quella di fecondare le uova, era adesso venuta meno e, per un anno non se ne parlava più! Allora valeva davvero la pena mantenere nel pollaio più galletti in crescita e il vecchio gallo che era stato allevato con cura e sopravvissuto all’inverno precedente per essere pronto in primavera a fare il suo lavoro di “padre del pollaio”? In modo forse poco grato, la sua presenza era ora considerata un “di più” e mantenerlo per altri mesi costituiva un impegno costoso. Un altro giovane galletto avrebbe preso il suo posto e sarebbe stato curato, nel prossimo autunno e inverno in modo da essere pronto e “ringalluzzito” in primavera. Non serviva più il vecchio gallo che così, in questi giorni di giugno, quando si avvicinava la festa dei santi Pietro e Paolo, finiva in pentola e sui piatti degli avidi commensali, quando la carne era considerata una prelibatezza e una gran bontà. Finiva la sua vita, il padrone del pollaio, prima della nuova estate. Era lui, tristemente, senza saperlo “El galo de San Piero!”. Memorie della cultura contadina misurata e sobria, dove ogni scelta era oculata e serviva per la vita di ogni giorno.
Lucio Spagnolo

Sempre nuove e simpatiche iniziative a Pedescala, a volte basta anche solo un fiore per fare la differenza


E' bene distinguere tra Amicizie e conoscenze


No, non siamo tutti amici.
No, non basta aver passato una serata insieme per chiamarmi amico.
No, amico non è un modo di dire.
È una parola che porta con sé un mondo di emozioni, promesse e intimità.
Non puoi chiamarmi amico e non guardarmi negli occhi.
Non puoi chiamarmi amico e non dirmi la verità.
Non puoi chiamarmi amico e celare, evadere, passare oltre.
Non puoi chiamarmi amico se conosci le cose importanti per me e scegli di ignorarle perché ti fa fatica.
Non puoi chiamarmi amico se ti ricordi di me solo quando ti conviene.
Non siamo tutti amici.
Non sono tuo amico se ci facciamo una foto insieme.
Non sono tuo amico se ti sorrido.
Non sono tuo amico se ci prendiamo un caffè.
Sono tuo amico se mi confido.
Se ti ascolto, se non mi distraggo, io che mi distraggo sempre.
Sono tuo amico se evito i consigli stupidi.
Le frasi fatte. Le soluzioni a portata di mano.
Se so ascoltarti e semplicemente stare.
Anche in silenzio, che a volte serve.
Sono tuo amico se conosco le parti più remote e assurde di te e le amo, le amo quanto amo le parti più remote e assurde di me.
Sono tuo amico se insieme sappiamo ridere fino alle lacrime.
Sono tuo amico se so chiederti scusa guardandoti negli occhi.
Se so dirti sinceramente che mi dispiace, che ho sbagliato. E che insieme possiamo ricominciare. Non una, ma mille volte.
Perché non sei amico se non sbagli mai, ma se hai voglia di ripartire sempre.
E infine sono tuo amico se per te riesco a fare una chiamata, perché io odio chiamare le persone.
Mi sembra sempre di disturbarle.
Un amico invece non si disturba, mai.
Sei mio amico se posso dirti che ti voglio bene. 
Conoscendo il significato più puro del termine e credendoci.
E se tu puoi fare lo stesso con me.
(Anna Milanese-web)

sabato 27 giugno 2020

Anche in tempi di covid... almeno la barchetta possiamo farla! Manteniamo viva la tradizione

La bellissima tradizione della barca di San Pietro, tra leggenda e realtà



Francesca Biagioli-web



Nella notte tra il 28 e il 29 giugno, in occasione della festa di San Pietro e Paolo, nelle campagne si celebra un rito molto particolare per capire come sarà il tempo, ma anche come andrà il raccolto e il destino dei componenti della propria famiglia. Si tratta di quella tradizione nota come la barca di San Pietro.

La tradizione contadina da sempre si serve di rituali alla cui base vi sono credenze popolari, leggende o storie di santi. Spesso si utilizzavano questi “strumenti” per capire come sarebbero state le condizioni meteorologiche, indicatore molto importante per il buon raccolto nei campi e dunque il sostentamento delle famiglie.

Ancora oggi diffusa in alcune zone, soprattutto del Nord Italia, è la tradizione della barca di San Pietro o veliero di San Pietro, un’usanza che si serve di pochi ingredienti: un contenitore di vetro, una chiara d’uovo e la magia della notte di San Pietro e Paolo!

