Il rapporto dell’ISTAT
sulla conoscenza in Italia è una fotografia talmente brutale dei nostri
problemi con cultura e sapere da lasciare sconfortati. Bisognerebbe prenderne
atto e ripartire da lì, ma a quanto pare preferiamo far finta che il problema
non esista.
Riflettiamo un po' insieme su questo argomento con l'estratto dell'articolo seguente di Francesco Cancellato.
Riflettiamo un po' insieme su questo argomento con l'estratto dell'articolo seguente di Francesco Cancellato.
Se aveste una sola scelta, se
vi chiedessero qual è IL problema dell’Italia, uno solo, cosa rispondereste? Pensateci bene.
Probabilmente in molti parlerebbero di tasse e burocrazia, altrettanti di mafia
e corruzione, qualcun altro punterebbe il dito sugli stranieri o sull’Europa,
qualcun altro ancora direbbe la disoccupazione. Nessuno - o pochissimi,
perlomeno - parlerebbero di scuola, formazione e conoscenza. Eppure è proprio
lì che sta il problema dei problemi, quello che genera tutti gli altri: che siamo un Paese che non produce conoscenza, che non trasmette
conoscenza e che non sa che farsene di quella che ha.
E delle due, una: o non ce ne
rendiamo conto... o, peggio, ce ne vergogniamo talmente tanto da negarlo.
Lo diciamo partendo da un dato empirico
abbastanza incontrovertibile. Che siamo tra i pochi Paesi
al mondo, forse l’unica tra le economie sviluppate, che non considera il sapere
e la conoscenza come valore aggiunto, ma che al contrario fa sfoggio
della sua ignoranza, che irride i “professoroni” e i giovani che se ne vanno
all’estero. L’unico, che durante la più feroce crisi economica che abbia mai
passato, decide di tagliare le poste di bilancio dedicate all’istruzione cinque
volte più - il 10%, contro una media di tagli del 2% - di quanto non l’abbia
fatto per tutti gli altri capitoli di spesa. L’unico, in cui gli investimenti a
doppia cifra finiscono in tutti i capitoli di spesa possibili tranne in quello
della ricerca e della formazione, cui se va bene toccano le briciole.
In quest’ottica, il Rapporto
sulla Conoscenza 2018 dell’ISTAT è una specie di museo degli orrori, che mette
in scena quarant’anni
almeno di politiche scellerate, di malagestione e incuria. Di sopravvalutazione
del nostro sistema formativo - che ancora ci ostiniamo a ritenere il migliore
di tutti, nonostante i disastri nei test di valutazione comparati Pisa
dell'OCSE. Di tutti i dati ne abbiamo scelti quattro, che raccontano meglio di
qualunque altro come siamo messi.
Il primo: siamo ultimi in
Europa - ultimi, lo ripetiamo - per percentuale di popolazione dai 25 ai 64
anni con in mano un titolo di studio terziario, vale a dire almeno una laurea, l’unico in
cui i laureati sono il meno del 20% della popolazione. Dietro la Grecia e la
Romania. Dietro agli Stati Uniti e il Regno Unito, Paesi in cui alla laurea ci
è arrivato il 46% della popolazione.
Ripetete insieme a noi: il
problema delle imprese italiane si chiama Europa, si chiama globalizzazione. E
cercate di non ridere, mentre lo dite. O di non piangere.
Un piccolo suggerimento: i venti miliardi all’anno che volete buttare per abolire la
Legge Fornero o per il reddito di cittadinanza, buttateli nella scuola, una
volta in Parlamento. Fatelo per innovare corsi e materiali didattici,
per far crescere la formazione lungo l’arco della vita, per adattare programmi
e metodologie al presente, per fare del sistema scolastico italiano
un’eccellenza mondiale per la preparazione degli studenti.
Poi vedete se le cose non
cambiano davvero.
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