Hanno gli occhi terrorizzati tipici di chi sa da dove viene ma non sa dove finirà.
Visi neri come la notte che incarnano storie di uomini fuggiti da una
guerra religiosa che ha distrutto loro le case, gli altari delle
chiese, le famiglie e la professione. Hanno lasciato tutto in Nigeria,
per scappare dal ‘Gruppo della Gente della Sunna’, meglio conosciuti
come Boko Haram, propagandisti della Jihad che sostengono a suon di
bombe che “l’educazione occidentale è sacrilega”.
Sono questi i profughi che soggiornano alla Ex Colonia del Comune di Schio, nel territorio di Valli del Pasubio.
Sono andata a respirare con il mio naso l’odore dei profughi,
convinta di sentire quel tipico odore di aromi e sudore che comunemente
si associa all’Africa. Volevo vedere con i miei occhi, per tentare di
comprendere se nelle loro tasche si nasconde l’Isis, se nei loro
progetti c’è lo sterminio della razza occidentale o se semplicemente
sono dei poveracci che sono saliti su barconi sgangherati per andare incontro a un futuro che non si sa se ci sarà.
Ci sono arrivata alla Colonia con Valter Orsi, Sindaco di Schio,
desideroso di capire che sapore ha questa patata bollente servita al
suo Comune, per valutare ‘con mano’ eventuali pericoli, disadattamento,
intolleranza o insostenibili lamentele da parte dei profughi.
Dopo averli salutati con un ‘Bonjour’ ed essermi sentita rispondere
‘Good morning’, ho capito che la lingua giusta da usare era l’inglese,
ma ho preferito aprire il dialogo con un linguaggio ancora più
universale e ho offerto loro una sigaretta.
Fuori della Colonia erano in 4, gli altri erano tutti di sopra,
invisibili e silenziosi. Al momento gli ospiti sono 20 e altri 15
arriveranno entro sera. Altri 15, tutti provenienti dall’Eritrea, sono
scappati poche ore dopo il loro arrivo perché non riuscivano ad
ambientarsi in un luogo di montagna, non si aspettavano di dover
affrontare un ‘inserimento’ così traumatico – racconta chi è rimasto – ,
perché nessuno aveva detto loro che le differenze culturali,
climatiche, alimentari ed emotive, sono così difficili. Hanno preferito
rischiare di essere rispediti a casa, perché tanto non hanno nulla da
perdere. Ma Kennet li condanna e dice di loro: “Non hanno capito che
devono accettare le vostre regole. Noi invece siamo qui e ci resteremo
finchè deciderete cosa fare di noi”.
Kennet
(il nome è la traduzione in inglese di un incomprensibile suono che
proviene dall’Africa nera) ha 35 anni. Gli ho chiesto se potevo entrare
per vedere la cucina. Mi ha accompagnata all’interno e guardandomi negli
occhi si è seduto davanti ad una tavola vuota.
Kennet mi voleva parlare di sé. E’ nigeriano e cattolico come quasi
tutti gli ospiti della Colonia. Nel suo paese di spezie e gorilla, di
ippopotami e cascate, ha lasciato il suo lavoro di commerciante, una
mamma, due sorelle e una casa che probabilmente ora sarà stata rasa al
suolo perché cattolica. In silenzio è entrato Valter Orsi, impegnato nel
frattempo a discutere la fuga degli eritrei con un operatore della
cooperativa che gestisce ‘i ragazzi’. Poi Stanley (anche questo è un
nome adattato ad una lingua comprensibile dalle mie orecchie) si è
seduto vicino a Kennet. Ha 24 anni e faceva il barbiere. Il suo sogno è
imparare l’italiano, trovare un amico che gli insegni la lingua e gli
spieghi che cosa deve fare per poter fare il barbiere anche in Europa.
“Non lo so dove andrò – mi ha detto offrendomi un bicchier d’acqua,
unica vivanda presente in cucina – so solo che devo stare qui finchè non
mi danno dei documenti con i quali potrò muovermi. Devo lasciare la
vecchia vita alle spalle”. Poi, uno alla volta, i profughi sono arrivati
tutti, come, quando le sai aspettare, le mosche arrivano al miele.