Il procedimento da fare è il seguente: la sera del 28 giugno si riempie un contenitore di vetro ampio e largo di acqua, all’interno si fa colare una chiara d’uovo e si mette a riposare per tutta la notte all’aperto o su un davanzale al chiaro di luna lasciando che la soluzione di acqua e uovo prenda anche la prima rugiada del mattino. Secondo la tradizione, la notte saranno i santi Pietro e Paolo a compiere la magia, in particolare sarà l’apostolo Pietro (che ricordiamo essere un pescatore) che alla vigilia della sua festa dimostra la sua vicinanza ai fedeli soffiando all’interno del contenitore e facendo così apparire la sua barca.

La mattina dopo... il risultato va interpretato. 
L’albume, infatti, forma dei filamenti e si posiziona in modo da sembrare una barca di forma variabile e con più o meno vele e alberi. A seconda di com’è il veliero, i contadini sono in grado di capire le condizioni del tempo che li aspetta, la più o meno buona annata di raccolto, ma anche la salute dei componenti della propria famiglia. Vele aperte indicherebbero giornate di sole, vele chiuse e strette invece pioggia in arrivo! Un bel veliero in generale promette un’ottima annata di raccolto.

Ma perché si forma davvero la barca? Il fenomeno è dovuto semplicemente alla diversa temperatura della notte (più fresca) che permette all’albume di rapprendersi formando il caratteristico veliero, ma anche al fatto che l’albume ha una densità maggiore dell’acqua e tende ad affondare. Quando l’acqua fredda si riscalda grazie al calore che assorbe la brocca dalla terra o dal davanzale su cui è posizionata, tende a risalire portando con sé anche l’albume. Si formano così le vele.

Ogni anno, ovviamente, la chiara si posiziona in maniera differente e le persone sono intente ad interpretare i messaggi mandati da San Pietro. E ancora oggi tante famiglie tramandano la tradizione anche ai bambini e giurano che l’uovo più di una volta ci ha effettivamente “preso”!

San Pietro e Paolo, una curiosità


Il culto di San Pietro è nato durante il medioevo grazie ai monaci Benedettini che lo diffusero in Lombardia. Nell’800 si diffuse una curiosa leggenda popolare secondo cui a questo giorno seguirà un temporale a causa del diavolo. Per questo molti pescatori, scaramanticamente, non escono in barca...


Qui da noi non ne riesco a vedere più purtroppo e mi mancano tanto...

Le rondini – simbolo di libertà, felicità eterna e protettrice delle case.



La rondine comune costruisce accuratamente un nido concavo, fatto di fango, trasportato nel becco. La parte interna del nido è composta di erba, piume ed altri materiali morbidi. 
La femmina vi depone 4 o 5 uova bianche maculate di marroncino e le cova fino a quando non si schiudono per la nascita dei pulcini, che vengono alimentati da entrambi i genitori per una ventina di giorni.
Già 20 giorni dopo la nascita il peso dei pulcini è come quello di un adulto, anzi, superiore, poi con la crescita del piumaggio il peso in eccesso viene smaltito e la rondine è in grado di spiccare il volo.
L’età massima di vita delle rondini è di sedici anni.

Un saluto da Belfiore


Un buon fine settimana a tutti!


Scutigera

Sono una scutigera. Per molti esseri umani faccio schifo e devo essere schiacciata, ma basterebbe informarsi un pochino di più per capire che io non vi faccio alcun tipo di male e non sono pericolosa.
Perché sono utile nelle vostre case?
Perché sono un insettivoro! Mangio gli insetti brutti e cattivi che potrebbero infestare le vostre abitazioni (anche le formiche!).
Lo so che non sono proprio bellina, però vi prometto che non vi infastidirò. Quindi... lasciatemi vivere.
Grazie 

venerdì 26 giugno 2020

La pecora nera

Le pecore nere di una famiglia sono in realtà liberatrici del loro albero genealogico.
Membri della famiglia che non si adattano alle regole o alle tradizioni familiari, coloro che cercano costantemente di rivoluzionare le credenze.
Coloro che scelgono strade contrarie ai percorsi ben battuti delle linee familiari, coloro che sono criticati, giudicati e persino respinti.
Questi sono chiamati a liberare la famiglia da schemi ripetitivi che frustrano intere generazioni.
Queste cosiddette "pecore nere", quelle che non si adattano, quelle che ululano con la ribellione, in realtà riparano, disintossicano e creano nuovi rami fiorenti nel loro albero genealogico.
Innumerevoli desideri non realizzati, sogni infranti o talenti frustrati dei nostri antenati si manifestano attraverso questa rivolta.
Per inerzia, l'albero genealogico farà di tutto per mantenere il decorso castrante e tossico del suo tronco, che renderà il compito del ribelle difficile e conflittuale.
Smetti di dubitare e prenditi cura della tua rarità "come il fiore più prezioso del tuo albero".
Sei il sogno di tutti i tuoi antenati.


