lunedì 31 gennaio 2022

Vie reali

 

[Gianni Spagnolo © 22A26]

Le strade maestre di San Pietro, ossia quelle che conducono alla piazza del paese da sud e da nord, sono tuttora dedicate a due Altezze Reali di Casa Savoia. La Via Carlo Alberto e la Via Regina Margherita confluiscono infatti sulla Piazza che, molto originalmente, è intestata a quella Roma, che, oltre che capitale di ben due imperi, lo è tuttora d’Italia. 

Vabbé, … il secondo Impero, rispetto al primo, può andare a nascondersi, sia per gloria che per durata, tuttavia meritò anch’esso una fugace dedicazione della stradina che conduceva al Ricreatorio, poi rimossa. I fasti e i nefasti di quell’effimero Imperiuccio durarono poco e le sue tracce e i suoi simboli vennero fatti velocemente sparire dalla circolazione. Anche la dinastia dei Savoia fu giubilata dalla Repubblica e dell’ultimo Re ed Imperatore si perse volentieri l'ossequio. Differentemente dal suo omologo e parente della Destra-Torra, che probabilmente lasciò miglior ricordo. 

Carlo Alberto di Savoia (1798-1849), fu il primo Re di Sardegna e il primo esponente del ramo cadetto dei Principi di Carignano che assunse dignità reale subentrando a quello principale rimasto senza eredi. Fu padre di Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia e nonno della regina Margherita (1851-1926), moglie del secondo sovrano italiano. Narrano le cronache paesane che quella graziosa Maestà abbia elargito un’offerta per la costruzione dell’Asilo d’Infanzia, costruito su iniziativa di Don Antonio Fontana nel 1898 e pertanto, già nel 1900 gli venisse dedicata la nuova strada, Fu proprio quell’anno che venne assassinato a Monza il marito, Umberto I, evento che colpì sicuramente l’immaginario collettivo del giovane regno. Intanto la strada si stava affollando di costruzioni sul suo lato a monte, mentre bisognerà attendere la ricostruzione post-bellica per vederne completato il lato di valle.

Ecco allora che le due vie maestre sono dedicate a nonno e nipote, legati a periodi della storia nazionale più lontani e meno controversi. Stupisce perciò la dedicazione dell’attuale Via Regina Margherita alla Regina Elena (1873-1952), com’è indicato nella cartolina postale della foto. La faccenda risale al periodo fascista, in cui la toponomastica paesana venne adattata a celebrare i fasti del neonato Impero. La Regina Elena era la consorte dell’allora Re d’Italia Vittorio Emanuele III, neoassunto alla dignità imperiale dopo la conquista dell’Impero d’Etiopia nel 1936 e perciò si pensò forse bene di aggiornare la dedicazione della strada avvicendando le regine; tanto si giocava in casa e non era irrispettoso far subentrare la regina moglie a quella madre.

La foto risale agli anni Trenta del secolo scorso, che vede completamente edificato il lato a valle della via, con evidente il muretto dell’Asilo e il suo corridoio d’accesso, protetto da una pergola vegetale. Sullo sfondo si staglia il muro candido della casa Fontana Catinòn, mentre  la bottega dei Bonifaci, sulla sinistra, innalza l’insegna della Mobiloli, versioni autarchica della più nota Mobiloil. Non è ancora presente la pompa di benzina, che apparì nel dopoguerra in ragione dell’inizio della motorizzazione. Sull’uscio delle case e delle botteghe s’intravede la sagoma dei titolari, com’era d’uso a qual tempo, dove le fotografie erano più raramente solo paesaggistiche, ma prevedevano sempre l’animazione con persone in posa per l’occasione. Anche i bambini sull'angolo dell’Asilo, dove poi venne collocata la fontanella, appartengono sicuramente alle famiglie delle abitazioni adiacenti. Essere ritratti in una fotografia era allora raro e costituiva un evento memorabile, perciò ci sarà stata sicuramente un’accurata preparazione del teatro di posa e anche, aggiungo io, un po’ di competizione per stabilire chi doveva essere immortalato dallo scatto e passare ai posteri, almeno in effige.

Per una datazione precisa delle dedicazioni della viabilità paesana bisognerebbe spulciare negli archivi comunali, dove sarà senz’altro documentato l’avvicendarsi delle attribuzioni. Sempre che siano reperibili i verbali dei consigli comunali, o le delibere podestariali di quegli anni, periodo che sembra essere più oscuro del Pleistocene. 

