【Gianni Spagnolo © 190220】
我們可以希望給孩子留下兩件持久的東西:根和翅膀
Gli intrecci di questi caratteri asiatici sembrano riprendere quelli delle radici dell'albero della foto. Infatti ci parlano sapienzialmente con un messaggio che possiamo tradurre così:
Ci sono due cose durevoli che possiamo sperare
di lasciare in eredità ai nostri figli:
le radici e le ali.
Degli alberi noi vediamo il fusto e la chioma, talvolta i frutti, ma le radici mai, quelle non sono visibili.
C'è voluto il ciclone nostrano "Vaia" perché i boschi mettessero spudoratamente a nudo quelle nascoste propaggini.
L'abete, si sa, ha portamento maestoso, ma è caratterizzato dall'avere radici superficiali, che quindi faticano ad ancorarlo stabilmente alla sottile cotica che riveste le rocce calcaree delle nostra montagne.
Consideriamo poi la piantumazione schematica e la medesima età e origine delle piante che le hanno fatte crescere soffocate, con lunghi tronchi spogli e ciuffi sommitali e si capisce perché non si possa attribuire solo all'eccezionalità del vento il disastro che s'è verificato.
Il classico abete piramidale, naturalmente spaziato, con ramatura ben distribuita e quindi a baricentro più basso, mi pare abbia resistito al pari dello spoglio faggio e non abbia mostrato le radici.
Le radici paiono essere un mondo abbastanza sconosciuto anche in botanica; solo recentemente infatti si sono scoperti gli scambi che avvengono con mediazione micotica che fanno sì che le piante reagiscono ai fattori destabilizzanti operando, per così dire, in rete.
Si può pensare che anche l'uomo abbia le sue radici che lo sostengono e ne determinano il portamento e che, come per l'albero, non sono visibili.
L'albero si riconosce inesorabilmente dai frutti e l'albero buono dà frutti buoni, secondo la massima evangelica.
La tradizione proverbiale dice anche che il frutto non cade lontano dall'albero, a significare che i figli sono destinati a ripetere gli schemi genitoriali. Le radici e i frutti sono dunque assolutamente connessi.
Le radici, uno inizialmente se le trova, nasce così! Poi però può utilizzarle al meglio traendone giovamento per il suo portamento e la sua fruttificazione, oppure lasciarle inaridire disancorate dalla terra che le alimenta. Anche se l'attività sotterranea comunque non si vede, il portamento e i frutti invece sì, e ne sono lo specchio.
In famiglia si raccontava delle grandi piante che c'erano in montagna prima che la Grande Guerra ne facesse scempio, specie degli abeti bianchi che coabitavano con i faggi.
Non so se c'erano anche allora quelle regolari schiere di abeti rossi dal tronco spoglio e svettanti fino alle striminzite fronde apicali. Vedendone a terra a migliaia, con quella proporzionalmente minuscola zolla radicale, credo di no: quella mi pare più opera dell'uomo.
C'è voluto il ciclone nostrano "Vaia" perché i boschi mettessero spudoratamente a nudo quelle nascoste propaggini.
L'abete, si sa, ha portamento maestoso, ma è caratterizzato dall'avere radici superficiali, che quindi faticano ad ancorarlo stabilmente alla sottile cotica che riveste le rocce calcaree delle nostra montagne.
Consideriamo poi la piantumazione schematica e la medesima età e origine delle piante che le hanno fatte crescere soffocate, con lunghi tronchi spogli e ciuffi sommitali e si capisce perché non si possa attribuire solo all'eccezionalità del vento il disastro che s'è verificato.
Il classico abete piramidale, naturalmente spaziato, con ramatura ben distribuita e quindi a baricentro più basso, mi pare abbia resistito al pari dello spoglio faggio e non abbia mostrato le radici.
Le radici paiono essere un mondo abbastanza sconosciuto anche in botanica; solo recentemente infatti si sono scoperti gli scambi che avvengono con mediazione micotica che fanno sì che le piante reagiscono ai fattori destabilizzanti operando, per così dire, in rete.
Si può pensare che anche l'uomo abbia le sue radici che lo sostengono e ne determinano il portamento e che, come per l'albero, non sono visibili.
L'albero si riconosce inesorabilmente dai frutti e l'albero buono dà frutti buoni, secondo la massima evangelica.
La tradizione proverbiale dice anche che il frutto non cade lontano dall'albero, a significare che i figli sono destinati a ripetere gli schemi genitoriali. Le radici e i frutti sono dunque assolutamente connessi.
Le radici, uno inizialmente se le trova, nasce così! Poi però può utilizzarle al meglio traendone giovamento per il suo portamento e la sua fruttificazione, oppure lasciarle inaridire disancorate dalla terra che le alimenta. Anche se l'attività sotterranea comunque non si vede, il portamento e i frutti invece sì, e ne sono lo specchio.
In famiglia si raccontava delle grandi piante che c'erano in montagna prima che la Grande Guerra ne facesse scempio, specie degli abeti bianchi che coabitavano con i faggi.
Non so se c'erano anche allora quelle regolari schiere di abeti rossi dal tronco spoglio e svettanti fino alle striminzite fronde apicali. Vedendone a terra a migliaia, con quella proporzionalmente minuscola zolla radicale, credo di no: quella mi pare più opera dell'uomo.
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