(Bert Hellinger - Dal WEB)

L'Amministrazione Comunale informa



Ne abbiamo sentito di ogni... tutto e il contrario di tutto da una miriade di "esperti"... non cavando un ragno dal buco...con il solo risultato che ora l'incertezza regna sovrana. Allora, un parere più, un parere meno... aggiungiamoci anche questo... ;-)))


- Origine e sviluppo delle pandemie -
Perché le zoonosi (infezioni da virus o batteri che passano dall'animale all'uomo, come il covid-19) avvengono spesso da animali come i pipistrelli o roditori?
Perché i pipistrelli sono esseri molto antichi (hanno avuto molto tempo per adattarsi ai virus), vivono in colonie molto numerose e si spostano volando, queste caratteristiche permettono un ampio scambio di batteri e virus tra di loro, (a causa del numero e vicinanza di individui) e un grande adattamento ai virus sviluppando resistenza e tolleranza alla carica virale (tollerano i virus senza ammalarsi).
I roditori sono anch'essi numerosi, vicini, adattabili.
Entrambi: roditori e pipistrelli sono gli animali presenti sulla terra con più specie (tanti tipi diversi, ma simili), perciò ospitano molti più virus.
Il salto di specie tra animali e uomo, avveniva sporadicamente in passato e si esauriva per la difficoltà di spostamento tra uomini e virulenza o/e trasmissibilità bassa del virus.
Oggi, con la nostra presenza numerosissima sulla terra (7 miliardi) essere tantissimi nelle città, connessi velocemente gli uni con gli altri tramite treno e aereo, un virus che ci infetta, può viaggiare comodamente e velocemente.
Riorganizzare il nostro modo di vivere nel pianeta terra, cercando di non disturbare gli animali selvatici, limitando gli allevamenti intensivi, o gestirli in modo diverso, migliorare il trasposto e la macellazione degli animali, sarà il modo di proteggerci, perché le zoonosi avverranno ancora.
Nel nostro piccolo, mantenere uno stato di salute ottimale ci aiuta a difenderci, come mangiare meno, riposare il giusto, idratarsi a sufficienza (bere acqua) ed essere soddisfatti della propria vita (fare un percorso di crescita personale).
(da: Spillover di Quammen)

Parte da Schio la rivoluzionaria scoperta scientifica al Gran Sasso





C’è un’azienda di Schio dietro all’impianto realizzato al Gran Sasso che ha permesso al Cnr di fare una nuova, rivoluzionaria, scoperta scientifica al Gran Sasso.

Alca Tecnology, che dal 1999 costruisce impianti e componenti per il settore industriale e la ricerca scientifica, ha infatti realizzato una parte dell’avveniristico impianto di ricerca e sperimentazione nel Gran Sasso, il quale ha permesso agli scienziati di individuare movimenti sotto due chilometri di roccia. Un numero di eventi anomalo dentro allo strumento che cerca la materia oscura.
I fisici di Xenon1T, cacciatore di materia oscura, nel corso di un seminario hanno annunciato di avere osservato uno strano eccesso di eventi ancora tutti da spiegare. Potrebbe trattarsi semplicemente di fluttuazione statistica o di una contaminazione del rilevatore, ma l’ipotesi è che si possa essere di fronte all’individuazione di nuove proprietà di neutrini o all’esistenza di nuove particelle chiamate assioni solari.

Elena Aprile, capo del progetto Xenon, ha dichiarato che l’eccesso osservato potrebbe essere dovuto a una minuscola presenza di trizio, un isotopo dell’idrogeno. Ma potrebbe anche essere un segnale di qualcosa di molto più eccitante che ci porterebbe oltre il Modello standard, come l’esistenza di nuove particelle, per esempio gli assioni solari. Oppure, altra ipotesi interessante, potrebbe coinvolgere nuove proprietà dei neutrini.

Immediato è scattato l’entusiasmo non nel mondo scientifico, ma anche a Schio, dove ha sede Alca Tecnology.
L’esperimento Xenon1T
L’esperimento Xenon1T è un grosso barile riempito di xenon liquido, con all’interno uno strumento che cerca di osservare in modo diretto l’interazione di eventuali particelle di materia oscura con la materia ordinaria. È il più grande rilevatore di xenon liquido che esista al mondo, un gas nobile che non si lega e rimane e nasce per cercare la materia oscura. Lo xenon liquido è più denso, maggiore massa dà maggiori possibilità che le particelle interagiscano. Quando una particella interagisce con gli atomi di xenon, produce due segnali: uno luminoso (fotoni) e libera alcuni elettroni, che vengono ‘accompagnati’ verso l’alto dal campo magnetico dello strumento e trasformati in un altro segnale luminoso, più forte. In base alla sensibilità, gli scienziati si aspettavano 232 interazioni, invece ne hanno osservati 52 in più.
Secondo i fisici, l’ipotesi che spiega meglio i dati, presentati dai ricercatori dei Laboratori nazionali del Gran Sasso, è quella di una particella teorizzata e mai osservata: l’assione solare. Ma c’è un’altra ipotesi, forse altrettanto suggestiva, al vaglio, e riguarda una proprietà del neutrino: “Il neutrino ha una proprietà intrinseca, il momento magnetico – ha spiegato Marco Selvi, responsabile nazionale Infn dell’esperimento – se fosse legato a quello che osserviamo, significherebbe che questa proprietà, legata allo ‘spin’, è molto più grande rispetto a quella predetta dal ‘modello standard’. Potrebbe essere il segnale di una nuova fisica”.
Anna Bianchini-altovicentinonline

