domenica 31 ottobre 2021
I viaggi della cicogna
La pagina della domenica
31 ottobre 2021
In quel tempo si avvicinò a Gesù uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo
Dopo una serie di controversie in cui Gesù ha fronteggiato dei gruppi di avversari (sacerdoti, scribi e anziani: Mc 11,27ss.; farisei ed erodiani: Mc 12,13ss.; sadducei: Mc 12,18ss.), si avvicina a Gesù un singolo. Membro sì di uno di questi gruppi che normalmente contestano Gesù (è uno scriba: Mc 12,28), ma si presenta solo. E si presenta con una disposizione non preconcetta e non pregiudizialmente negativa. Infatti, si avvicina a Gesù avendo “visto come aveva ben risposto” ai sadducei. E tra lui e Gesù si instaurerà una consonanza profonda. Udita la risposta di Gesù, lo scriba dirà: “Hai detto bene, maestro, e secondo verità …” (Mc 12,32). A sua volta, Gesù, “vedendo che (lo scriba) aveva risposto saggiamente” gli disse: “Non sei lontano dal Regno di Dio” (Mc 12,34).
Lo scriba interroga Gesù su quale sia il primo dei comandamenti. Questa domanda implica l’idea che all’interno dei molti comandi veterotestamentari vi sia una gerarchia, un ordine, un comando principale obbedendo al quale si obbedisce a tutta la volontà di Dio. C’è un’unità nella volontà di Dio, e dunque il rapporto con Dio è qualcosa di semplice. Gesù sintetizza la volontà di Dio nei comandi di amare Dio e il prossimo. E la sintetizza riprendendo i due comandi di Dt 6,5 e Lv 19,18. A differenza dei testi paralleli di Luca e Matteo, Marco conserva la formula di introduzione di Dt 6,4: “Ascolta, Israele”. L’ascolto è già movimento di amore in quanto ascoltando mi apro all’altro e ospito in me la sua presenza. L’ascolto fonda un legame, una relazione in cui io esco dal mio isolamento e vivo in relazione a un altro. Anzi, le parole dello Shemà Israel (Dt 6,4-5) riprese da Gesù (Mc 12,29-30) disegnano un movimento – sempre da rinnovarsi – che dall’ascolto (“Ascolta, Israele”) conduce alla conoscenza (“Il Signore è uno”) e dalla conoscenza all’amore (“Amerai il Signore”). È un esodo, un movimento di liberazione che scaturisce da Dio e dalla sua parola.
Marco distingue un primo comandamento (amare Dio) e un secondo (amare il prossimo). In particolare Gesù ripete il comando del Deuteronomio che chiede di amare Dio “con tutto il cuore”. L’antropologia biblica insegna che con il cuore si designa la persona stessa, il suo essere corporeo e psichico, razionale ed emotivo. Pertanto “amare Dio con tutto il cuore” è anzitutto un percorso, il cammino di tutta un’esistenza e un itinerario tutt’altro che scontato. Nel nostro cuore infatti abitano anche pensieri e desideri ben lontani da quanto ci chiede il vangelo. Dunque, passo preliminare per giungere ad amare Dio è riconoscere che ciò è tutt’altro che scontato.
Perché l’espressione “amare Dio” abbia una qualche credibilità e praticabilità occorre rinunciare agli spiritualismi, ai discorsi che ripetono parole stanche e scisse dalla concretezza della vita e invece cercare di dare realtà a ciò che di per sé è quasi impossibile: come amare chi non si vede, quando è già così problematico ed enigmatico amare coloro che vediamo? Occorre dunque anzitutto accettare il lavoro diconoscenza di sé che ci porta a riconoscere, nominare e accettare le dimensioni di negatività e le carenze che abitano in noi, nel nostro cuore. Infatti, “Dal cuore umano escono i propositi di male …” (cf. Mc 7,21-23). Per amare Dio con tutto il cuore occorre il coraggio di affrontare il lavoro di conoscenza del proprio cuore: conoscenza che, normalmente, ci riserva sorprese sgradite. Questo lavoro è essenziale per arrivare a porsi in autenticità davanti a Dio. Conoscere i propri limiti morali e intellettuali, fisici e psicologici, emotivi e affettivi è essenziale perché venga abbattuto quell’io ideale che ci costruiamo e che offriamo agli altri e a Dio come protezione da noi stessi. Un “io” immaginario ma che ha tutta la potenza di inganno e fascinazione dell’idolo. Scopo di questo cammino di conoscenza di sé è l’adesione alla realtà, l’accettazione di quel particolare essere che noi siamo, con le negatività e le ricchezze che ci caratterizzano. Questo cammino lo possiamo chiamare “rientrare in noi stessi” (Lc 15,17) o “ritornare al proprio cuore” (Is 46,8: redite ad cor).