Tornando ai giorni nostri, forse sarebbe ora di fare qualche ulteriore aggiornamento della toponomastica. Sono contrario, in linea di principio, alla cancel culture in voga, ma vedrei di buon grado fare pulizia completa degli obsoleti toponimi sabaudi e risorgimentali e intitolare quelle vie paesane a  personaggi o località con maggior attinenza alle cose nostrane. Largo Savoia, Via Carlo Alberto, Via Regina Margherita, Piazza Roma, Via XXIV Maggio (ma come si fa a celebrare un'entrata in guerra???),  personalmente le cestinerei volentieri. Anche la Via Martiri del 1848, che, pur ricordando fatti squisitamente nostrani, oltre a far confusione con quella simile di Pedescala, credo che a nessuno rimandi al sacrificio dei due paesani nostrani nel 1848 e pertanto è inutile allo scopo. 

Fare modifiche di questo tipo costerebbe poco, basterebbe qualche delibera, tanto ormai la posta non circola quasi più e Google Maps s'adatterebbe in fretta. Più costoso, ma senz'altro più urgente ed utile, sarebbe invece di sistemare qualche via minore del paese, che languono da decenni in stato pietoso. Dopo ver spassà andò che passa el prete, sarìa ora de pensare anca al resto. 


SNOOPY



 

domenica 30 gennaio 2022

Dal drone di Flores Munari

 


Momenti di riflessione



(di Don Marco Pozza)


Il tempo che scorre adagio-adagio: 

“Non (mi) passa mai il tempo, uffa!” 

Il tempo che scorre con troppa velocità: 

“Quest'anno mi è letteralmente volato via!” 

Il tempo per tutte le stagioni: quello bello, quello brutto, quello cattivo. Il tempo della semina - dei legumi, del radicchio, del mais, del pomodoro – e il tempo del raccolto: “E' tempo d'andare a vendemmiare, è la stagione delle castagne, la settimana perfetta per raccogliere i melograni. E' l'ora dei cachi”. 

Il tempo delle persone: 

con alcune perdi tempo, con altre perdi la nozione del tempo, con altre ancora puoi recuperare il tempo perduto con le prime: «Stare con te o senza di te è l'unico modo che ho per misurare il tempo» (J. Borges). C'è chi perde tempo e chi cerca di guadagnare tempo: c'è chi si accorge di avere tempo e, per questo, non aspetta tempo. Il fatto è – ammonirebbe il filosofo Seneca – che non è affatto vero che abbiamo poco tempo: la verità, invece, è che ne perdiamo molto, giacché il tempo, a ben pensarci, è sempre lo stesso. A seconda di come lo si abita, però, tende a dare un'impressione diversa di sé medesimo: è troppo lento, quasi infinito, per coloro che aspettano, è troppo lungo per chi sta soffrendo, è troppo rapido per coloro che lo temono, è troppo veloce per coloro che stanno gioendo. Per chi ama, poi, il tempo è un anticipo (quaggiù) dell'eternità di lassù. 