giovedì 25 giugno 2020

Erano uomini

Gianni Spagnolo © 200625
Nell'anniversario della Battaglia dell'Ortigara ripropongo questo post, già pubblicato cinque anni fa in occasione del centenario d'inizio della prima Guerra Mondiale.
Mi era stato raccontato che mio nonno materno, Antonio Lucca, aveva combattuto sull'Ortigara, assieme a Francesco Nicolussi (Checo Mistro), Giuseppe Garibaldi Lorenzi (dai Alfieri) e altri del paese che non ricordo e che era stato fatto poi prigioniero, ma nient'altro. Sapevo che era negli Alpini, ma non in quali reparti avesse militato e dove e in quali circostanze fosse stato catturato. Né mia nonna, né mia madre, seppero mai raccontarmi di quei fatti, pur con le mie insistenze di bambino affascinato dalle vicende di guerra. Semplicemente non lo sapevano, dicevano che il nonno non ne aveva mai voluto parlare. 
Non ebbi modo di conoscerlo, me nono Toni. Era della classe 1893, emigrato in Slesia appena tredicenne a fare il bocia nelle miniere dell'Imperatore, destino comune con altri paesani.  Morì di silicosi nel 1941, dopo una vita di miniera ed emigrazione, vittima di quel subdolo "mal di miniera" che seminò di vedove e di orfani la nostra valle. Praticamente trascorse in Italia solo la fanciullezza, il periodo militare e gli ultimi anni di vita. Era un minatore socialista, che rifiutò la tessera del fascio e pertanto impedito di lavorare in patria; una Patria che selezionava i suoi figli. Si costruì una famiglia in Francia, dove nacque anche mia mamma, lavorando nei pozzi carboniferi del Pas-de-Calais; per finire in Somalia dove si prese la malaria che lo minò ulteriormente nel fisico.
Di lui m'era rimasto solo uno stupendo orologio da taschino e una nave in bottiglia, dono d'un suo amico francese che aveva viaggiato da marinaio nel Mar della Cina. L'orologio l'ho purtroppo distrutto nei miei esperimenti meccanici di bambino, la bottiglia invece la conservo gelosamente appesa in ufficio.
Recentemente, complice la ricorrenza del centenario della Grande Guerra, m'è venuta improvvisa voglia di far luce su quegli eventi, risalire al suo foglio matricolare, colmare questa lacuna. Mi sono recato dunque all'Archivio di Stato di Vicenza, benemerita istituzione dove sono conservati tanti documenti della nostra storia e anche quelli dell'Archivio Militare di Vicenza. 
Presto trovato: matricola n. 5516: 
Luca Antonio di Beniamino (Il cognome Lucca a quel tempo si scriveva ancora così); 
nato a Rotzo il 12 aprile del 1893. 
Chiamato alla leva nel 1913, congedato nel 1914. 
Richiamato alle armi il 30 aprile 1916, assegnato al 6° Rgt. Alpini, Btg. Bassano.
Disperso nei combattimenti del Monte Ortigara il 25 giugno del 1917.
Dichiarato prigioniero di guerra il 18 novembre 1917. 
Rientrato al Corpo dalla prigionia il 7 febbraio 1919.

L'Italia aveva vinto la guerra!                                                                                                    
Non si può restare indifferenti scorrendo quei libroni con annotata burocraticamente la storia militare di quegli uomini, ragazzi diremmo ora, molti dei quali non sono più tornati, sono rimasti feriti o fatti prigionieri. Ancor più leggere quella sfilza di cognomi familiari: gente della nostra terra. Il battaglione Alpini "Bassano" e il suo gemello "Sette Comuni" del 6° Rgt. Alpini, infatti, erano costituiti prevalentemente da uomini dell'Altopiano e delle sue valli; combattevano praticamente sulle porte di casa, vedendo nel contempo l'immane distruzione che quel conflitto arrecava alla loro piccola Patria.
Ma cosa successe sulla vetta dell'Ortigara quella fatidica notte del 25 giugno 1917? Vediamo cosa dicono le cronache ufficiali:
"... Alle ore 2.30 della notte del 25 giugno iniziò l’attacco violentissimo contro gli italiani che occupavano l’Ortigara. Sulla pietraia martoriata dalle bombe, illuminata dalle fiammate terrificanti dei lanciafiamme, ricoperta da nubi di gas asfissianti, si consumò il sacrificio degli alpini e dei fanti. Dal buio sbucarono all’improvviso le pattuglie d’assalto nemiche, armate di bombe a mano e lanciafiamme. Dopo una resistenza disperata la vetta insanguinata dell’Ortigara, trasformata in un enorme cimitero di soldati, ricadde in mano austriaca. Più a lungo resistettero i difensori di quota 2.101, ma dopo reiterati assalti del nemico, il caposaldo passò in mano avversaria. La lotta fu accanita, dalla baionetta al corpo a corpo, sino a precipitare avvinghiati giù nei ripidissimi canaloni che scendono in Valsugana ..."

