Mia cara terra,
mio vecchio paese, non posso descrivervi. Le montagne e le valli
della Carnia le ho viste per un sol giorno quando ancora ero
fanciullo, una sola volta ho visto Cividale che sorrideva in una
giornata di sole. Ero troppo piccino per gustare il vino di Tarcento,
e quello di Latisana lo conosco solo per aver cantato la « villotta
» che ne celebra la bontà. Poi, già lontano, ho serbato il sapore
delle sue noci, forse le migliori fra tante che ho visto sui mercati, ma il frutto della mia infanzia erano le pesche selvatiche che appena
arrivavano a maturazione nella campagna ghiaiosa e bruciata del mio
paese. E un po’ d’uva che noi rubavamo ancora acerba dalle viti
e il fiore dolciastro dell’acacia che brucavamo dalla pianta
insieme alle pecore.
E anche il pane
di segala ricordo, e la minestra di orzo che noi ragazzi non volevamo
mangiare perché ci sembrava un cibo per cavalli e invece la mamma ce
lo diceva il migliore, il più nutriente. Una memoria rara per me, –
«codaroul (1)» di una casa sfortunata e povera – le poche sere in
cui ho potuto inebriarmi, fanciullo, col pesante piatto della
«brovade », il cibo dei forti, il cibo del lavoratore instancabile.
Invece la mia
tavola, la mia casa, la mia infanzia, ecco di cosa profumava (anzi,
il paese intero): prima di pannocchie, cotte in margine ai grandi
campi di granoturco, pannocchie ancora lattee, affumicate su un fuoco
che noi ragazzi accendevamo nella campagna come un’avventura.
E poi ancora
pannocchie, scartocciate nelle lunghe sere di autunno in compagnia
dei grandi. Allora il papà non ci mandava a dormire, non faceva il
severo, perché anche noi piccoli potevamo con le nostre mani
liberare il frutto d’oro dei nostri campi.
E poi ancora
pannocchie, sgranate col ferro che ci faceva male alle mani; e
bisognava fasciarlo con stracci per evitare le vesciche nel palmo non
ancora indurito alla falce, alla vanga e all’aratro.
E poi ancora
pannocchie, che finalmente diventavano farina nei nostri antichi
mulini tuttora di pietra.
E finalmente la
polenta.
Tutto il paese,
la sera, un dolcissimo odore di polenta appena rovesciata sul
tagliere; ed era finalmente il richiamo per cui noi lasciavamo di
giocare a « muduk » e a bandiera sulla piazza. E la mamma non
faceva più fatica a chiamarci perché una voce, quella
dell’appetito, ci portava a casa tutti come rondoni.
Polenta mia,
guai se qualcuno parlerà male di te. Io non ho mai conosciuto il
pane: a casa il pane lo mangiava soltanto chi si ammalava, ma era un
caso raro, e poi tanto poco da fare appena una «panade (2)». Ma la
polenta! Cosa nascondevi dentro la tua sostanza per farci crescere
tutti così grandi, in fretta? Tutti noi fratelli, alti come gambe di
granoturco, forti, instancabili più degli altri (mai una malattia
che ci abbia minati); e, ancora ragazzi, con il piccone, d’inverno,
a estirpare i ceppi perché il focolare fosse sempre caldo.
Mattina, latte e
polenta; mezzogiorno, minestra e polenta; la sera, radicchio,
«argelùt (3)» e ancora polenta. E anzi, nei giorni duri, di
magra, io ricordo mio padre che tagliava due fette dalla piccola
montagna d’oro e me ne metteva una per mano e mi diceva: « Ecco, una
la chiamerai polenta e l’altra formaggio». E io che ci credevo e
addentavo ora da una mano ora dall’altra, fingendo di mangiare
polenta e formaggio. E gli amici, quelli delle poche famiglie ricche
del paese, mi prendevano in giro, m'insultavano. Io piangevo,
eppure non potevo pensar male della polenta, non potevo dir male di
mio padre.
A cuocerla era
sempre la mamma, e mi sembrava che dentro vi cuocesse il cuore. E che
fatica per renderla profumata, tirarla a giusta cottura, che non si
attaccasse alla pentola nera di ghisa, che non sapesse di fumo; e
mantenere il giusto fuoco, lei, che doveva preparare tutto il
desinare, sempre con brolle di granoturco in mezzo a un nugolo di
faville: e doveva soffiare dentro tanto da spolmonarsi, lei così
minuta. Eppure sempre in silenzio, sempre serena, dentro una nube di
fuliggine; perché noi non avevamo neppure il camino e tutto il fumo
usciva dalla porta oppure dalla piccola finestra che metteva sulla
«corte».
Ed eravamo in
nove attorno a quella tavola. Mi sembrava un’impresa quando potevo
collaborare anch’io e ritornavo dai campi con qualche fascina di
legna raccolta a stento lungo i fossati o i canali d’acqua. E le
dicevo:
«Ecco, mamma,
puoi cuocerla meglio con questa legna.»
Sì: ho tanti
altri ricordi del mio paese: la chiesa, le funzioni di maggio, i
vespri della domenica. E poi la scuola, anzi la maestra che ha
insegnato per quarant’anni a fare le aste. E poi le scorribande nei
prati, soprattutto a primavera, quando ognuno di noi poteva vantare
la propria bravura dal numero dei nidi che scopriva per primo. Ma
questi possono essere ricordi anche di altri, di tutti. Io invece
devo difendere la mia infanzia, che perciò mi sembra tutta d’oro,
anche se è stata forse la più povera fra tutte le infanzie dei miei
compagni.
Ecco perché un
giorno arrivato in una casa di ricchi, ed io già grande, anzi già
sacerdote ormai, mi sono sentito bruciare perché, appena seduto a
tavola, la signora (odiosa!) ebbe l’imprudenza di dirmi: «Oggi ci
scuserà, padre: abbiamo polenta» . E io zitto, dapprima, arrossii
perché mi sembrava offesa tutta la mia infanzia, offeso tutto il mio
Friuli. Poi, ecco il cameriere, vestito tutto di bianco, con una
zuppiera in mano; e dentro, del giallo che nuotava nel burro; e
sopra, degli uccelli rosolati come martiri. Allora ho sentito tutto
il mio sangue martellare: « Ecco, signora, le dissi – non
cominciamo con l’offendere la polenta». Così, fu una ben triste
tavolata, quella e non solo per queste cose e non fu possibile
nessuna intesa. Il discorso stagnò per l’intero pranzo sui poveri
e sui ricchi. Io capii ancora una volta che non c’era proprio nulla
da fare. Il povero, i cibi del povero, i suoi gusti sono un segreto
di Francesco e Chiara, una rivelazione di Cristo.
(1) Abitante di
Coderno
(2) Pane bollito
(3) Valerianella