Vivere, insomma, è guerreggiare con il tempo, contro il tempo, nel tempo. Tengo legato, per dei ricordi d'infanzia, il tempo al suono delle campane: sono, a tutt'oggi, il metronomo della giornata per la gente del mio paese. Oltrechè il trascorrere del tempo – le ore, le mezz'ora, i quarti d'ora – dicono anche la qualità del tempo: solenne, luttuoso, tempo ordinario. Hanno un loro ritmo e un timbro: dal numero dei colpi intuisci qualcosa del tempo che è, dal loro suono qualcos'altro ancora. Quando le campane sono mute (c'è anche chi non vuol più sentire suonare le campane), in paese ci s'interroga, allarmati: “Come mai le campane non suonano?” Il sospetto che il tempo sia scaduto è qualcosa che fa perdere il senso del tempo, della vita, degli affari quotidiani. Eppure, a ben pensarci, il tempo è un poco più di nulla. E' nulla del tutto se non lo si riempie di un qualcosa di significativo: domani, spesso, è il giorno più occupato di tutta la settimana. Per alcuni "oggi" è il domani di ieri, per altri invece "oggi" è la vigilia di domani. Il tempo, comunque, lo san tutti che è un galantuomo: ospita chi fa le cose a caso, e ha posto anche per chi fa caso alle cose. Nel tempo, comunque lo s'intenda – tempo che sono gli anni della nostra vita -, si gioca il tutto della nostra storia. 
Nulla accade fuori del tempo, del tempo ordinario. 
Il trascorrere delle annate, per anni, aveva la forza d'incutermi tremore: l'incertezza di ciò che non sarebbe più tornato, l'apprensione per gli incontri perduti, l'amarezza di aver perduto tempo. Oggi, che sempre più gli anni si accavallano tra di loro, osservo con un inatteso distacco il bianco che, con calma, colora i primi capelli. Sono debitore ad una signora – una signora di quelle un po' così, come si dice da noi sorridendo – il sapore del colore bianco: “Mi permetta, padre – mi disse, avvicinandosi a margine di un incontro -... Mi sono accorta che ha un capello bianco: si abbassi un po' che glielo tolgo!” Ho fatto fronte comune con le mani, lo sguardo per arrestare il suo vigore: “La prego, tenga le mani in tasca signora mia! Ho impiegato decenni prima d'avere un capello bianco: non sia mai che, adesso, arriva lei e me lo strappa!” Non mi impaurisce il tempo che rende bianchi i capelli, che fa diradare la chioma: mi ha sempre intimorito, invece, la possibilità di sprecarlo. Non i capelli bianchi, dunque: ma i giorni gettati via! Il tempo gettato al vento. 
“Sono tempi brutti!” è la scusa dei perditempo di ogni tempo. Passo la parola a Péguy: «Faceva cattivo tempo e ci fu anche una tempesta nel lago di Tiberiade, Pietro sosteneva che non avrebbe potuto prender dei pesci. Egli sosteneva che sarebbero morti. Ma Gesù non si tirò affatto indietro. Non dichiarò affatto forfait. Egli non si rifugiò dietro la disgrazia dei tempi». Mi atterrisce, per troppo stupore, che Dio faccia accadere le cose nel tempo: le cose eterne, per un'insindacabile decisione, accadono nelle cose terrene. Oppure non accadranno mai più. Dio, diventando Gesù, ha sposato il tempo promuovendolo ad arena dentro la quale decidersi per il futuro: d'allora, in ogni ora, non c'è istante che non sia caricato a salve, come una pistola. Ogni istante potrà essere quello fatidico, letale, cruciale: «Quanto a quell'ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36). Istante salvifico sarà farsi trovare pronti quando verrà sferrato l'ultimo attacco: sarà come preannunciare la vittoria. E' nel tempo ordinario che il tempo dell'uomo diventa il tempo di Dio. E viceversa: il tempo di Dio diventa il tempo dell'uomo. Il tempo feriale, con nessuna solennità, giorni da minimo sindacale, quello apparentemente insulso, dove sembra non accadere mai nulla. Esattamente per questo tempo, i Vangeli riservano parole inattese, tra le più contemporanee: «In quel tempo». Non importa che sia il tempo migliore o il peggiore: è il solo tempo che abbiamo. La liturgia, ch'è l'ora esatta di Dio, è fatta di trentaquattro settimane di tempo ordinario: le solennità, al confronto, sono un pugno di mosche. In questo tempo – il quel tempo degli evangelisti -, mi gioco tutto, il tutto di me: o la  o la spacca. Non avrò un altro tempo: sarebbe troppo facile averne uno per sbagliare, uno per imparare, un terzo per riprovarci. In uno solo dovrò concentrare tutto. 
Ai migliori atleti del mondo basta offrire loro un ring sul quale esibirsi. Loro sanno bene che si fa tardi molto presto...


Nelle foto di Marzia e Mirco Lorenzi apprezziamo le meravigliose limpide giornate che ci sta regalando gennaio, ma come si sa, tutto ha un dritto ed un rovescio e il Gorgo "in suta" ne è la testimonianza...😊







 

SNOOPY


 

sabato 29 gennaio 2022

Non è più tra noi - nr. 1 - 01/22 - Luciana Fontana


 


 

Il titolo non mi viene...



Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento.

