Tanti anni fa intorno al 1930, le distanze tra i nostri paesi
sembravano infinite; era un avventurarsi in sentieri di campagna che seguivano
con rispetto il profilo dei campi e delle colture di grano, di vite o
semplicemente di erba. Grandi alberi di gelso e di ciliegio, gettavano la loro
ombra tra i filari, di cui qualche viandante approfittava per stemperare la
fatica del cammino. Le strade erano bianche, percorse da carri lenti tirati da
buoi o cavalli, che lasciavano i solchi profondi delle ruote di ferro. Profonde
buche come piaghe e sassi costringevano a degli improbabili zig zag. La
polvere si alzava d’estate tra il ronzare delle cicale e lo sguardo attento di
timidi ramarri. D’inverno il ghiaccio cicatrizzava quelle ferite con un velo
spesso e resistente. Ai bordi di questi “fiumi secchi”, grandi siepi ed alberi
tagliavano la vista dell’orizzonte e costringevano gli occhi in un tunnel di
verde riposante, colorito di fiori e dipinto di voli di uccelli , di nidi, di
bacche e di profumi. Le stagioni cambiavano questo scenario, rendendolo scarno
e povero d’inverno per poi imperlare quei rami, di fiori e di profumi verso
primavera. Le foglie coloravano l’estate, finchè di nuovo l’autunno diradava la
selva per filtrare il debole sole.
Il lunedì era giorno di mercato a Thiene, per questi sentieri e
strade si muovevano dai paesi e dalle contrade, da soli, o a piccoli
gruppi, i contadini con le loro mercanzie. Dentro grandi ceste di salice
intrecciato tenevano qualche capo di pollame, verdure appena colte, frutta di
stagione, sementi, forme di ricotta o di formaggio. Povere merci
che venivano vendute o barattate con ciò che più serviva in casa: sale,
zucchero, qualche scampolo di stoffa, quasi mai con cose che non fossero
necessarie all’economia della famiglia.
Mia nonna Francesca partì di buon’ora dal paese, da Fara,
a piedi, in quel mese di luglio, prima che il caldo le imperlasse la fronte di
sudore. Contava di essere a Thiene verso le otto, un’ora di poco affollamento,
per trovare un posto in cui esporre la merce e di buone occasioni per
vendere le sue cose: due polli e qualche cartoccio di fichi e di prugne.
Discese svelta l’erta del paese, tra i campi e le siepi, presto si trovò
all’imbocco del ponte sull’Astico in quel di Zugliano. Passò lesta tra le
assi sconnesse di legno, gettò una sguardo giù. Poca acqua , la stagione
era secca, come poche negli ultimi anni; il torrente era un rigagnolo fiacco,
che a malapena spingeva il suo andare tra i sassi. Verso Centrale, colse
qualche mora selvatica per “sgarbarsi” la bocca, si fermò un attimo per la pipì
dietro un cespuglio, poi via ancora, spostando ora a destra ora a sinistra il
suo fardello che diventava sempre più pesante. Arrivò a Thiene che dal
campanile udì otto rintocchi di campana: “Come previsto” pensò. Si infilò
lesta tra le viuzze del centro e si diresse all’angolo di piazza “Umberto
primo”, ora Chilesotti; non c’era ancora ressa, depose la sua mercanzia, dando
un pò di sollievo alle sue braccia stanche e formicolanti. I polli si agitavano
forte, coperti dal telo rosso e bianco e la nonna cercava di tenerli fermi; per
fortuna li vendette in fretta, come in fretta vendette il resto della cesta, i
fichi e le prugne. Giornata fortunata, pensò ringraziando Iddio. Né ricavò un
gruzzoletto di grossi soldoni in rame con l’effigie del re, li racchiuse nel
fazzoletto con un nodo e lo fece sparire nelle tasche ampie del lungo grembiule
nero. Si recò in una piccola drogheria che vendeva un pò di tutto e comprò un
cartoccio di sale, un cartoccio di zucchero e dell’olio per lampade da
illuminazione. Le rimase qualche centesimo, pochi spiccioli. A casa aveva
quattro bambini, due maschi e due femmine. Pensò a loro con tenerezza, con
dolcezza. Proprio in quel momento passava un carrettino colorato, spinto da un
signore che gridava a voce alta:” Gelati, gelati buoni, gelati per i vostri
bambini”. Ecco, disse tra sé, comprerò i gelati ai miei bambini, saranno
contenti, non li hanno mai assaggiati, roba da signori in quel tempo. Sì
avvicinò all’uomo del carretto, acquistò quattro coni con due palline ciascuno,
i gusti non erano tanti, cioccolato e panna, uno bianco, uno scuro. Li mise
sulla cesta in equilibrio tra i cartocci di sale e di zucchero, coprì la
cesta con lo straccio che s’era portata per i polli, perché nessuno vedesse
quelle rarità e s’incamminò lesta ed orgogliosa. Ripercorse in fretta la
strada, superò dei gruppetti di donne, che pian piano tornavano con le loro
mercanzie, non vide le more, la pipì la tenne. Ormai s’erano fatte le undici,
il caldo colava la fronte di sudore e l’afa tagliava il respiro, ma non vedeva
l’ora di dare quel ben di Dio ai figli. Ritagliò i campi della mattina,
riguadagnò il ponte sull’Astico, l’acqua le fece ricordare che aveva una sete
feroce e la gola secca dalla polvere, ma via, via. Arrivò trafelata, rossa in
viso in prossimità del paese che la campana rintoccava dodici colpi. Quando
affrontò l’ultima salita che la portava a casa si vide correre incontro i
bambini, chiassosi ed ignari della sorpresa. I più piccoli davanti, Lina e
Virginio, dietro Giovanni e Maria. Erano contenti, facevano salti di gioia .
“Venite, venite, ho una sorpresa per voi, chiudete gli occhi”, disse la nonna.
Entrarono subito nella grande cucina, era fresca, fuori si soffocava, posò la
cesta sul grande tavolo, aspettò che tutti fossero intorno prima di scoprire la
mercanzia. Poi con un gesto repentino tolse il telo. Tutti gettarono lo sguardo
bramoso dentro il contenitore, ma non videro che i due cartocci e quattro coni
vuoti, la cialda desolatamente secca; delle palline bianche e nere nemmeno
l’ombra. Erano scomparse. Grande fu lo sgomento dei bimbi, ma ancor di più
quello della nonna, che raccolto il fiato che le restava dalla stanchezza e
dalla delusione gridò al marito: “Omo, omo, (così chiamava il marito Giovanni)
mi hanno rubato i gelati e non me ne sono accorta, ma quel che è peggio, quei
villani mi hanno lasciato le sgusse”. Il nonno arrivò lesto, guardò, un sorriso
gli dipinse il viso e disse: “I gelati se li è mangiati luglio, col suo calore”.
“Chi è questo maleducato di luglio, lo conosci per caso?” “No, è il calore di
questo mese che ha fatto sparire i gelati”. Si sciolsero tutti in un sorriso,
dolce come il gelato che non avevano mangiato, come l’ingenuità della
nonna. Dolce, ingenua nonna, gente di altri tempi, che vive nella
tenerezza del ricordo.
Maurizio Boschiero