In Dt 6,2 l’amore per il Signore è unito al timore (“Temi il Signore”), nozione questa che non è decaduta con la nuova alleanza ma che è essenziale per un equilibrio dell’amore: amare Dio senza temerlo rischia di essere un amare Dio come proiezione dei propri desideri, così come temere Dio senza amarlo è allontanarsi dal volto di Dio rivelato dalle Scritture e da Gesù Cristo. Il timore di Dio è rispetto dell’alterità di Dio, senso della distanza che intercorre tra uomo e Dio e che rappresenta lo spazio della relazione e della comunione possibile tra creatura e Creatore.
Che l’amore poi sia comandato non stupisce, se si pensa che per la Scrittura Colui che comanda l’amore è anche Colui in cui risiede la fonte della salvezza. Per l’uomo biblico, il comandamento di Dio non è mai inteso in senso legalistico, ma nello spazio del dono e dell’amore. Come l’amato gioisce nel fare la volontà dell’amante, così il figlio d’Israele trova la sua gioia nel compiere la volontà di Dio. “Ricompensa per un comandamento è un altro comandamento” recita un detto rabbinico. E chi mai può comandare l’amore se non colui che ama? Se non l’amante? Così l’esperienza di essere amati da Dio è alla base del comando di amare sia Dio che il prossimo. Ed è fondamento della possibilità da parte dell’essere umano di adempierlo. “Solo l’anima amata da Dio può accogliere il comandamento dell’amore del prossimo fino a dargli compimento. Dio deve essersi rivolto all’uomo prima che l’uomo possa convertirsi alla volontà di Dio” (Franz Rosenzweig).
Il comandamento poi non è solo “ordine”, ma anche rivelazione di una possibilità. Il comandamento dice “tu devi”, ma dice anche e prioritariamente “tu puoi”. Anzi, si basa sul “tu puoi”. Il comandamento diviene così luce sulla via dell’uomo, diviene offerta di senso e di vita fatta da chi crede alla capacità dell’uomo di metterlo in pratica e di trovarvi la propria gioia. Il comandamento è attestazione di fiducia di Dio nei confronti dell’uomo. Dio crede nell’uomo e nella sua capacità di amare, tanto che il comando suona anche come promessa: il testo evangelico, presentando il comando (Mc 12,28) di amare, lo formula come una promessa: “Tu amerai”. L’obbedienza al comando diviene ciò che plasma il cuore dell’uomo rendendolo più simile al cuore di Dio. Somiglianza che risiede nell’amare. Tu amerai: ovvero, tutto ciò che fai fallo per amore, agisci per amore, persegui l’amore. Tu amerai: ovvero, il tuo vero “tu” è il “tu” che ama. Tu amerai: ovvero, non scoraggiarti, perché l’amore che ora non vedi in te, il Signore potrà donartelo come grazia nel momento che tu non sai.
Amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze e amare il prossimo come se stessi significa che il luogo dell’amore è la corporeità. L’ascolto della parola del Signore tende a inscrivere nel corpo, cioè nell’uomo intero e in tutte le sue relazioni, la parola divina. L’esegesi piena della Scrittura che chiede di amare Dio e il prossimo è una persona infiammata dall’amore di Dio e che brucia di amore per Dio e per i fratelli. L’ascolto, e dunque l’obbedienza alla parola di Dio, pone l’uomo nella situazione di relazione e di libertà che è essenziale per amare. Infatti, “il verbo shamà non ha solo il senso di udire, ma anche di credere e di ricevere” (Bahya Ibn Paquda). E credere è sempre credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), accogliere l’amore, fare affidamento sull’amore di Dio che ci rende capaci di amare.
Il comando di amare il prossimo è presentato come secondo (Mc 12,31) rispetto a quello dell’amore per Dio. La priorità del comando di amare Dio sottrae l’amore del prossimo all’essere semplicemente atto morale frutto della buona volontà dell’uomo, lo sottrae alla fragilità dello spontaneismo del sentimento e, soprattutto, gli evita di chiudersi nella polarità “io-tu”, sempre a rischio di fusionalità e di violenza, di assorbimento in me dell’altro e di mia dissoluzione in lui, e lo pone nell’ampio e liberante spazio del Terzo (Dio, appunto). La priorità del comando di amare Dio inserisce l’amore del prossimo in un orizzonte, da un lato, senza confini (ogni altro che incontro è “prossimo”), dall’altro, libera questo stesso amore dai rischi dell’amore grazie al terzo, il Signore mio e del prossimo, il Signore dell’altro e di me che, a mia volta, sono prossimo del mio prossimo. Al tempo stesso, il comandamento di amare il prossimo è secondo rispetto al comando dell’amore per Dio per non lasciare solo il primo, per evitare la solitudine del primo comandamento, una solitudine che potrebbe essere nefasta. È secondo per agganciare il primo e dargli la concretezza e la corposità che altrimenti lo lascerebbero in balìa del soggettivismo spirituale della persona. È secondo per dare verità e concretezza al primo: amare il Dio invisibile trova un suo inveramento nell’amare il fratello che è visibile, che è l’immagine di Dio nel mondo. Un’immagine non partorita dalla mia mente e dunque che non mi scomoda, ma già data, concreta, limitata, obbligante, scomodante. Forse, potremmo interpretare questa sequenza di primo e secondo comandamento alla luce di un’antica interpretazione rabbinica che così svolge il comando di amare il prossimo come se stessi: “ama il tuo prossimo come tu stesso sei amato da Dio”.