I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini uccisi con veleno da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università.
Diffido - quindi – dell’educazione.
La mia richiesta è la seguente: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti.
La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani.
Anniek Cojean




C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni,
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.
Joyce Lussu




Giosuè: “Perché i cani e gli ebrei non possono entrare babbo?”
Guido: “Eh, loro gli ebrei e i cani non ce li vogliono. Ognuno fa quello che gli pare Giosuè, eh. Là c'è un negozio, là, c'è un ferramenta no, loro per esempio non fanno entrare gli spagnoli e i cavalli eh... e coso là, c'è un farmacista: ieri ero con un mio amico, un cinese che c'ha un canguro, dico: "Si può entrare?", lui dice: "No, qui i cinesi e i canguri non ce li vogliamo". Eh, gli sono antipatici oh, che ti devo dire?!”
Giosuè: “Ma noi in libreria facciamo entrare tutti.”
Guido: “No, da domani ce lo scriviamo anche noi, guarda! Chi ti è antipatico a te?”
Giosuè: “I ragni. E a te?”
Guido: “A me...i visigoti! E da domani ce lo scriviamo: "Vietato l'ingresso ai ragni e ai visigoti". Oh! E mi hanno rotto le scatole sti visigoti, basta eh!”




“Non si esce da Auschwitz e Birkenau, io sono ancora là. Io ho perso tutti. Della mia famiglia ho perso 40 persone circa. Ero un ragazzo di 13 anni.
Mia sorella Lucia era rinchiusa nell’altro Lager e la intravedevo nonostante il filo spinato elettrificato.
Per me lei era come una madre perché, da quando mamma era morta, si era presa cura di me. Sapevo che si sarebbe tolta il pane di bocca purché io non morissi di fame. La sera quando si rientrava dal lavoro, dopo una giornata così pesante, il mio pensiero era avvicinarmi ai fili spinati e dare la mia razione a Lucia. Avevo capito subito che mia sorella non ce l’avrebbe fatta, ma lo stesso pensiero l’aveva avuto pure lei. Prendeva il pezzettino di pane e cercava di darmelo, di convincermi a prenderlo.
Non so quanto è durato questo scambio tra noi. Poi lei non si è più presentata, non l’ho più vista. Quando dissi a mio padre che Lucia non c’era più, si lasciò sempre più andare e una sera si avvicinò a me per dirmi che la mattina dopo non l’avrei più visto perché voleva presentarsi all’ambulatorio. Sapevo che chi andava all’ambulatorio finiva nelle camere a gas ma lui volle farmi credere che l’avrebbero curato. In realtà sapeva benissimo che sarebbe andato a morire. La mattina dopo non lo vidi più. Ero rimasto completamente solo.
Non voglio che altri ragazzi vedano quello che hanno visto i miei occhi. Non ci sono parole per descriverlo. Io sono stato in silenzio fino al 2005 perché mi era impossibile esprimere quei ricordi. Poi ho trovato le parole.
Io faccio testimonianza perché vedo un riscontro positivo nei ragazzi. Loro sono la speranza.”
- Le parole nella Giornata della Memoria di Sami Modiano, testimone della Shoah.


“Quando il mio carceriere buttò la pistola ai miei piedi, io la vidi e pensai: ‘Adesso lo uccido’. Mi ero nutrita di odio e di vendetta, per tutto il male altrui che avevo visto. Mi sembrava il giusto finale di quello che avevo sofferto. Fu un attimo irripetibile.
Ma capii che non avrei mai potuto uccidere nessuno e che ero tanto diversa dal mio assassino. Io nella mia debolezza estrema ero molto più forte del mio assassino, non avrei mai potuto raccogliere quella pistola.
Avevo sognato di vendicarmi, ma ho scelto la vita. Chi sceglie la vita, non la può togliere a qualcun altro. Da quel momento sono stata libera.”
Liliana Segre



MIX: di tutto un po'...

