giovedì 31 maggio 2018
Dal Brennero alla Puglia: un pellegrinaggio in 91 tappe che toccherà l’Alto Vicentino
Sarà presentato venerdì sera alle 21 al Teatro OO.PP. di via
San Francesco a Thiene il neonato ‘Itinerario dell’Unione’, un
pellegrinaggio a piedi che quest’estate per la prima volta unirà il
Brennero alla Puglia toccando 7 regioni, passando per Thiene e l’Alto
Vicentino.
Un progetto di alta spiritualità patrocinato dall’Associazione
europea delle vie francigene che vuole fare del cammino una espressione
di vita cristiana raggruppando i partecipanti in un itinerario comune,
un percorso di quasi 2 mila chilometri e 91 tappe con partenza il 2
luglio dal Brennero (BZ) e arrivo il 30 settembre a Santa Maria di Leuca
(LC).
Del pellegrinaggio sarà parte integrante anche il ‘Cammino delle
Apparizioni’, (percorso di 100 chilometri dal Santuario di Monte Berico a
Vicenza al santuario della Madonna di Pinè a Trento), itinerario tutto
di casa nostra promosso in particolare dal sindaco di Valdastico Claudio
Guglielmi, presidente dell’associazione ‘Cammino passo dopo passo’, e
dall’associazione Lions Club Thiene Host.
Testimonial d’eccezione e presentatore della serata, nonché
accompagnatore durante il pellegrinaggio, sarà il camminatore Francisco
Sancho, spagnolo di nascita e vicentino di adozione, sempre disposto a
raccontare l’emozione dei suoi personali 13 mila chilometri percorsi
toccando 35 antiche vie di fede in 15 mesi dal 2015 al 2016, con uno
zaino ed il cielo sopra la testa, difeso solamente, come ama ricordare
con semplicità, dalla provvidenza.
‘Da tanti splendidi incontri – ha spiegato Sancho – ho capito che ci
sono molte persone che desiderano partire per un pellegrinaggio
camminando in Italia, in gruppo, ma non sanno come, dove e con chi.
Così è nata l’idea con alcuni amici di proporre alle persone di
camminare assieme. Abbiamo deciso di fondare il gruppo CTG CamminiAmo,
una associazione che ha l’obiettivo di organizzare pellegrinaggi allo
scopo di recuperare e diffondere l’istinto del viandante e promuovere la
Rete di Cammini e di Vie Storiche di pellegrinaggio già esistenti in
Italia’.
Sancho sta anche promuovendo una singolare mostra itinerante con le
foto scattate lungo il pellegrinaggio, che da più di un anno sta facendo
il giro di tutta l’Italia e che approderà a Thiene il 16 Giugno 2018.
http://www.
mercoledì 30 maggio 2018
I video di Gino Sartori - VAL SILLA' - FORTE CORBIN
valle composta da una parte ripida che scende verso Barcarola ricca di faggio e carpine e da una conca tra i boschi
dell'altopiano di Asiago ricca di faggi e peccete. Questa via fu molto
importante fino all'inizio della Grande Guerra per i valligiani di
Cogollo e contrade per salire al Cengio.
FORTE CORBIN
Situato nella zona occidentale dell’Altopiano di Asiago, in prossimità
del Monte Cengio e del paese di Treschè Conca, il Forte di Punta Corbin
fu uno dei forti italiani che costituivano la linea difensiva sulle
Prealpi vicentine. Costruito a partire dal 1906 su uno sperone di roccia
proteso sulla Valle dell’Astico con lo scopo di difendere la vallata da
eventuali invasioni austroungariche, il Corbin fu progettato per essere
una delle fortificazioni più potenti dell’Altopiano, ma in realtà il suo ruolo nel conflitto fu marginale. Dopo pochi mesi dall’inizio della guerra infatti, il Forte Corbin, così come tutte le altre fortezze della zona, fu privato dei cannoni e si trovò ad essere estremamente debole e inefficace.
Gino Sartori
martedì 29 maggio 2018
lunedì 28 maggio 2018
La Pìtima
Almeno una volta nella vita ci
saremo sentiti dire “No sta far la pìtima!”, oppure “A go na pìtima intorno!”
