Ho letto il libro di Claudio
Dal Pozzo “La casa in Contra’ Sega”, recentemente pubblicato. Un interessante affresco storico sociale
della Pedescala di due generazioni fa, visto con l’occhio di un vecchio
bambino; forse il libro che avrei voluto scrivere io a proposito del mio paese.
Un racconto che mi ha fatto esplorare
sui suoi passi questa frazione, che dista solo pochi chilometri da dove io
sono venuto al mondo, ma che certo non posso dire di conoscere. L’autore appartiene
alla generazione precedente la mia ed è stato un più fedele testimone dell’agonia
di quell’antica civiltà rurale di montagna, semplice e povera, ma non
misera, e a tratti anche grandiosa, di
cui siamo tutti figli.
L’occasione mi ha fatto
ritornare in mente riti e termini ormai dimenticati; come scorlaforéte, usato per etichettare in modo dispregiativo gli
abitanti di Forni. Era un epiteto che usava a volte anche mia Nonna o mia Mamma,
anche se mai con questa accezione.
…Vara
che l’è un scorlaforéte, … Staghe distante da cuél scorlaforéte lìve,…. Detti
di comari, sedute attorno alla grande fornéla, conprà dai Rossi Balansa da mio Nonno nel 1936. Esortazioni alle ragazze in fiore perché valutassero con maggiore attenzione i
giovanotti che ronzavano loro attorno.
Io, bambino dell’età del
Claudio narratore del libro, ascoltavo le ciàcole dele veciòte e immaginavo chissà quale
significato per quel scorlaforéte che
giudicava senza appello qualche giovanotto locale (non dal Maso né dai Forni).
Non capivo poi il nesso fa lo scorlàre la
foréta e il fatto che le ragazze dovessero star ténte o méterghe pì
giudissio….
Certo, sapevo perfettamente
cosa significasse il verbo scorlàre: scorlàva il manico del menaròto o del sapìn che non si usava da tempo e bisognava immergerlo nell’acqua
una notte per farlo arvegnére. Nei
casi più gravi bisognava anche inpendolarlo.
Scorlàva l’amico che si comportava o
ragionava in modo incomprensibile: scùrlitu?
Situ drio scorlàre? No te scorlarè mia, vero? Scorlòn, mi pare fosse uno menefreghista
o che non aveva voglia di lavorare. La foréta
invece era il rivestimento del cuscino da letto, dove si sbavedàva. Vedevo però che erano sempre le fémene a scorlàre le foréte quando le lavavano alle
fontane o le mettevano ad asciugare; mai visto uomini a farlo. A San Pietro c’era chi identificava come scorlaforéte tipicamente gli abitanti
del Maso.
Boh! Il dubbio rimase e la cosa
finì lì, anche perché ormai tutti tentavano di incivilirsi annacquando le parti
più arcaiche e tipiche delle nostra parlata. Poi emigrai e il dialetto rimase
confinato nel contesto familiare.
Il modo di dire riemerse più
recentemente, in una conversazione fra paesani, dove chiesi loro di
specificarmi cosa intendessero per scorlaforéte.
A xe cuìli dal Maso, disse qualcuno. I ghe dixéa cussita a cuìli dai Furni,
parchè i gera pori grami e i nava par carità scorlàndo na foréta voda par far pecà… Più o meno ciò che scrive
in merito anche Claudio Dal Pozzo, solo che lui lo lega ai sacchi quasi vuoti e
perciò scorlànti di quelli dai Forni al ritorno dal mulino.
Nel frattempo mi ero imbattuto in alcuni vecchi modi di dire della zona di Albaredo; in particolare mi colpì:
Scociot foretten = persona
immatura e inaffidabile.
Scociòt foretten.. scociòt foretten,… scociòt
foretten…. br…brrr… brrrrrrrr. Il mio motore di ricerca interno sia era
messo automaticamente all’opera: “soggetto immaturo e infido”. Ecco svelato l’arcano
all’adulto curioso che era diventato quell’ingenuo bambino: era proprio questo
ciò che intendeva me pora Nona per scorlaforète. Indubbiamente questo termine composto si
prestava bene ad essere il “vestitino veneto” di un epiteto cimbro altrimenti
intraducibile e così reso invece pronunciabile, anche se esposto a inevitabili
futuri fraintendimenti.