Diffidenti come le marmotte si guardavano l’un l’altro, cercando di
capire chi fosse questa coppia di ‘padroni di casa’ così interessati
alle loro vicende personali. E piano piano, in un inglese con il
retrogusto della savana, si sono raccontati.
Cacciati dalla Nigeria, i 20 profughi ‘di Schio’ sono stati spinti a
piedi fino alla Libia, terra mussulmana, in cui ancora una volta si sono
sentiti dire “andate in un paese cattolico, sennò vi facciamo fuori”.
Da qui il barcone. Da qui la decisione di scavalcare il Mediterraneo
alla volta di una terra nuova e moderna, accogliente e profumata:
l’Europa. “Noi di questo gruppo siamo arrivati tutti con lo stesso
barcone, con altre 120 persone – mi ha spiegato Erik, 19 anni – E’ stato
un viaggio disperato, ma sicuro. Niente litigi con gli scafisti, niente
urla o botte. Sapevamo di avere il 50% delle probabilità di rimanere
vivi e qualcuno di noi è morto. Per il sole e la sete. L’abbiamo
affidato a Dio gettando il corpo nelle acque del mare. Non abbiamo
pianto, perché sarebbe potuto arrivare il nostro turno”.
“Ma come avete vissuto la partenza? – ho chiesto in preda a curiosità
mista a diffidenza – come siete saliti senza soldi (gli scafisti hanno
portato loro via tutto prima di imbarcarli) su una barca che punta verso
l’ignoto?”
Mi
ha risposto Kennet, il più anziano del gruppo: “In Nigeria mi avrebbero
ucciso, in Libia anche. Poteva uccidermi il mare. Mi sono chiuso nel
mio cuore e ho parlato con Dio. Gli ho detto: ‘se mi fai arrivare salvo
dall’altro lato del mare, io ti prometto che sarò un uomo migliore’ ed è
quello che voglio fare ora”.
A uno a uno i ragazzi si sono aperti. Due di loro vengono dal Gambia e
sono mussulmani e su di loro ha pesato la mia incertezza. “Quanto pesa
la religione? – ho chiesto – è davvero così importante per voi?”
Samate, 26 anni, non aveva dubbi e lottando strenuamente con il
pudore ha accennato un sorriso: “Siamo venuti qui per vivere e dopo mesi
di cammino e mare, finalmente abbiamo capito di essere salvi. La
religione non è un problema, non abbiamo nemmeno il tempo e la serenità
per pensare al nostro Dio”.
Ne è convinto anche Denny, 19 anni. Ha lasciato la mamma in ospedale,
ferita sotto le macerie della loro casa e la sorellina al suo
capezzale. Il padre è morto perché cattolico. “Sono venuto qui perché so
che mia madre guarirà e allora dovrò pagare il conto dell’ospedale”, ha
detto, forte del suo essere il capofamiglia.
Ma che cosa si aspettano questi profughi ora? Che cosa pretendono da
un’Italia in preda ad una crisi economica mai vista prima e impaurita di non riuscire a sfamare i suoi figli?
“Vorrei che ci fosse una televisione per imparare a distinguere il
suono delle parole italiane”, ha risposto Baui. “Vorrei una maglia più
pesante – ha detto Stanley – perché questa (una canottiera) è troppo
leggera e oggi la temperatura è scesa”. Un momento di silenzio, la mia
diffidenza e l’incalzare delle domande. Con la voglia che qualcuno
pretendesse un lusso esagerato, inadatto ai tempi e al ruolo di
‘semplici profughi’, volevo poter scrivere un insulto sbattendo sotto i
riflettori la loro ingordigia. E poi lo schiaffo. “Vorrei un telefono –
ha sussurrato il giovane capofamiglia – Vorrei chiamare mia mamma. Sento
che sta guarendo e vorrei che sapesse che sto bene”.
Anna Bianchini Thieneonline
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