Ma cosa significa esattamente?
L’origine del termine pare sia legata
ad una figura tipica del panorama sociale delle Repubbliche Marinare di Venezia e di Genova. Si trattava di una persona pagata per
seguire pedissequamente chi aveva un
debito moroso. Il pedinamento costante era accompagnato da gemiti,
urla, lamenti e schiamazzi per attirare l'attenzione pubblica. La pìtima (o pittima,
in italiano) infatti era solita lamentarsi e urlare senza sosta seguendo il
malcapitato debitore.
Grazie a questa pressione e alla pubblica umiliazione che ne derivava, il
debitore si trovava dunque costretto
a saldare i suoi conti. La pìtima era facilmente riconoscibile perché vestiva vistosamente di rosso e questo faceva sì che tutti sapessero del debito, aumentando l’imbarazzo
del pedinato. Questo colorato molestatore aveva dunque
un ruolo sociale riconosciuto e anche morale, essendo a suo modo un garante delle buone
norme di comportamento.
Per capire l’etimologia della
parola, che è diffusa un po' in tutta l'Italia, dobbiamo però risalire al greco antico. Essa infatti deriva dal termine ἐπίϑεμα ovvero “ciò che è posto sopra”
e indicava una sorta di impacco usato
a scopo terapeutico. La sua applicazione causava certamente una sorta di fastidio,
di impaccio, che limitava la mobilità del medicato e quindi si è traslata a significare una persona
fastidiosa, un impiastro appunto. Nei dialetti veneziano e genovese poi, questa accezione si è
definitivamente affermata grazie al ruolo istituzionale descritto sopra. Attorno al questo pittoresco
personaggio ecco quindi codificata un’espressione dalla storia lunga e intrigante a identificare una persona molesta o lamentosa: Ti si proprio na pìtima!
Di essa parla anche una canzone
di De André: “A’ pittima”, tratto dall’album Creuza
de mä. Come si evince dalla stessa
canzone, il ruolo sociale della pittima era ben definito, essendo questa una figura importante nel
panorama umano della Serenissima e veniva reclutata tra le fila degli
emarginati o delle persone indigenti. Il Dogado aveva sviluppato un sistema di
assistenza sociale per il quale forniva a chi ne aveva bisogno delle speciali
mense e ostelli, ma in cambio gli assistiti dovevano prestarsi al lavoro di pìtima. Per
tutelare la sicurezza di questi individui, che svolgevano effettivamente uno dei compiti più
fastidiosi di sempre, vi era tuttavia un sistema ben congegnato, che prevedeva la condanna di chi avesse
arrecato danni alla pìtima.
In questo modo si regolavano i conti e si
manteneva alto il nome della Repubblica, in quanto si scoraggiavano i debitori morosi e si tutelava un sistema economico basato prevalentemente sui commerci e sui relativi prestiti. Fare la pìtima era, a suo modo, un lavoro socialmente utile.
Gianni
domenica 27 maggio 2018
La pagina della domenica
LA RIFLESSIONE
Lettera di un anziano padre al figlio
Se un giorno mi vedrai vecchio, se mi sporco quando
mangio e non riesco a vestirmi, abbi pazienza con me: ricorda il tempo
che ho trascorso ad insegnarti queste cose.
Se quando parlo con te ripeto sempre le stesse cose, non mi interrompere. Ascoltami. Quando eri piccolo dovevo raccontarti ogni sera la stessa storia finché non ti addormentavi.
Quando non voglio lavarmi, non biasimarmi e non farmi vergognare. Ricordati quando dovevo correrti dietro inventando delle scuse perché non volevi fare il bagno.
Quando vedi la mia ignoranza per le nuove tecnologie, dammi il tempo necessario e non guardarmi con quel sorrisetto ironico. Ho speso molta pazienza per insegnarti l'ABC e le prime addizioni.
Quando ad un certo punto non riesco a ricordare o perdo il filo del discorso, dammi il tempo necessario per ricordare, e se non ci riesco non ti innervosire: la cosa più importante non è quello che dico, ma il mio bisogno di essere lì con te ed averti davanti a me mentre mi ascolti.