Ah,.. eccolo dov'era! ... Forse ora capisco perché non amava parlarne.
Il suo battaglione, distrutto e ricostruito più volte, aveva infatti già vissuto, in quel terribile mese di giugno del '17, l'attraversamento del Vallone dell'Agnellizza (chiamato il Vallone della Morte) e la conquista del costone nord-orientale dell'Ortigara sotto un fuoco micidiale di sbarramento.
Poi la prigionia aggiunse sicuramente pena alla tragedia.

... "Nei giorni successivi si fecero numerosi tentativi per riconquistare le posizioni perdute, ma senza ottenere successo: ormai il destino dell'Ortigara era fatalmente segnato. I 22 battaglioni alpini che parteciparono alla battaglia, persero 461 ufficiali dei quali 17 comandanti di Battaglione e 12.700 fra Caduti, Dispersi, feriti e prigionieri. ... Sebbene l'offensiva italiana contro le formidabili posizioni austro-ungariche non raggiungesse i risultati prefissati, la Battaglia dell'Ortigara, nel quadro generale della guerra, servì a frenare la opprimente minaccia nemica verso la pianura vicentina e contribuì ad impegnare nel settore trentino una notevole massa di soldati austriaci a tutto vantaggio delle operazioni su altri fronti. Su quelle aspre montagne alpini, fanti e Kaiserjäger hanno scritto pagine di storia eroica che non vanno dimenticate." 
Fin qui la cronaca bellica, col corollario di retorica buono per i Libri di Storia. D'una Storia con la quale forse noi non abbiamo fatto onestamente i conti. 

Altre storie, più piccole e sommesse, tramandano di quel mercoledì mattina del 27 giugno 1917, quando i pochi Alpini superstiti della fatidica notte transitarono da prigionieri per la Bocchetta del Kempel e la Porta di Manazzo. Erano segnati nel corpo e nell'anima da mesi di combattimenti durissimi e da ordini scellerati e venivano avviati ai campi di prigionia ai limiti dell'Impero. Avvenne che incrociassero gli sguardi di alcuni soldati dell'Imperatore che provenivano dalla medesima valle, che avevano lavorato con loro, che con loro erano andati a ballare e far festa fraternamente. Féne star chìve con valtri. Gli dissero. A no podén mìa! Risposero questi affranti. Si racconta anche che il comandante austriaco di quelle retrovie fece schierare i reparti e ordinare il presentat'arm, per onorare cavallerescamente quei nemici che non arretrarono. Ma anche questo mi pare non sia stato scritto, perché forse non stava bene farlo, perché le vittorie annebbiano la verità più delle sconfitte.
Più di sessant'anni dopo, mi sono trovato in quegli stessi luoghi, militare in un campo d'arma. Portavo anch'io la penna nera sulla nappina verde, come mio nonno.
Ringraziando Dio, la mia è stata la prima generazione della mia famiglia a non averla portata in guerra.
Sperèmo in bèn!



Pedemonte anni 50: Prefetto e Sindaco festeggiano l'arrivo della corrente elettrica in una contra'

Foto da Silvio Eugenio Toldo

Dal drone di Flores Munari - Spettacolare fioritura di rododendri a Costa d'Agra


L'iperico, l'erba di San Giovanni o erba delle streghe


L’iperico, soprannominato anche “cacciadiavoli” è l’erba di San Giovanni per antonomasia, noto rimedio erboristico per vari trattamenti e medicamenti. E' una pianta spontanea che cresce dappertutto nelle nostre campagne. Il grande interesse attuale verso questa pianta si rifà agli antichi utilizzi della medicina popolare. I fiori sono la parte più interessante della pianta d’iperico. Sono di colore giallo-oro, formati da 5 petali molto delicati. Strappandoli dai loro peduncoli, o sfregandone i petali, inizia a sgorgare una linfa rosso sangue contenente i principi attivi. Da qui un altro dei tanti nomi popolari dell’iperico, ossia l’erba dell’olio rosso.