Ciao Riccardo
sabato 30 ottobre 2021
El bàito (postripropost)
venerdì 29 ottobre 2021
La batua dela teda (postripropost)
Matìo Barbéta el ghéa bìo oto fiùi, tri tusi e sinque fémene, ma dó se le ghéa brincà el colera nel trentasìe. I scoltàva, i jerà brài e rispetùsi, for che Piero, l’ultimo, chel ghéa on gran bruto caràtare. El faséa danàr tuti: scavessòn, tacaìssa, rabiòso, tenpèla, slenguassòn, dispetòso e canàja come nissun altro. El poro Matìo e la Catìna, la so fémena, i le ghéa tentà tute, ma con cuél toso no i ghe nava mìa fora. Élo nol sarìa sta gnanca de animo catìvo; no, ma el jera on spìn, on spirito inchièto, libaro, come che se dise. Daromài i sùi j jera agri de starghe drìo a tute cuéle chel conbinava. Solo al vecio Gildo, fradélo de so pora nona, el rivava a darghe ora, parvìa chel jera anca l'unico a saérlo ciapàre.
Dopo l’ultima che ghéa conbinà el toso, la Catinéla la xe nà dó intela boteghéta de Gildo, andove chel vecio trapolàva ancora col legno, dato chel jera sta el marangòn pì brào del paese, bon a far de tuto; man de oro e omo de gran sentimento. La Catina piandendo la lo ga suplicà de inventarse cualcossa par indrissare el so toso, dato che élo sì el saéa come tórlo.
Defàti Piero nava volentiéra dò da Gildo; el stava lìve ore nela so botéga a vardarlo tanbaràre col legno, inmagà da cuélo che sortìva dale man del vecio, dai so sesti calmi e misurà, chj no falàva on colpo. Ogni tanto el lo jutàva anca e el ghéa caro perderse via a ingasiàre anca élo cualche trapèlo. Lo ciapàva l’odor de rasa, la cola caravela e doparàre tuti cuj inpristi da marangòn de tute le sorte chj jera picà via o podà in volta par le scansìe. Jera fursi le uniche ore chel toso stava chieto; parte col dorméa. Gildo parlava poco, cuasi gnente, ma cuél poco lassava el segno nel’anima tenpelà de Piero.
Gildo nol lo rangiàva mìa mai e gnanca nol ghe sbecàva drìo come chj fava tuti j altri; somejàva che élo saésse védare óltra ala so smània de métarse in mostra fando el sbregamandati.
El dì drìo, cuando che Piero rivà dò in botéga, el vecio lo ciama vissìn e el ghe dise: “Scolta toso, te se ben cuél che tuti pensa de ti vero?” Piero fa de sì co la testa, anca se ghe paréa destrànio che Gildo ghe parlasse cussìta. “Bon! Lora te capissi anca che no te pùi mia a sejtàre óltra, vero? " Piero tase, .. varda par tera, ghe pensa sora, ... prima de fare ancora moto de sì. “Cossa stetu machinàndo lora?” Ghe dise el vecio. “No i me capìsse!” Sbota el toso. “Epò, mi a no son mìa bon a tegnerme; a son fato cussìta, a sarò malnàto”.
“Scolta Piereto.” ghe dise Gildo con tacamento. “Vutu farme na grassia a mi? Na specie de zugo?”. “Disìme Mistro” fa el toso tuto roàn dala pìtima. Mistro a jera el soranòme de Gildo, on segno de riguardo par la so arte.
Gildo rusca soto al so bancòn da marangòn, fruà dal laòro e dai carùi, spostando i mucìti de segaùra e rìssoli e tirando fora na vecia casseta de banda piena de ciòi rùdene. Ghin jera de tute le sorte, de grande e de picinini, de fini e de grossi, anca cuj longhi e rùdene da covèrto, veci fal cuco, chj ga d'aver doparà par incrosare Gesù Cristo.