Quando le mie gambe stanche non mi consentono di tenere il tuo passo non trattarmi come fossi un peso. Vieni verso di me con le tue mani forti nello stesso modo con cui io l'ho fatto con te quando muovevi i tuoi primi passi.
Quando dico che vorrei essere morto, non arrabbiarti. Un giorno comprenderai che cosa mi spinge a dirlo. Cerca di capire che alla mia età non si vive, si sopravvive.
Un giorno scoprirai che nonostante i miei errori ho sempre voluto il meglio per te e che ho tentato di spianarti la strada.
Dammi un po' del tuo tempo, dammi un po' della tua pazienza, dammi una spalla su cui poggiare la testa, allo stesso modo in cui io l'ho fatto per te.
Aiutami a camminare, aiutami ad arrivare alla fine dei miei giorni con amore, affetto e pazienza. In cambio io ti darò sorrisi e l'immenso amore che ho sempre avuto per te.
Se quando parlo con te ripeto sempre le stesse cose, non mi interrompere. Ascoltami. Quando eri piccolo dovevo raccontarti ogni sera la stessa storia finché non ti addormentavi.
Quando non voglio lavarmi, non biasimarmi e non farmi vergognare. Ricordati quando dovevo correrti dietro inventando delle scuse perché non volevi fare il bagno.
Quando vedi la mia ignoranza per le nuove tecnologie, dammi il tempo necessario e non guardarmi con quel sorrisetto ironico. Ho speso molta pazienza per insegnarti l'ABC e le prime addizioni.
Quando ad un certo punto non riesco a ricordare o perdo il filo del discorso, dammi il tempo necessario per ricordare, e se non ci riesco non ti innervosire: la cosa più importante non è quello che dico, ma il mio bisogno di essere lì con te ed averti davanti a me mentre mi ascolti.
Quando le mie gambe stanche non mi consentono di tenere il tuo passo non trattarmi come fossi un peso. Vieni verso di me con le tue mani forti nello stesso modo con cui io l'ho fatto con te quando muovevi i tuoi primi passi.
Quando dico che vorrei essere morto, non arrabbiarti. Un giorno comprenderai che cosa mi spinge a dirlo. Cerca di capire che alla mia età non si vive, si sopravvive.
Un giorno scoprirai che nonostante i miei errori ho sempre voluto il meglio per te e che ho tentato di spianarti la strada.
Dammi un po' del tuo tempo, dammi un po' della tua pazienza, dammi una spalla su cui poggiare la testa, allo stesso modo in cui io l'ho fatto per te.
Aiutami a camminare, aiutami ad arrivare alla fine dei miei giorni con amore, affetto e pazienza. In cambio io ti darò sorrisi e l'immenso amore che ho sempre avuto per te.
Ti amo, figlio mio.
LA POESIA
Gioca a nascondersi il sole,
non gli importa di sembrare bambino,
di deludere le aspettative,
di sfuggire alle regole
"del vivere civile".
Va e viene quando vuole,
anche quando la stagione
gli impone di presidiare il giorno
sino al tramonto.
Credo che si annoi,
e ogni tanto ...
ha solo voglia di sparire.
Francesca Stassi
LA FRASE
Disse la verità alla falsità:
Io sono il Sole e tu sei il fulmine.
Io illumino, tu abbagli.
Io sono l'ora e tu sei l'attimo.
Per quanto tu possa anticiparmi,
io ti raggiungerò sempre.
IL PROVERBIO
Pitòsto che spànderghene un giòsso...
mejo bévarghene un posso!
sabato 26 maggio 2018
Na volta in Contrada
Ma che bella la Contrada, una piccolissima realtà in cui vivere,
straordinaria e unica, perché tutte diverse una dall’altra. I gruppi
familiari molto spesso davano il nome alla Contrada, ne sono testimoni
le bellissime contrade disseminate sugli 8 Comuni altopianesi, come per
esempio la Contrada Pozza a Lusiana, Frisoni a Enego, Rodeghiero ad
Asiago, Sambugaro a Gallio, Bagnara a Conco, Rebeschini a Roana, Stona a
Foza e tante altre, ed anche se uno emigra, resterà sempre la sua
contrada, la sua identità, la sua provenienza…" mi
son de San Domenego… mi vegno xo dai Costa, dai Ronzani ecc. ecc."