Una garzetta nella foto di Alago


Americanate

Gianni Spagnolo © 200618
Il recente Post della Carla sulla Base Tuono di Passo Coe, mi ha fatto tornare in mente un appuntamento annuale che ricorreva in Valle negli anni sessanta e vedeva mobilitata tutta la bociarìa del paese, e non solo, ad assistere al prodigioso evento. Ne ignoro le ragioni militari, strategiche, tattiche o soltanto psicologiche che fossero, ma si trattava del passaggio per il centro del paese di una lunghissima colonna militare americana che trasportava verso il Plaut degli enormi missili montati su poderosi camion articolati. Sembrava tutto enorme, vuoi per le strade strette del paese, che per la nostra stessa dimensione fisica d’allora.
Enorme, tecnologico e fantastico.
Si, perché era ancora l’epoca che si molàvano le vache ala fontana e i luamàri costellavano il paese come i pissacàn i prà, perciò il contrasto fra la frugalità paesana e la potente tecnologia americana era assolutamente stridente. Sarà stato proprio questo l’effetto voluto e magari suggerito dalle nostrane autorità: quello di instillare nell’ingenuità di noi fanciulli e nel popolino tutto, l’ammirazione istintiva e la riverenza verso i nostri grandi alleati e signori. 
Apriva la colonna una campagnola di carbinijri con appeso un cartello con su scritto “INIZIO COLONNA”, casomai non l’avessimo capito. Dietro seguiva una lunghissima teoria di immensi camion color cachéta che trasportavano giganteschi missili della medesima tonalità. Alcuni missili erano a tòchi, perché troppo lunghi per un camion solo. Sopra c’erano dei ragazzoni in divisa che talvolta ci buttavano le caramelle o le peche, giusto per ribadire. Tremavano i vetri, tremavano le case, fremeva tutto il paese al passaggio risicato e sofferto di quegli sproporzionati e pesantissimi trattori. Noi, cioè la bociarìa dela Piassa, assistevamo rapiti a quella processione che si presentava ogni anno, mi pare verso la fine dell'estate perché andavano a fare esercitazioni dalle parti di Malga Zonta, dove si vociferava esserci una misteriosa base sotterranea. 
Eravamo rapiti in estasi a fotografare mentalmente quei missili e quegli eccezionali mezzi di trasporto siglati da misteriose cifre e numeri, che poi sarebbero stati il nostro acceso argomento di discussione dei giorni a seguire. Intanto la fantasia si librava nei cieli ad immaginare l'applicazione di quei maestosi ordigni. Finché arrivava la campagnola di coda con altri carbinijiri e il cartello di “FINE COLONNA”, casomai non si fosse capito. Quella processione rombante e tremolante faceva più crepe nelle case di quante ne abbia fatto poi il terremoto del ’76 e quelli prima.  Non era da chiedersi perché non filassero dritto per i Forni invece di voltar rento a Pedescala, salire in paese e poi scendere la pontara e reinmettersi sulla statale. Non so se ripetevano lo stesso copione anche in quel di Pedemonte, ma probabilmente sì, perché anche là c’erano italiani da impressionare, tanto più che erano stati ciapà col stciopo ;-). 
Certo è che così ci sentivamo ben protetti dai nostri prestanti e tecnologici alleati, che fra l’altro dovevano essere parenti di quei caubòi che ci propinavano a bocù al cine e nei fumetti. Ero là che tiravo gli occhi per individuare qualche indiano dal naso adunco con le trecce e le piume fra quei biondi ragazzoni sorridenti, ma invano. Io infatti preferivo le frecce ai missili, perché quelle ero capace di farle anch'io mentre i missili no; al massimo i pìroli per la cerbottana. in fondo m'erano più simpatici gli indiani, che avevano la nostra stessa tecnologia e vivevano allo stato semibrado come noi. E anche da militare ho preferito portare la penna. Ancamassa!
Non ho mai visitato la Base Tuono di Passo Coe; ci son passato accanto varie volte, ma senza particolari stimoli. Nemmeno dopo che vi hanno allestito il museo tematico. Conto però di andarci presto, se non altro a vedere se quella maestosità che avvertivo da bambino era effettiva o frutto della mia immaginazione e dei miei criteri dimensionali di allora. 


