Inverni ben più duri e nevosi di quelli odierni piegavano la
resistenza dei nostri avi. I freddi di febbraio erano molto difficili da
fronteggiare, anche perché la legna, il fieno e le scorte alimentari
andavano esaurendosi.
In “càneva”, sulle tavole che correvano lungo i muri, restava poco formaggio, e pochi vasi di “composte”, lardo e conserve varie, pochi insaccati a pendere dalle stanghe, poco grasso d’oca nelle vesciche traslucide.
Si vedeva il fondo del barile dei crauti; i mucchi di mele, noci, pannocchie di mais segale e patate erano ormai ridotti a poca cosa, poco vino, le vacche e le pecore non avevano latte, e anche le galline non facevano uova.
E tutto questo se si avevano delle scorte, perchè molti non avevano nemmeno quel poco.
Allora la nostalgia della bella stagione si faceva molto forte, e la gente, stretta nei filò, si preparava a “Ciamar màrzo” (Schella Martzo).
Mio padre, nato nel 1930, e vissuto da bambino in una delle contrade alte tra Recoaro e Staro, raccontava di aver visto un vicino di casa uscire nel campo gli ultimi giorni di febbraio, aggrapparsi ad un “pomàro”, e svenire per la fame e gli stenti patiti durante l’inverno. Non di rado, presi dalla disperazione, gli anziani - a volte non solo loro - si lasciavano morire. Basta aprire i registri parrocchiali per sentirsi stringere il cuore.
In “càneva”, sulle tavole che correvano lungo i muri, restava poco formaggio, e pochi vasi di “composte”, lardo e conserve varie, pochi insaccati a pendere dalle stanghe, poco grasso d’oca nelle vesciche traslucide.
Si vedeva il fondo del barile dei crauti; i mucchi di mele, noci, pannocchie di mais segale e patate erano ormai ridotti a poca cosa, poco vino, le vacche e le pecore non avevano latte, e anche le galline non facevano uova.
E tutto questo se si avevano delle scorte, perchè molti non avevano nemmeno quel poco.
Allora la nostalgia della bella stagione si faceva molto forte, e la gente, stretta nei filò, si preparava a “Ciamar màrzo” (Schella Martzo).
Mio padre, nato nel 1930, e vissuto da bambino in una delle contrade alte tra Recoaro e Staro, raccontava di aver visto un vicino di casa uscire nel campo gli ultimi giorni di febbraio, aggrapparsi ad un “pomàro”, e svenire per la fame e gli stenti patiti durante l’inverno. Non di rado, presi dalla disperazione, gli anziani - a volte non solo loro - si lasciavano morire. Basta aprire i registri parrocchiali per sentirsi stringere il cuore.
La festa liberatoria del “Fòra
Febraro” era anche un modo per ritrovarsi, macilenti e pallidi, per
contarsi, per vedere come amici e conoscenti avevano passato l’inverno, e
se erano sopravvissuti. Questo mi ha detto anni fa una mia zia molto
anziana, ed ogni anno ci ripenso, quando arriva la fine di febbraio.
È un aspetto della "Chiamata di marzo" molto lontano da quello
"carnevalesco", dalle sfilate, richiami e “s-ciopi” e "bandoti". Un
aspetto meno folcloristico, ma sicuramente, aspramente autentico, da
ricordare con filiale compassione ed affetto.
Alla fin fine, è grazie a quella povera gente, al loro coraggio, alla loro pazienza, alla loro caparbietà, se siamo al mondo.
Alla fin fine, è grazie a quella povera gente, al loro coraggio, alla loro pazienza, alla loro caparbietà, se siamo al mondo.
CIMBERnauti
E Noi ci divertiamo con sagre e feste.Ivo.
RispondiEliminasei sicuro che che ci divertiamo? cioa V,
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