“Ciàpa sta casséta va a inboscarla intela me teda sora la stala. Cuando che te salta el bào, che te jén da far cualcossa de male, de storto, cùri sujto lìve e tuj su on ciòdo dela misura del bào che te salta e pò inpiantalo intela batùa della porta dela teda par de rénto, cussìta nissuni te vede ... e co tuta la ràbia che te te senti indosso. Ogni sera te jn cua da mi a contarme de cuanti che te ghinè incioà.”
Pieréto ciàpa la casséta, anca contento de essersela cavà cussità a bon marcà e za el se volta svelto par sortìre. Ma Gildo lo sténca diséndoghe: “Speta, …che te ghe vol anca el martelo justo”. Lora el vecio el va a ramenàre intela cassa dj feri, tirando fora un fagòto co la piàntola par bàtare la false.
El deslìga el martélo da false e el ghe lo porta al bocia. “Ciapa toso, dòpara sto chìve par far i to mistjri.” “Ma Mistro” Dise Piero. “A xe na fadìga rospa piantar ciòi col martélo da false, … el ga le péne storte e le teste massa fine! “Tasi, canàja e fa cuél ga te go jto!” Sàra Gildo.
La sera drìo, Piero va da Gildo a contàrghe che’el ghinéa inpiantà za trentasìe, ... de tute le misure.
La sera dopo i jera za manco: vintisìe!
E cussita in vanti, ... e i ciòi inpiantà deventava sempre manco da on dì in l'altro. Gildo lo ghèa za capìo dale bote furiose chel sentèa calàre.
Fin che on dì el core dal vecio a dirghe chel ghéa fruà tuti i ciòi, ... ma che jera anca du jorni che no ghe vegnéa pì el bào d’incioàrghene...
“Brào!” El fa Gildo. "A go proprio caro! E la batùa?” A ghe domanda el vecio.
“La batùa? ... A la xe cofà on guciaóro; pédo che la corona de spini del crocifisso dela stimàna santa!
"Cossa gònti da fare desso, Mistro?” El dise el toso tuto inboressà.
“Desso a biòn che te li cavi!” Fa serio el vecio, … tirando fòr dal scaféto, con sesti studià, na vecia tenàja méda rùdene e tuta sbecà.
“Te fé la stessa roba al roverso: a te ghin cavi uno par ogni volta che ti si bon a no perdare la passiensa, ... lora te curi intela teda e te cavi el ciòdo dela misura drìo al bào che te tratìgni.
“Ma Mistro...” Prova a difendarse el toso. "... A sahì ben che la batùa la xe de làrese e vardè ca go fato na fadiga boja a inpiantàr tuti cuj ciòi con cuél strabéco de martélo ca me ghì petà sù!
Ma l’ocio ciaro del vecio lo ghéva za sisolà sul nàssare e nol ametéa repliche.
E cussìta i giorni drìo, Piero ghéa tacà a destcioàre la batùa drìo el befél de Gildo, sassinàndose le man dai sforsi, parvìa che cavar ciòi rùdene dal làrese stajonà, carimìe, ghe xe da spessegàre on pasto, màssima se no te ghé l'inprestio che laóra ben.
Intanto la santola Catìna la jera nà dò da so zio, portandoghe médo conéjo par ringrassiarlo parvìa che ghe paréa proprio chel so Piero el ghesse tacà a ver pì sentiménto, essare pì chieto e conportarse mejo, tra la maravéja de tuti.
Passa i jorni, fin che na sera Piero rìva dal vecio a contàrghe, tuto contento, che no ghe jera pì ciòi da cavàre e mostràndoghe le man massacrà dala tenàja. Missiòn conpìa!
“Brào Piero!” fa Gildo. “A go proprio caro, a te te ghe conportà ben! E la batùa? Dime de la batùa!” Ghe fràca el vecio.
“Come la batùa? ... Desso ca go cavà via i cioj, a la xe tornà come vanti!”
“Ditu?” Rebàte el vecio. Némo a védare lora!”
Gildo brinca el bocia pal brasso e el lo ména sù in te la teda davanti ala batùa. La batùa a no la ghéa pì gnanca on ciò, ma la jera tuta sbusà sù e anca stciopà chìve e lìve, andòve che jera sta inpiantà i ciòi pì grossi e fùndi. La somejàva on bersaglio da tirassegno de on plotòn de Alpini ciùchi.
“Te pàrela come vanti, Piero? Antevìdi mìa come che la xe ridóta?”
Piero intanto el vardàva par tera, perdendo i oci fra fastùghi de paja, muci de fén, ligàssi de tarlisùni e gròpi del solàro.