La notte conferisce al Paesello maggior bellezza


mercoledì 24 giugno 2020

I video di Gino Sartori - il cammino delle apparizioni 5° tappa

Vecchio frassino



Caro Vecchio Frassino, venerdì scorso passando per caso “in cima alla Pontara”, con mia grande sorpresa non ti ho più trovato. Al tuo posto, un  plateatico di colore giallo con funzioni molto diverse dalle tue. 
Mi è stato detto che eri molto ammalato: saresti stato sconfitto da una malattia che ti aveva colpito all’interno.  
Facendo delle ricerche ho scoperto che avevi oltrepassato la soglia dei 100 anni, eri stato  spettatore di due Guerre Mondiali e sopravvissuto alla tempesta Vaia. Negli ultimi mesi ti sarai chiesto perché le strade attorno a te fossero diventate deserte. 
Tutti gli abitanti del nostro paese, dai più piccoli ai più anziani, ti hanno sempre guardato come una presenza fissa, proprio come guardano le loro montagne. Ma il tuo destino era segnato e noi non lo sapevamo.
Per te che hai accompagnato le nostre piccole vite avrei organizzato volentieri una  cerimonia di commiato, se proprio non era possibile tenerti e festeggiarti in vita con la stessa riverenza che riserviamo ai nostri nonni centenari.
Ora forse ti troverai con  il nostro Abete di Natale a cui, per diverso destino, furono riservati onori che l'hanno reso famoso al mondo. 
In fondo, anche le vicende che riguardano gli alberi non sono poi così diverse da quelle degli uomini. 
Che tristezza! Ci hai visto, gioire, piangere, nascere e morire sempre in silenzio, senza mai fare un commento fuori luogo. E anche oggi, forse, se potessi dirci un’ultima cosa, ci diresti che lo spettacolo deve continuare.
Gino Sartori minai

Dedizione, impegno e qualità - Malga Camporosà dei Fratelli Toldo - (foto di Michele Toldo)











Il mestiere di crescere


L'Amministrazione comunale, visto il periodo difficile appena trascorso e avendo a cuore il benessere dei bambini, che sono il nostro futuro, organizza per sabato 27 giugno alle 15.30 presso la Pro Loco di San Pietro un incontro con la psicologa Ghitti.
Si prega di venire muniti di mascherina😷
Tutti i genitori sono invitati... venite numerosi!