La
gente con la quale si è cresciuti, giocato, lavorato, divertito, amato,
la Contrada della memoria, quella della vita tribolata, ma vissuta uno a
fianco l’altro, “ciacolàre fora dala porta” dove tre donne formavano
già un gruppo whatsapp!!!
Na volta in Contrada si era tutti
uguali, perché si era tutti poveri, ci si accontentava di poco, e
proprio dal non possedere nulla, era più semplice e spontaneo essere
generosi con gli altri.
Gli uomini giocavano a carte, le donne
chiacchieravano
filando la lana, i giovani, sotto l’occhio vigile dei genitori,
approfittavano di questi momenti per parlare d’amore.
Ma chi si
divertiva di più erano i bambini che, liberi come "lugarini" saltavano a
perdifiato sul fieno, oppure giocavano con le ombre prodotte dai lumi
e, quando erano presi dalla stanchezza, ascoltavano le favole che
venivano raccontate da un Veciòto dela Contra', che conosceva l’arte del
racconto e li faceva rimanere a bocca aperta, parlando di orchi, lupi,
streghe e castelli fatati. Ora nelle Contrade spesso non si esce più a
“ciacolàre”... ci si saluta sui “social”, e ognuno ha la sua macchina per
scappare via lontano… il tempo dello stare assieme è finito…
Cara Contrada, ti ricordi di quando i bambini nascevano in casa, di quando
le Comari bevevano il caffè di porta in porta, ma ogni giorno diversa, e
nel mese di maggio tutti riuniti sul capitello dela Contrada per il
Rosario alla Vergine Maria, o di quando si giocava in strada a
nascondino, l’elastico, un…due… tre… stel la,
girotondo, a biglie, e tanti altri, quante belle cose, quante belle
tradizioni: l’orto più folto, el legnaro più grande, el cavalo più
forte el slito più grosso.
Ci si voleva più bene, perché si lavorava 12
ore al giorno, e si aspettava con entusiasmo le poche feste dell’anno
per fare un po' di “baldoria co le tose”, ma se da una parte vi era
l’asprezza e la povertà della vita, dall’altra vi era la tranquillità,
la pazienza, l’aiuto reciproco, lo spirito comunitario, le speranze, le
illusioni e l’orgoglio… cara Contrada mia, quanto mi manchi...
Fabio Ambrosini Bres
Fabio Ambrosini Bres
venerdì 25 maggio 2018
A scuola si studierà la storia dell’emigrazione veneta
In tutte le scuole di ogni
ordine e grado del Veneto si studierà la storia dell’emigrazione veneta:
lo prevede il protocollo di intesa tra Regione Veneto, Ufficio
scolastico regionale e le sette associazioni venete per l’emigrazione.
A
partire dal prossimo anno scolastico, a insegnanti e studenti saranno
proposti interventi di approfondimento, incontri con i testimoni e lezioni di storia
per comprendere il fenomeno migratorio che ha interessato il Veneto a
partire dagli ultimi tre decenni dell’Ottocento fino al secondo
Dopoguerra.
Le associazioni dei veneti nel mondo (Associazione
Veneti nel mondo, Unione dei Triveneti nel mondo, associazione degli
emigrati ed ex emigrati in Australia e Americhe, Bellunesi nel mondo,
Trevisani nel mondo, Veronesi nel mondo e Vicentini nel mondo)
metteranno a disposizione relatori, esperti e materiali per realizzare
corsi per insegnanti e moduli di approfondimento per gli studenti, dalle
primarie alle secondarie superiori.
“È giusto che i giovani conoscano l’entità,
le cause e ciò che ha prodotto il fenomeno migratorio in Veneto tra Otto
e Novecento – dichiara l’assessore regionale all’istruzione – nonché
come i diversi paesi hanno affrontato il tema delle migrazioni. È una
pagina di storia spesso ignorata, che invece ha generato grandi
cambiamenti sociali, culturali e anche politici nelle nostre terre e nei
paesi di destinazione degli emigranti veneti”.