“Vitu belo.” Fa serio Gildo alsàndoghe la sbéssola col déo e fissandolo drìto in tj oci. “Te pui dàrghe na cortelà a uno e dopo cavàre el cortélo,... ma el sbrégo resta! Par cuanto che te fassi e te domandi scusa, … co te ghe fato l’asenàda, le robe no torna altro come vanti. Cuando ca te barùfi con cualchedùn, te ghe lassi busi come cuisti. Biòn pensarghe prima! Bion trategnérse, téndare alle conseguense de cuélo che te disi e te fé. Ma bion farlo vanti,… no dopo che te la ghe conbinà: drìo chel mastcio xe scapà dal stalóto no jova gnénte saràr la portesèla”
“A go capìo, Mistro!” Dise serio Piero. “Za piantando i ciòi con cuél trapélo, macàndome tute le man … a ghe machinàvo sora,... e massìma co me ga tocà cavarli con cuèl strafànto de tenàja ca me a ghi dà, ... che no la pissigàva gnanca. Me ghévo corto che i busi no i se saràva mìa; par cavàr fora i ciòi a go patìo le péne de l'inferno, ... pì che par fracàrli rénto.
Lora Gildo replica: "De ciòj se ghin pianta e i tin inpianta dosso tanti. A cavarli se spéssega on pasto e tuto lassa el bólo,... gnente torna come vanti. Fursi cuando chel legno el xe dòvane e mòrbio, i busìti pì pìculi i pol anca saràrse sensa màcole, .. ma anca lìve, el ciòdo va cavà in pressa: sùjto!"
"Ma Vù, .. ca sì vecio, sàvio e tuti ve trata co riguardo, ... come ghìo fato, Mistro?" Rebàte el bòcia bromoso. "Da dòvane a jero conpagno de ti, canàja. Me ga canbià la menàra. Lora intel bosco i fava laoràre anca i boce e go sfogà su ràme e bóre tuta la me ràbia rivàndo a sera pì mónto dela Binda in stala e suto de mòche. Vivendo da salbégo, scansà da tuti, pianpianélo a go inparà a rispetàre le piante, la natura e driomàn anca i cristiani, che tanto a sémo tutoùno". Ma cuj cristiani la xe pì érta caromìo: lìve biòn inparare a pardonare! Ma ancor vanti biògnaria saérse pardonare ... e tarè che a xe cuésto a xe el sconbatiménto pì grando; a volte no basta na vita a francàrse!"
Nuovi orari ecocentro
♻️ECOCENTRO – NUOVI ORARI DAL 1° NOVEMBRE 2021♻️
Si avvisa la gentile Cittadinanza che l’orario estivo di apertura dell’Ecocentro Comunale rimarrà in vigore fino al 31 ottobre 2021.
Dal 1° novembre e fino al 31 marzo 2022 gli orari saranno i seguenti:
• Mercoledì: 13.00 - 16.00
• Sabato: 09.00 - 13.00
▶️ Suggeriamo caldamente all’utenza di non concentrarsi nei primi minuti di apertura, ma di distribuirsi nell’arco di tutte le ore a disposizione in modo da evitare attese.
GRAZIE!
giovedì 28 ottobre 2021
Forte Interrotto.
mercoledì 27 ottobre 2021
Uomini o omuncoli?
martedì 26 ottobre 2021
Porca miseria!
lunedì 25 ottobre 2021
L'àstico da mudanda
【Gianni Spagnolo © 21L17】
Non si sa la data precisa quando il moderno astico risalì l'omonima valle per imporsi velocemente nel nostro abbigliamento di tutti i giorni, ma senz'altro capitò dopo la seconda guerra mondiale. Per la verità l’astico noi ce l’avevamo già da un pezzo, ma non era granché flessibile e non si prestava ad usi così personali. Questo innovativo materiale, lo chiamavamo astico noi, perché in cìcara si diceva elastico, dato che la sua principale caratteristica era appunto quella di essere elastico, cioè di ritornare al suo pristino stato dopo essere stato allungato e rilasciato. La sua prima comparsa la fece inserito in nastri di tessuto, di varie dimensioni e fogge, per confezionare abiti e corsetteria. Era infatti quello l’utilizzo dove serviva un po’ di confortevole elasticità al posto di fettucce, bottoni, spaghi, pontapeti e strafanti vari prima in uso. Il suo impiego iconico e maggiormente apprezzato avvenne perciò nel confezionamento di calze e mutande, così che il suo nome divenne, manco a dirlo: àstico da mudanda.