lunedì 22 giugno 2020

Presto 60

Gianni Spagnolo © 200609
Credo che, almeno da noi, nessun decennio abbia segnato un taglio netto fra passato e presente come gli anni sessanta del secolo scorso. Certamente usi, costumi e abitudini non cambiano in maniera repentina e qualsiasi passaggio richiede un po’ di acclimamento, tuttavia nessun altro periodo è stato così denso di cambiamenti come quei fatidici anni. Il moplen, la fòrmica, la lavatrice, la televisione, il telefono, il bagno in casa, il frigo, i jeans, i Beatles, la motorizzazione, … sono arrivati quasi di botto proprio in quegli anni. Parallelamente avveniva anche una rivolta sociale da parte delle nuove generazioni che portavano sugli scudi i diritti laddove imperavano da sempre i doveri gerarchicamente ordinati. Perfino Santa Romana Chiesa, fondata sulla Tradizione, s'avviò ad una profonda riforma col Concilio Vaticano II. 
Se negli anni cinquanta, dalle parti nostre, i costumi non erano sostanzialmente dissimili dai decenni o addirittura dai secoli precedenti, con i favolosi anni sessanta si compì una trasformazione destinata a lasciare il segno. Questo non solo in termini di sviluppo tecnologico, ma anche in campo culturale, sociale, politico e religioso. La generazione dei veci, dei nostri nonni - quelli nati ancora nel secolo prima, per intenderci - non si scompose più di tanto e si lasciò scivolare addosso questi avvenimenti come l’acqua sui coppi, vivendo grossomodo con le stesse modalità di prima e concludendo proprio in quegli anni il suo percorso terreno. Quella dei nostri padri visse intensamente e forse inconsciamente quel periodo trovandosi nel pieno vigore dell’età; perciò se ne fece carico passando dal mulo allo sbarco sulla luna. Avendolo provato, non avevano affatto nostalgia del mulo e si proiettarono fiduciosi verso la luna e le facilitazioni che il Progresso prometteva. La mia generazione visse invece queste cose con la leggerezza della fanciullezza e senza gran consapevolezza. Riuscì a vedere gli ultimi muli e anche il primo missile, conservando però, in fondo, anche un po’ di nostalgia del mulo: probabilmente perché non aveva fatto in tempo a provarlo. 
Dal mio minuscolo punto d’osservazione, io registravo allora i cambiamenti che impattavano più direttamente sui miei riti quotidiani. Abitando accanto alla Cooperativa, era compito anche mio provvedere alla spesa alimentare di casa con un via vai che non prevedeva certo l’uso del carrello. Il frigo non c’era e perciò s'andava a provvedere secondo il bisogno del momento comprando a etti. Tanto, la conserva te la pesavano alla bisogna tirandola sù dal bandòn, la farina con la sessola dal sacco, così lo zucchero e tante altre cose. Era venduto quasi tutto sfuso, anche la varechina col butigliòn. Poi i te inscartossava la roba usando la carta appropriata, tanto che lo zucchero aveva anche l’imballo del suo specifico colore celestino: la carta da sùcaro. Ancamassa!
Per le merci semisolide e untuose, usava frapporre una carta pergamenata semitrasparente, che era oro per fare i pìroli per la cerbottana rigidi e appuntiti, precisi e assai contundenti. Il bar-code era una matitina temporaneamente parcheggiata sull’orecchio del casolìn, con la quale Bepi annotava la spesa sul libreto, facendo prima i conti sulla carta dello scartosso per il cliente successivo. C’erano allora ben sei casolini in paese e, nàndo a èti, secapisse che il via vai era continuo; così come le ciàcole dele fémene e quel che ghe va drio. Ma ecco che incombeva il Progresso, che si manifestò al fanciullino che ero, sotto le arcigne spoglie di una Legge dello Stato: la 580/67. Questa imponeva semplicemente che gli sfarinati fossero venduti al dettaglio confezionati e non più sfusi, oltre a dare indicazioni sulla preparazione e commercializzazione della pasta e del pane. Na Rivolussiòn! 
Basta pescare intel saco cola sessola! Basta stciafare na guciarà de conserva sula carta velina, col déo dela balansa chel seitava vanti e indrìo che no te capìvi gnente! Basta anca el sùcaro intel scartosso celestin, fato su a arte coi burdi rissolà! Presto anca la late, che andavo a prendere col brentélo dai Mosca péna mònta, spetando ale volte in cusina chei vegnesse su dalla stala, sarebbe stata venduta pastorizzata e confezionata asetticamente dalle latterie. Era fornita in sacchi flosci di plastica da litro o da mezzo, consegnati sulle soglie delle case o dei negozi: un insopprimibile invito per noi bociasse a prenderli a calci per farli scoppiare. Di lì a poco arrivò un'ancor più strana confezione in cartone colorato di forma piramidale. Pianpianèlo sparì dai negozi quell’inconfondibile e caratteristico odore che condensava tutti gli odori delle mercanzie vendute sfuse in vario e precario stato di conservazione. Resisteva ancora quello dei formaggi, dei salumi e del baccalà, ma presto l'avvento del banco frigo mise la museruola anche ad essi. Pure sul fronte spirituale cominciarono intanto le destabilizzazioni del mio nuovo incarico da mòcolo. Avevo appena imparato a suonare i campanelli a tempo, a rispondere qualcosa in latinorum, a tenere bene il piattino sotto la lingua a chi s’inginocchiava sulla balaustra, a far roteare il turibolo comesideve, che... tàchete! Cambiava tutto. Via le balaustre, via el prete de schena in sima l’altare, via il latino per far posto all’italiano. Amen! Non serviva neanche più indenociarse quando si attraversava la navata, perché anche il Santissimo, che pur era El Paron de casa, andava stranamente allocato in più defilati anfratti. Avrebbe resistito ancora per molto tempo solo el Rechiemeterna: Rechiemeterna dona isdomine lus parpetua luciatei rechiescant'in pace. (Réquiem aetérnam dona eis, Domine, et lux perpétua lùceat eis. Requiéscant in pace)Forse perché era corta e legata ai cari defunti.
Beh, non è che l’italiano ci fosse allora molto più familiare del latino, ma almeno lo s’imparava a scuola. Anche lì però il Progresso tacava a farsi sentire, mandando in pensione i vecchi pennini a favore delle penne a sfera. Vabén chei penini schincàva, ma neanche le prime biro erano granché efficienti: oltre a costare ben di più, seitavano a sbavedare. Ma la cosa che più mi colpì direttamente di tutto sto progresso fu che le due becarìe del paese cessarono di macellare le bestie in proprio. Era uno dei tanti riti della bociarìa quello di andare a supervisionare e tenpelàre la bestia legata fuori dal macello in attesa di finire sulle tavole paesane, per vederne poi la testa infilata nei corni d’acciaio fuori dalla becarìa. Toni Nicola mi lasciava straordinariamente assistere alle operazioni di macellazione e non me ne perdevo una.  Spesso mi portava con lui in giro per la valle e la montagna a prendere le bestie col camion. In prossimità della Pasqua era la volta dei capretti, che si prelevavano qua e là dove c’erano capre, talvolta anche agnelli, ma cuìli solo in Rotso. La mia preferita era la stalla del Talchino Majaro, a Casotto, che si raggiungeva dall’altro lato dell’Astico attraversando uno stretto e precario ponte di legno. Avevo paura ad attraversarlo nell’andata e ancor più nel ritorno, con in braccio gli animali irrequieti e scalcianti che facevano ondulare l’esile passerella. Erano le ultime espressioni d’una società semplice ed autarchica che il Progresso stava velocemente fagocitando. Così era da noi, ma poi mi resi conto che in pianura e ancor più nelle nazioni vicine queste cose erano già accadute da tempo. Noi eravamo indietro di una generazione, forse anche due.

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...