LE LUCI A VENEZIA







Già dal 1128 le calli e le zone più soggette a pericoli avevano dei piccoli fanali ad olio, chiamati cesendelli, appesi ai muri; non facevano in realtà molta luce, ma certo rincuoravano i passanti.
Partendo dalle zone centrali e spandendosi poi verso la periferia della città, l’illuminazione stradale migliorò piano piano nei secoli, richiesta sempre di più dai cittadini che, pur di rendere sicure le strade, si offrivano di partecipare alle spese.
Nel 1450 si decretava di porre quattro grosse lampade sotto i portici di Rialto per rischiarare la zona, ritrovo di omosessuali; attorno al 1720 i bottegai cominciarono a tenere fuori dal loro negozio delle lanterne per ovviare alla carenza di illuminazione, quindi nacque una nuova professione: delle persone sostavano per la via e, dietro ricompensa, accompagnavano i passanti nella loro strada ovvero "còdega".
Nel 1732 si decise che tutta Venezia venisse illuminata; l’illuminazione iniziò così a coprire tutte le zone, rendendo più sicura la via e trasformando la Venezia notturna , donandole un fascino nuovo, molto coinvolgente per i viaggiatori stranieri: le lampade pubbliche, chiamate ferai, arrivarono ad essere 843. Erano in vetro, funzionavano a olio e dovevano restare accese fino all’alba; molte di queste però venivano rotte con sassi e bastoni dai "còdega", che stavano perdendo il loro lavoro.
Vennero perciò subito emanate delle severe sanzioni per chi fosse stato sorpreso a distruggerle; le stesse pene valevano anche per gli incaricati del servizio (gli inpisadori) che omettevano di accenderle o usavano poco olio: così la professione del "còdega" sparì.
Negli anni successivi vi furono altri problemi pratici, come la gestione di tutta l’illuminazione, che fu affidata con appalti a vari imprenditori e, non ultimo, l’approvvigionamento dell’olio di oliva di seconda scelta che serviva per i ferai e l’amministrazione dello stesso, che dava occasione a conseguenti truffe allo stato.
Nel 1758 gli inpisadori erano 138 e si occupavano di 1750 fanali pubblici.
Con la caduta della Repubblica e l’avvento della dominazione austriaca la situazione non cambiò molto: nel 1843 tutte le lampade pubbliche vennero trasformate e l’olio venne sostituito dal gas.
L’accensione veniva sempre effettuata a mano, fin quando la tecnologia non ne permise una automatica.
Partendo da San Marco ebbe luogo la modificazione di tutti i fanali, che furono ricostruiti in ferro e vetro.
Verso la fine dell’Ottocento cambiò anche l’illuminazione della piazza e della zona di Rialto, con la posa di una serie di lampioni metallici con la lanterna quadrata e con la base in pietra. Gli artigiani più bravi della città fecero a gara per creare lampioni e lampade in lamiera, ferro battuto e vetro.
Nel 1924 il Comune decise di uniformare l’aspetto dei fanali e di ottimizzare il loro posizionamento nella città; dopo vari studi tecnici e artistici, nel 1926 mise in opera il nuovo assetto d’illuminazione .
La corrente elettrica, già arrivata a Venezia in via sperimentale nel 1887 soltanto per i privati e in una piccola zona centrale, sostituì il gas delle lampade pubbliche nel 1927.
Da quel momento a tuttora, visitare Venezia di notte è un piacere visivo.

(da Anima Veneta-web)

SNOOPY


 

venerdì 28 gennaio 2022

La borsetta




Tra i tanti accessori che una donna usa quotidianamente, la borsetta occupa un posto importante. Che sia a tracolla, a mano o a zainetto, sul mercato si possono trovare borse di ogni colore,  forma e fattura, più o meno pregiate: le borse grandi o piccole, contengono oggetti, documenti, agende e tanto di tutto che solo una donna può avere! Un tempo invece, se ne possedeva una che andava bene per tutto ed era adoperata con molto riguardo perché doveva durare negli anni; per una qualsiasi cerimonia però, la borsetta era sempre abbinata alle scarpe. 

La mia prima borsetta è stata quella unita al vestito della Prima Comunione, con merletti e tulle, ma il vestito con l’accessorio abbinato, mi era stato prestato da mia cugina di Calvene e quindi non era mio. 

La mia borsetta risale a tanti anni fa: credo di aver avuto undici anni ed era come possedere qualcosa di eccezionale, un oggetto da ricchi! Mi fu regalata perché mi ero arrabbiata vedendo che mia sorella, più piccola di me di cinque anni, ne possedeva una.

Un tempo i regali non venivano fatti senza un motivo preciso,  non mi ricordo, ma credo che mia sorella Paola sia stata brava a una visita e come premio scelse una borsetta, tra le tante cose presenti alla Standa. Mi sembra  ancora di vederla quando a messa, durante la predica lei la teneva bene in vista e aprendola, faceva vedere alle altre bambine, il contenuto. 

Credo che mio papà, esasperato dalle mie lamentele, abbia fatto uno strappo alla regola e, tornato alla Standa a Thiene acquistò  quello che tanto desideravo. 