A jera ora che la roba no la te sbrissiasse pì do! Che le calse no le rugolasse pì e le mudande a no le balasse altro. Applicare questa innovazione all’abbigliamento tradizionale richiese, come tutte le innovazioni tecnologiche, un po’ di tempo, di pazienza e di adattamento. Le nostre nonne erano use tricotare per confezionare le calze invernali con la lana riciclata e si trovavano a cucirne l’astico da mudanda sul collare, dove bisognava rincalzare la lana e inserire quella moderna fettuccia elastica, magari anca sparagnando na stciantinéla. I problema era come dosare l’elasticità di questo nuovo materiale, unita alla stima sulla durata del capo in relazione al fatto che l’utilizzatore era comunque in fase di accrescimento corporeo; el paràva, per così dire. Il risultato era spesso che la calza nuova aveva l’elastico così stretto da rischiare l’emostasi e l’amputazione dell’arto, per poi slanegarse in pressa e rugolarte dó. Allora bisognava arrotolare un po’ la calza inspessendola fino a raggiungere un adeguato sostegno, in attesa di riparazione con l'astico nuovo. Con le mudande andava meglio, stante la conformazione del bacino, che non aveva l’anda a lóra fa le ganbe. Fatto sta che di quell’innovazione beneficiarono un po' tutti e l’astico da mudanda entrò prepotentemente nell’uso quotidiano.
Con l’intensificarsi della produzione di gomma artificiale, arrivarono poi a ruota due altri articoli utili ed interessanti in questo materiale: gli àstici gialli da cancelleria e quelli grossi e quadrati in caucciù nero. In zona, l’uso di questi nuovi prodotti era principalmente da parte di noi bociasse. I primi erano infatti impiegati per fabbricare il motore dei carrarmati coi rochéi vudi del filo da cusire, mentre i secondi, applicati alle forcelle di orno ben stagionate, servivano per fabbricare le nostre micidiali fionde. Vabbè, queste erano usi impropri da bociamìnti, mentre l’astico da mudanda rivoluzionò la moda e il benessere dell’intera popolazione. Ancamassa, ciò!
A proposito di calze, vorrei sapere chi fu quel sapientone che introdusse l’idea che per misurare le calze della dimensione giusta per un bambino, occorresse avvolgergliele attorno al pugno chiuso. Si doveva chiudere il pugno e avvolgervi intorno il piede della calza: se la punta e il tallone si congiungevano giusto a toccarsi, allora quella era una buona approssimazione per il piede reale. Poi, manco a dirlo, bisognava sempre considerare che il soggetto stava crescendo e perciò era buona regola abbondare. Questo modo di pensare sempre al doman mi ha parecchio condizionato, dato che per tutta la giovinezza mi sono ritrovato ad indossare calze che erano una mezza spanna più lunga del mio piede e a nulla valevano le mie rimostranze sulla palese inadeguatezza di quella ferrea misura, almeno per me. Ma tarè ca a jero mi a ver i pìe desgrassià.
Li avete visti anche voi questi quadri?
A dire il vero, non sono informata riguardo a questa iniziativa. Se qualcuno può approfondire... grazie😉
So che il primo quadro è appeso in via delle alpi e l'altro in contra' Pertile.
MIX - di tutto un po'...
C'è un telegiornale che va ascoltato ogni giorno.
Più volte al giorno.
Chi lo segue apre gli occhi invece di chiuderli.
Si concentra sull'essenziale invece di essere distratto dal superficiale.
Si emoziona invece di disperarsi.
Trova il coraggio invece di perderlo.
Ama invece di odiare.
E' il notiziario dell'anima.
Che si può vedere solo se si ha un'antenna ben collegata.
All'energia del mondo.
Il segnale che arriva è rivelatorio.
Si rimane spesso fulminati dalla consapevolezza che ne arriva.
A condurre questo telegiornale è una persona illustre, degna di un compito così grande, esperta nel settore come nessun altro.
Siamo noi stessi.
Spesso spegniamo questo prezioso canale per sintonizzarsi su canali di altri. Perdendo il segnale della nostra anima. E ci sentiamo smarriti.
Per riacciuffarlo c'è un'unica via.
Andare alla ricerca del simbolo. Di ogni accadimento.
La nostra anima non è interessata all'accadimento in sé, si nutre del significato che porta quell'evento.
E' ghiotta della verità interiore.
Più le diamo questo cibo più lei crescerà sana.
E' questo il cibo da assumere.
Tutto il resto è spazzatura.
Sta a noi decidere cosa portare dentro, quali racconti essere, quali notizie ascoltare, quali parole pronunciare.
Fidiamoci del nostro telegiornale interiore.
E' ora di raccontare una nuova storia!
Elena Bernabè-web
domenica 24 ottobre 2021
La pagina della Domenica
24 ottobre 2021
In quel tempo Gesù e i suoi discepoli giunsero a Gerico. Mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Nel cammino verso Gerusalemme, Gesù giunge a Gerico. E mentre riparte, insieme anche ai discepoli e a una folla numerosa, Marco fa entrare in scena un cieco che mendicava ai lati della strada. Di lui si ricorda il nome: Bartimeo, che significa “figlio di Timeo”. Significa forse figlio dell’impuro (se si ritiene che si tratti di un termine aramaico)? O figlio di Onorato (se si ritiene che il nome sia di origine greca: si pensi al dialogo platonico Timeo)? In questo secondo caso si tratterebbe di un patronimico pesante da portare e che stride clamorosamente con la condizione di mendicità di quest’uomo.