- Scociòt,
Scociöttle = giovanotto immaturo, persona irresponsabile - Foretten,
foraaten, forràtan = tradire - Forràtar = traditore.
Mhm...! Etimologia fantastica, …. o
reconditi retaggi?
Vediamo di farci sopra un po’
di analisi critica. L’aggettivo scorlaforéte,
che credo sia tipico della nostra zona, non avendolo mai sentito altrove, pare
essere di antica origine. Se il verbo scorlàre,
(nel senso di agitare, scuotere), nel
dialetto locale ha il suo perché, il sostantivo foréte solleva invece qualche perplessità. La foréta (federa, in italiano) è un corredo da letto un po’ sfizioso e
moderno, che era poco diffuso fra la nostra gente fino alla fine dell’1800; men che
meno fra i più poveri, che non disponevano spesso nemmeno di coperte, per non
dire di cuscini o lenzuola. Pensare che si usassero le federe dei cuscini per
andare a chiedere l’elemosina mi pare perciò improbabile. Saco, sachèto o sachéta
sarebbero stati termini più appropriati per rendere questa idea. Foréta, infatti, non mi pare che da noi sia sinonimo
di sacco; è un termine piuttosto moderno che rimanda alla sua funzione tipica di biancheria da letto, non di generico contenitore flessibile.
Se scorlaforéte aveva quindi il significato di povero, di qualcuno
costretto a chiedere la carità, va detto che stiàni la povertà era una condizione piuttosto comune (chi più e
chi meno) e non un marchio di disprezzo. Poro,
poaréto (povero), nella nostra parlata,
aveva infatti un senso di condivisione, di compassione, non di esclusione: poro can; poro cristo; me poro nono; poaréto el me toso….. Allora i casi della
vita, come carestie, disgrazie, malattie e morte di congiunti, ecc. potevano facilmente gettare nel bisogno estremo anche chi prima non lo era. La riprovazione sociale non colpiva quindi la povertà in sé, ma la
mancanza di voglia di lavorare: era questo lo stigma sociale più grave. Altro
fatto strano è che gli "scuotitori di federe" si concentrassero nella parrocchia
di Forni in modo così esclusivo da generare questo singolare neologismo. Forni
non era certo terra ricca, anzi, ma verosimilmente non tanto più disgraziata delle contermini; le condizioni di vita in valle allora erano dure per tutti. Lì peraltro abitarono i Cerato, che furono per secoli i maggiorenti dell'Alta Valle.
Se però tornassimo a quel rigido inverno
di cinque secoli fa, quando quel gruppo di fedeli pedescalesi di ritorno dalla messa ai
Forni, …. scivolarono sul ponte ghiacciato andando con le balanse par aria, ….? (*)
Beh,… forse allora, il conio di questo epiteto nell’antica lingua ci sarebbe stato a pennello; tale
da perpetuarsi nei secoli, pur alterandone la comprensione.
A Pedescala, si sa, hanno la memoria lunga.
Gianni Spagnolo
XVI-IV-MMXVI
(*) Al tempo in cui non avevano ancora la loro chiesa, gli abitanti di Pedescala dovevano recarsi nelle chiese vicine per assistere ai riti, ovvero in quella di S.M. Maddalena di Forni, che era la più comoda; per farlo bisognava però attraversare l'Astico su una passerella di legno.
Pare dunque che la domenica di San Biagio del 1521, un gruppo di infreddoliti e intabarrati fedeli ritornassero ca me stoan dopo aver assistito alla messa presso la chiesa di Forni. Nell'attraversare la passerella parecchi di loro scivolarono sul legno ghiacciato finendo nelle gelide acque del torrente. La causa non fu ritenuta affatto naturale, anche perché all'andata erano transitati senza incomodo, ma bensì opera deliberata di quegli irresponsabili dei Forni. San Biagio provvide tosto a preservare i malcapitati dalle conseguenze del tuffo, com'era nel suo mandato, ma i pedescalesi se la legarono comunque al dito e fecero poi di tutto per ottenere la concessione di costruirsi una chiesa propria e non aver parte con quei vicini inaffidabili e marpioni.
Come siano andate effettivamente le cose in quella circostanza e quali imprecazioni e maledizioni siano volate e in quale lingua, non lo sa ormai nessuno, ma un'antica seleghéta posata su una fronda di salgaréla lì nei pressi....