A me sarebbe piaciuto averla uguale a mia sorella: la sua era in pelle marrone chiaro, con la chiusura a clip e una catenella come tracolla, ma mio papà non la trovò, così me ne prese un’altra. Era più capiente, color marrone scuro, con due scomparti e io ero felice perché mi sembrava più da “grande”! Soddisfatta di quel regalo insperato, la domenica dopo, me la misi sulla spalla per andare in chiesa e farla vedere alle mie amiche. 

Raccontare l’emozione di un dono ricevuto, non è possibile, specialmente ai nostri giorni dove i bambini e ragazzi, sono pieni di tutto: credo che certe emozioni le comprendi solo se le provi.

Dopo tanti anni, conservo ancora quella borsetta e quando la prendo in mano, rivivo ricordi ed emozioni difficili da spiegare perché solo chi ha vissuto come me, in un periodo dove l’essenziale era tutto, può rivedere la gioia degli occhi e le farfalle nello stomaco, quando si riceveva un regalo.

Lucia Marangoni Damari

Gennaio 2022

Guardiamolo. Forse le immagini aiutano a memorizzare più facilmente

 

SNOOPY


 

giovedì 27 gennaio 2022

Solari lustri

 

[Gianni Spagnolo © 22A22]

Per delle strane circostanze mi sono trovato a cimentarmi in un’operazione che avevo visto fare molte volte da bambino, ma mai attuato in prima persona, anche perché ne ero stato pesantemente scottato. 

Si trattava di lavare con acua de bojo e verechina un solaro de legno, vecchio di 70 anni, d'una stanza che da allora non era stata quasi più usata. L’ho quindi affrontata ricorrendo alle mie reminiscenze di bambino, quando queste pulizie erano ricorrenti ad ogni primavera. Una volta passai da testimone ad attore tirandomi addosso la pentola di acqua che bolliva sulla stufa, ustionandomi così il volto e il torace; perciò conservo un bruciante ricordo di quelle faccende domestiche. Brao furbo! Direte voi. Evvabbé, ... avevo solo quattro anni.

I solari delle nostre case, come pure le scale, erano in legno di abete al naturale, senza nessuna verniciatura o prodotto di protezione; perciò andavano lavati a fondo e disinfettati almeno una volta all’anno, armandosi di santa pazienza, guanti di gomma, bruschéto, strassòn, acua de bojo, verechina e … tanto ojo de gùmio. Era un lavoro da donne e per nulla gradito. Gli effluvi della varechina stceta (quella mefitica della bottiglia gialla col bechignólo, per intendersi), il lavorare chinati in denociòn a sfregare il legno col bruschéto di saggina, dover continuamente strizzare el strassòn, tirandosi dietro il tutto, era un’autentica penitenza e i caldi vapori dell’ipoclorito di sodio bruciavano i polmoni sensa réchie.

Ancor peggiore era l’esperienza delle fémene della generazione precedente, che dovevano fare queste pulizie usando l’acqua di risulta della lissia e senza guanti di protezione, così che l’incontrollata causticità di quel detergente, ecologico, ma tremendo, rendeva le mani pallide, avvizzite e brucianti se solo avevano l’accenno di qualche crepa o ferita. Un po’ aiutava lo spazzolone dal lungo manico, ma non arrivava dappertutto e occorreva fregare con forza nei punti più sporchi o meno accessibili col bruschéto. In ogni caso el strassòn bisognava strucarlo per bene sempre a mano. Quando arrivarono in paese i guanti di gomma e la varechina fu dunque un grande progresso; quest'ultima si andava a prenderla alla bisogna in bottega col butigliòn. Bisognava fare però un po’ di attenzione, dato che alcuni negozianti erano più devoti al Battista di altri e quindi si doveva faticare di più per ottenere lo stesso splendore. Poi arrivò quella confezionata nella famosa bottiglia giallo canarino con inciso il lugubre simbolo della morte, dotata di un beccuccio dosatore laterale con il coperchio a vite; così almeno la concentrazione dell’ipoclorito sodico era garantita e costante, anche se l’odore da pisso era lo stesso.

Perciò io prudentemente ho usato il mocio, lo strucamocio e l’ACE, quella inodore. Almeno che il progresso serva a qualcosa. Ancamassa, ciò!