L’azione che porta all’incontro tra Bartimeo e Gesù nasce da un’annotazione che potrebbe apparire periferica: “Sentendo che era Gesù Nazareno, (Bartimeo) cominciò a gridare …” (Mc 10,47). Se questa è la premessa che rende possibile l’incontro, questo si conclude con il riferimento alla fede di Bartimeo. Dietro a quel “sentendo” (akoúsas) dobbiamo pertanto intravedere la struttura narrativa della fede. Le narrazioni evangeliche presentano l’insorgere della fede in Gesù in persone che entrano in contatto con lui a partire da una voce carpita, da un sentito dire, da una chiacchiera. Vediamo esemplificato nella vicenda di Bartimeo ciò che i vangeli narrano di altre persone: una donna emorroissa tocca il lembo del mantello di Gesù “avendo udito parlare di lui” (Mc 5,27); una prostituta entra nella casa di Simone il fariseo e si avvicina a Gesù con gesti di affetto “avendo saputo che Gesù si trovava in casa di Simone” (Lc 7,37). E di entrambe Gesù sottolineerà la dimensione di fede (Mc 5,34; Lc 7,50). Sempre emerge la dimensione relazionale della fede che è anzitutto fiducia, l’umanissima fiducia nella persona di Gesù che conduce la persona a gesti e parole coraggiose di apertura e affidamento: il cieco Bartimeo grida e balza verso Gesù nella convinzione di poter trovare guarigione (Mc 10,47-50). La fiducia porta a vincere gli ostacoli dall’opposizione e dai rimproveri della folla che lo volevano zittire (Mc 10,48). E Gesù svela la fiducia che ha mosso Bartimeo e che gli consente di rendere operante la potenza di Dio che lo abita: “La tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52). La fede in Gesù sorge in un contesto vitale differente per ciascuno a dire che, se la fede è “comune” (Tt 1,4), essa si personalizza in storie differenti e sempre nuove: la storia di una lunga malattia nel caso dell’emorroissa, la vergogna di una donna che si prostituisce nel testo lucano, la penosa condizione di un cieco costretto a mendicare nel caso di Bartimeo. È negli anfratti dell’esistenza quotidiana, solamente accennati nei testi evangelici, che si radica la storia della fede di ciascuno e la sua struttura narrativa. Senza quelle voci che, nella condizione di angoscia e bisogno di queste persone si trasformano in trasmissione di una notizia potenzialmente salvifica, l’accesso alla fede in Gesù non sarebbe stato possibile.
Anche alla luce di quanto appena detto, appare evidente che il nostro testo evangelico, più che un racconto di miracolo, presenta un cammino esemplare di fede. Del resto, per Marco il cieco guarito è il tipo del discepolo, come è il tipo del catecumeno che, dopo essersi spogliato degli abiti (simbolicamente, dell’uomo vecchio: Mc 10,50), conosce l’immersione battesimale scendendo nel buio delle acque e riemergendo da esse alla luce che gli consente di vedere chiaramente per camminare nella vita nuova tracciata da Gesù Cristo (il battesimo era chiamato anticamente “illuminazione”: cf. Mc 10,52). Il cammino di fede nasce dall’ascolto (Mc 10,47), diviene invocazione e preghiera (Mc 10,47-48), discernimento e accoglienza di una chiamata (Mc 10,49), incontro personale con il Signore (Mc 10,50-52a), e infine, sequela di Cristo (Mc 10,52b). Questo cammino implica un dinamismo spirituale per cui l’uomo passa dalla stasi alla mobilità, dall’emarginazione alla comunione, dalla cecità alla fede. La salvezza poi, che consiste nella relazione con Gesù, viene esperita dal credente non tanto come stato a cui si perviene e in cui ci si installa, ma come cammino in cui si persevera. Al termine dell’episodio, Bartimeo è un discepolo che seguiva Gesù “lungo la strada” (Mc 10,52).