“C’è un altro Veneto al di là del mare, tra Americhe e Australia –
ricorda l’assessore regionale al sociale e ai flussi migratori – Si
calcola, infatti, che gli emigranti veneti e i loro discendenti siano almeno 5 milioni,
tanti quanti i residenti nella nostra regione. E molti di loro hanno
conservato lingua, cultura, tradizioni e un forte legame con la terra
d’origine. Promuovere la conoscenza e lo studio del fenomeno migratorio e
delle sue ricadute è un atto di omaggio al coraggio e
all’intraprendenza di chi è partito e un modo per tenere vivi i legami
con chi si sente ancora veneto, anche se ormai ha messo radici in altri
paesi e altre culture”.
ilnuovoterraglio
(segnalato da Odette)
giovedì 24 maggio 2018
Ciauscamìnti (R.0)
Proviamo a lanciare un Post sul tema dell’Antica Lingua, cioè del CIMBRO, dove si possano lasciare testimonianze, commenti, domande, chiarimenti, parole, racconti, poesie, ecc., con particolare riferimento ai suoi retaggi nell’Alta Valle dell'Astico, ma non esclusivamente.
Per rompere il ghiaccio e focalizzare l’argomento, ripropongo un estratto dal mio post "La parlata cimbra nell’Alta Val dell’Astico” pubblicato il 1° Agosto 2012 e limitato agli aspetti documentali di cui sono a conoscenza; depennato quindi delle mie più soggettive considerazioni allora espresse.
Gianni Spagnolo
../.. A San Pietro si parla (parlava) un veneto più duro, spigoloso, aspro e spesso con termini diversi e accenti traslati rispetto a quello dell’area pedemontana. Esso non ha la morbidezza del Vicentino né la simpatica cantilena del Trentino; anche se fa da ponte territoriale tra i due, mi pare che non li leghi come invece sarebbe naturale aspettarsi. Si avverte che è una lingua non ancora completamente metabolizzata. Quella di un luogo che pur essendo situato in una valle di antico transito, è stato comunque culturalmente ed etnicamente isolato. Alcuni forse ricorderanno che nella decina di chilometri che separano Barcarola da Lastebasse ogni paese, per non dire contrada, avesse elaborato una propria piccola specificità. Certo ora non più, la parlata si è incivilita, alterata e uniformata alla sintassi italiana, ma in un passato non remoto si riusciva a distinguere se uno veniva dal Maso piuttosto che dal Casotto o da Pedescala (entro neanche tre chilometri di raggio), soltanto dalla pronuncia o da certi particolari modi di esprimersi.
Molte delle parole ormai cadute in disuso avevano origine e desinenze non venete e divennero ostiche alla pronuncia anche ai locali che avevano crescenti difficoltà a coniugarle al dialetto vicentino prevalente. Perciò esse furono velocemente abbandonate a favore dei sinonimi veneti, a volte distorcendone pure il significato. Derivavano dal cimbro, peraltro parlato nel territorio comunale fino agli albori del secolo scorso.
Ne sono rimaste vestigia nei soprannomi più antichi delle nostre famiglie:
Bàise, Betéle, Garbàto, Màule, Pàmele, Godi,…
Nei toponimi: Chéstele, Sléche, Bisa/Bìsele, Tóra, Chipa, ... forse: Joa, Nóre, Trudi, ecc.
Nei termini: Snébele, Chìtele, sgnéco, Snàra, bióto, Cróte, Ghénghele, Béghele, Slìba, pitufàre, Befèl, Rùfa, Saane, Stéela, slìndese, snoràre, smeàro, Flassa, Móose, Schìnche, sdréc, Clàmara, .. e tanti altri ancora che magari ai più anziani torneranno in mente.
Mi sono spesso chiesto la ragione di questa singolare situazione e di come parlassero i nostri progenitori. La documentazione scritta in merito sull'alta valle dell'Astico è purtroppo assai carente, ma alcuni viaggiatori e studiosi del XVIII-XIX° secolo (Schmeller, Brentari, Pezzo, Maccà e il nostro Dal Pozzo) ci hanno lasciato comunque delle tracce sufficienti a farci un'idea della situazione all'epoca.