Il giorno della memoria - per non dimenticare

 


“Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte. Quando ci chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da buttare. Era un momento terribile. Bastava un cenno ed eri salvo, un altro ti condannava. Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti a due SS e a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata. Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la loro coscienza. Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che voleva dire “avanti”, ed eri salva. Io pensavo solo a questo quando ero lì, a quel cenno. Ero felice quando arrivava, perché avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere. Ricordo la prima selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice. «Forse mi manderà a morte per questa…» pensai e mi venne il panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma, cercando di restare calma, risposi che ero italiana. Trattenevo il respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile. Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità.”

Tratto da "Fino a quando la mia stella brillerà", di Liliana Segre.


Una personale riflessione:

Penso che un "orrore" del genere debba indubbiamente vivere nella memoria dei posteri, ma quanti altri orrori si sono consumati finora e non vengono ricordati? Non sarebbe più equo fissare una giornata per ricordare tutti gli orrori fin qui perpetrati?

SNOOPY


 

mercoledì 26 gennaio 2022

Pesse da pìe


[Gianni Spagnolo © 22A21]
A nessuno piaceva essere: tratà come na pessa da pìe, stante l’infima considerazione che il capo di abbigliamento aveva nel sentimento comune. Anche chiamarlo capo d’abbigliamento sarebbe troppo pomposo, dato che si trattava di due banali pezze di cotone con cui avvolgere i piedi al posto delle calze.
Era il corredo dei nostri militari nella Prima  Guerra, ma anche nella  Seconda, dato che la divisa dei soldati italiani non prevedeva calze. L’esercito forniva invece delle pezze squadrate di cotone resistente con le quali si avvolgeva il piede prima di infilarlo nello stivaletto o nello scarpone, aggiungendovi eventualmente un calzettone fuori ordinanza. Praticissime, erano tutte della stessa misura, proteggevano bene il piede, non bisognava rammendarle come le calze, ed erano facili da lavare e sostituire. Il nome divenne sinonimo di cosa sporca e puzzolente perché era questo infine il loro destino dopo le marce o lo stazionamento nel fango delle trincee. Le calze arrivavano comunque con i pacchetti spediti dalle famiglie, ma le pezze da piedi avevano tuttavia un loro perché.
Dalle parti nostre la lana non è mai mancata e così pure la possibilità di confezionare a maglia i capi di abbigliamento più disparati: maglioni, scialli, guanti, berretti, coperte, braghette, calze, ecc. Il problema era che le sgàlmare erano molto grezze e rigide, con conseguente difficoltà del piede ad adattarvisi. Era infatti il piede a doversi adattare alla scarpa e non viceversa, pena vesciche e dolori. La calza di lana, pur con la sua grossa trama, si usurava facilmente ed era irritante per la pelle, specie in presenza di sudore e lesioni.  Ecco allora che le pezze da piedi, fatte di materiale più fine, omogeneo e assorbente, potevano fasciare il piede creando anche delle protezioni differenziate, in modo da compensare la rigidità della scarpa e i punti di frizione e pressione esercitata dalla tomaia sul piede a causa della suola rigida. La loro relativa pochezza permetteva di sostituirle con facilità, oppure lavarle ed asciugarle assai più velocemente dei calzettoni di lana. Erano d’uso semplice e intuitivo, nonché ricavabili da pezze riciclate, per cui erano adatte alle scarpe da lavoro e agli impegni più gravosi.
Ovvio che un capo di questo tipo non abbia lasciato grandi documenti, restando relegato alle vicende minute della guerra di trincea e alle metafore. Per risalire alle istruzioni d'uso dobbiamo perciò ricorrere niente meno che al manuale dell’esercito russo, che mantenne in dotazione le pezze da piedi fino a pochi anni addietro, appunto per le loro caratteristiche funzionali.
Ancor più indecorosa delle pesse da pìe era la mudanda, ma la decenza impediva di elevarla ad oggetto di metafora, per cui furono loro a rappresentare il paradigma delle cose miserevoli e di nessun conto.

Simpatiche misure della nostra parlata - ne conoscete altre? Scrivetele nei messaggi



 

un scheo

na spana 

un ninìn

un cicìn

na s,cianta

un fià

un pelo

un spuaccio

un deo

du die (do dea)

tri die (tre dea)

un brasso

na ponta

na brancà

un passo

na taca

na monàda

na òngia

un tiro de s,ciopo

na pissàda de can

na scaretà

un pìssego

na sbailà

un goto

na cìcara

na bòte

na frégola

na sghinsa

un smerdàro

un smeàro

na sfilsa

un saco

na sporta

un sésto

na ponta

un giosso

na guciarà

na spieronà



Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...