I discepoli e la folla che si situano tra Gesù e il cieco divengono simbolo della comunità cristiana che ha ricevuto dal Signore il mandato di farsi ministra della sua chiamata (Mc 10,49: “Chiamatelo!”), ma rappresentano anche la possibilità per la comunità cristiana di divenire ostacolo all’incontro degli uomini, in particolare dei più emarginati e demuniti, come Bartimeo. Molti infatti sgridavano il cieco per farlo tacere (Mc 10,48). E così rivelano di essere loro i ciechi: credono di vederci, di sapere chi è Gesù e come devono comportarsi coloro che lo seguono, credono di difendere Gesù zittendo il cieco che grida. Ma la sequela di Cristo e l’ascolto della parola del Signore sono autentici se non sono scissi dall’ascolto del grido di sofferenza dell’uomo. Così, il sofferente, e in questo caso, il cieco, diviene il maestro che può aprire gli occhi a coloro che credono di vederci. Molte sono le situazioni di cecità dei discepoli. Vi è la cecità per desiderio di primeggiare (cf. Mc 10,35-40): cecità che produce una chiusura nel proprio progetto che diviene la lente che inficia la visione di tutto il resto e porta a scoprirsi anche in modo ridicolo davanti al resto della comunità, come appare dai dieci discepoli che si sdegnarono di fronte alle pretese sfacciatamente avanzate da Giacomo e Giovanni verso Gesù. L’ambizione rende ciechi. Inoltre vi è la cecità per non-ascolto della Parola e incomprensione di Gesù, per chiusura nell’ostinatezza delle proprie convinzioni e durezza di cuore (cf. Mc 8,14-21, dove c’è la discussione dei discepoli sui pani a cui Gesù reagisce dicendo: “Avete occhi e non vedete? Non capite? Non comprendete? Non vi ricordate?” e quell’episodio è seguito dal racconto di guarigione di un cieco: Mc 8,22-26). È la cecità di chi non sa ascoltare, vedere e comprendere da ciò che vede e ascolta in Gesù. Vi è poi la cecità per troppo zelo: in Mc 9,38-40 lo zelo diviene intolleranza verso chi opera guarigioni pur non facendo parte del gruppo dei discepoli, mentre in Mc 10,13-16 la cecità si manifesta come intolleranza verso i bambini che si avvicinano a Gesù. Vi è la cecità per ristrettezza di orizzonti e meschinità di vedute così che si diviene scrupolosi osservanti dei dettagli della Legge dimenticando le cose davvero importanti e basilari (cf. Mt 23,23-24, dove scribi e farisei sono apostrofati come “guide cieche” che pagano la decima delle erbe più insignificanti acquistate al mercato e si dimenticano della realtà più gravi e importanti della legge come la misericordia e la giustizia). Vi è poi la cecità di chi non ama il fratello (cf. 1Gv 2,11). Per quanto metaforicamente intesa, la cecità produce effetti spesso disastrosi nella comunità cristiana. Essa è all’origine di molti mali comunitari, di tensioni, di conflitti, di giudizi reciproci. E quando non si vede più il proprio male, ma si proietta il male e la causa del male sempre e solo sugli altri, allora si esce dall’adesione alla realtà e dall’umiltà.
Insomma possiamo vedere sintetizzate nella cecità due atteggiamenti che oscillano tra la stupidità e l’acquiescenza inconsapevole. La stupidità è la fiducia irragionevole posta in se stessi: chi rimprovera il cieco perché taccia, chi rimprovera i bambini perché non disturbino il Maestro, chi critica la donna perché ha sprecato il prezioso olio di unzione, chi non sa discernere che le decime sono meno importanti della giustizia e della misericordia, è in situazione di stupidità. Che si manifesta come certezza indubitabile del proprio agire e parlare. Agire e parlare che è sempre contro un altro a nome di un terzo. Contro il cieco in nome di Gesù, contro i bambini in nome di Gesù, contro la donna di Betania in nome dei poveri. Dove la radice della cecità stupida è nell’estraniamento della persona da sé, nell’inconsistenza di chi riesce ad agire solo a nome di altri. Al tempo stesso colpisce che coloro che hanno speso energie e zelo nel rimproverare Bartimeo, obbediscano poi immediatamente e senza fiatare quando Gesù li smentisce apertamente dicendo loro: “Chiamatelo”. Ecco allora che gli zelanti che stavano rimproverando, diventano i docili esecutori dell’ordine, e dicono al cieco: “Coraggio! Alzati, ti chiama”. Con sconcertante cambiamento di tono e di attitudine essi, come se niente fosse, si adeguano a ciò che Gesù dice ma come se questo fosse solo un ordine da eseguire e non un’indicazione per scoprire il buio interiore che li abita e che impedisce loro di vedere.
Quando poi Bartimeo si sente chiamato da Gesù, la disperazione che lo aveva spinto a gridare si muta in prontezza di risposta, in decisione nell’obbedire al Signore sbarazzandosi di tutto ciò che poteva intralciare l’incontro con lui. Al contrario dell’uomo ricco che non ha saputo liberarsi della zavorra della ricchezza (cf. Mc 10,21), il cieco getta via il mantello su cui erano le monete ricevute in elemosina e così mostra la sua disponibilità a seguire il Signore nel cammino del dono di sé. Esattamente come avverrà per Paolo, quando la chiamata del Signore lo renderà cosciente della sua cecità (cf. At 22,11-13) e lo condurrà a gettare via tutto ciò che prima costituiva per lui un guadagno per seguire Cristo in modo risoluto (cf. Fil 3,7-14).
Potenza del nome
[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...