Nella sua visita del 1833, l'insigne linguista tedesco J. Andreas Schmeller, notò con sorpresa che si parlasse ancora cimbro a Lastebasse (Casenuove di San Marco) e che addirittura alle Carotte fosse usato anche dai bambini. Lo stupì ancor più il fatto che lo fosse in una forma decisamente più pura di quella che aveva appena udito da alcuni pochi anziani nei soprastanti altipiani di Lavarone e Folgaria, dove ormai l'antica lingua era già spenta. Riscontrò poi che più oltre nella valle, a Casotto e San Pietro prevalesse il veneto.
L'irredentista trentino Ottone Brentari, scrisse che si parlasse ancora l'antica lingua al maso Scalzeri nel 1850, come pure a Montepiano e Boscoscuro.
L’abate Dal Pozzo, che era di Castelletto e quindi sapeva il fatto suo, si rammaricava che già alla fine del 1700 Pedescala avesse ormai perso la parlata nazionale.
La sera del 30 settembre 1833, lo Schmeller giunse a San Pietro, accompagnato da Don Matteo Dal Pozzo, curato di Casotto. Di San Pietro annota che non si parla più la lingua tedesca da molto tempo. [.. aber längst nich mehr deutsch sprechenden Gemeinde..]. Quella lingua che a Rotzo, che era allora il capoluogo comunale ma geograficamente più marginale, resistette fino alla Prima Guerra mondiale.
Il padre Gaetano Maccà, autore di una voluminosa storia delle chiese del territorio vicentino, visitò San Pietro verso il 1805 e annotò che la popolazione parlava “oggidì” la lingua italiana. Parimenti si espresse per Pedescala scrivendo che “al presente“ parlasi la lingua italiana (intendendo ovviamente la veneta). Nel medesimo periodo scrisse che ad Enego e Lusiana “parlasi italiano” (senza specificazioni temporali), che a Foza si parlava un cimbro più puro rispetto agli altri centri interni dell'Altopiano, affiancato all’italiano. Di Gallio argomentò che si parlasse italiano in paese ma non nelle sue contrade sparse, quantunque l’italiano si capisse, ma che 40 anni prima esso non fosse affatto in uso. Non specificò invece la parlata per i paesi dell’Altopiano dov’era ancora prevalente il cimbro (Asiago, Roana e Rotzo); evidentemente considerava del tutto ovvia la cosa. Così per gli altri paesi vicentini fuori dall’areale cimbro, dove non ritenne di rilevare quale lingua parlassero gli abitanti essendo naturalmente sottintesa la veneta (vale a dire la forma locale del dialetto veneto).
Queste specificazioni portano a ritenere che proprio in quel periodo si fosse imposto a San Pietro, come a Pedescala il veneto come lingua corrente di relazione, ma che questa situazione fosse relativamente recente e ancora persistessero tracce della parlata cimbra. Anche don Marco Pezzo, nella sua opera del 1765 (Dei Cimbri veronesi e vicentini, libri due, Verona 1763), si rammaricava che S. Pietro e Pedescala stessero perdendo o avessero già perso l'uso corrente del cimbro, similmente a tutta la fascia orientale di Enego-Lusiana-San Donato del Covolo.
Nel 1610 il conte Caldogno, nel riuscito tentativo di allargare alle montagne dell’Alto Astico la Milizia dei 7 Comuni per meglio presidiare dei confini della Serenissima, scrisse che Tonezza e Lastebasse s'intendessero senza problemi con quelli dell’Altopiano perché parlavano la medesima lingua.
Fino a tutto il XVIII° secolo San Piero era un paese di al massimo 400 anime, con famiglie che si formavano all’interno della stessa comunità e con ricorrenti escursioni maritali nei paesi limitrofi lungo l’Alta Valle e gli Altopiani contermini, com’era consuetudine in tutto il comprensorio. I legami parentali fuori da questo furono assai rari e similmente per le comunità confinanti. Ben pochi forestieri infatti si stabilirono definitivamente da noi e non ho contezza di matrimoni avvenuti fuori dal territorio considerato. D’altra parte è del tutto comprensibile che una zona dalla vita certamente più tribolata, chiusa e parlante al suo interno un idioma diverso non offrisse particolari attrattive alla gente del piano.
Vengo da generazioni di emigranti di lunga data, ovvero di persone che vissero in paese prevalentemente fino all'adolescenza, allevati spesso dai nonni e che poi non ebbero quotidiana frequentazione con il dialetto veneto parlato in paese e ancor meno con l’italiano. Quel dialetto che si stava velocemente corrompendo per l’incipiente sviluppo e le accresciute relazioni con l’esterno, che invece nelle famiglie emigrate si mantenne statico, come appreso in gioventù.
Ecco allora che da bambino mi capitava di sentir echeggiare in famiglia mozziconi di frasi che provenivano dal buio del tempo e da una lingua sconosciuta e misteriosa.
Era il retaggio di parole che i miei vecchi avevano sentito a loro volta da bambini dai loro nonni e ogni tanto emergevano, fortemente alterate ma evocative di un passato che mi sfuggiva, seppur mi affascinava. Fu quando dovetti a mia volta emigrare e praticare il tedesco e i suoi dialetti che quei suoni e i loro significati cominciarono a svelarsi. Ho il grande rammarico di non aver avuto allora l’età e la consapevolezza per poterli registrare e che ora purtroppo sono perduti o relegati nella vaghezza di lontani ricordi.
Mio bisnonno paterno Domenico Spagnolo, classe 1851, in famiglia era chiamato: Méneghele, (anche mio padre lo ha sempre chiamato me poro nono Méneghele) sua moglie Caterina: Càtele, i bimbi di casa: nìnele, …la capra: mémele. Diminutivi e vezzeggiativi improbabili nel dialetto veneto: erano forse gli ultimi barlumi dalle braci di una lingua che si spegneva nel focolare della Storia. Relegata nell’ultimo suo baluardo: il lessico familiare: il linguaggio degli affetti.
Giunga illuminante una riflessione lasciata scritta nel 1790 da un nostro conterraneo, l'abate Agostino dal Pozzo Prunnar:
“Eppure chi li crederebbe! In un angolo dei Sette Comuni, dove attesa la situazione, il linguaggio tedesco potrebbesi conservare e più puro, e più a lungo che in altri luoghi, gli abitanti sono venuti da qualche tempo a tale riscaldamento di fantasia, che odiano e vilipendono la propria lingua, vergognandosi di parlarla quasi fosse un disonore e una infamia servirsene. Non basta proibiscono ai figli di apprenderla, e agli ospiti di parlarla nelle loro case, a fine di abolirla ed annientarla. E non è questa una barbara e inaudita crudeltà detestare il linguaggio, che succhiarono col latte: che fu si caro ai loro antenati: che caratterizza e distingue la nostra privilegiata nazione dalle vicine, e ch’è l’argomento più decisivo che abbiamo della nostra antichità ed origine: Argumentim originis? Ben si può applicare a costoro il rimprovero che Cicerone scagliò contro a que’ Romani che trascurarono di coltivare il proprio idioma, appellandoli scimuniti e vanarelli! Questi tali in pena di aver cooperato alla perdita della nativa lor lingua, meriterebbero d’esser privati del beneficio di godere dei privilegi accordati alla nazione de’ Sette Comuni, di cui si vergognano d’esser parte disdegnando di parlarne la lingua” ../.
Era lo spirito dei tempi, si dirà. Niente dura in eterno, bisogna evolvere, cambiare, adattarsi al mutare dei tempi e delle situazioni. Certo, la cosa non stupisce, visto che è poi quello che noi facciamo quotidianamente con la nostra lingua madre, quella che abbiamo succhiato col latte.
Era lo spirito dei tempi, si dirà. Niente dura in eterno, bisogna evolvere, cambiare, adattarsi al mutare dei tempi e delle situazioni. Certo, la cosa non stupisce, visto che è poi quello che noi facciamo quotidianamente con la nostra lingua madre, quella che abbiamo succhiato col latte.
Gianni Spagnolo
1/8/2012
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Potenza del nome
[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...