Cervato (Legacoop) lancia l’allarme: «Ci sono furbetti che risparmiano su tutto pur di guadagnare». In arrivo il decalogo della buona gestione
VENEZIA Serve un «patto di
qualità » tra le cooperative che a Nordest si occupano di gestire i
profughi. «È l’unico modo per evitare il rischio che i soliti “furbetti
del quartierino” tentino di trasformare l’accoglienza in un business ».
La proposta arriva da Loris Cervato, responsabile del settore sociale
per la Legacoop del Veneto, dopo i dubbi che negli ultimi giorni sono
emersi in merito alle condizioni in cui vengono tenuti i migranti
all’interno di alcune strutture. Specie in quelle più grandi, come le
caserme che da mesi ospitano centinaia di disperati sbarcati sulle
nostre coste. I circa ottomila profughi che vivono stabilmente nella
nostra regione, vengono gestiti da 382 tra associazioni, enti religiosi,
privato sociale e, naturalmente, le cooperative. Un business che in Veneto sfiora i 90 milioni di euro l’anno. Tra queste ultime, la
principale è Ecofficina, che da sola gestisce un migliaio di migranti,
compresi i 530 trasferiti nell’ex base missilistica di Cona.
Sono aumentate le coop che si occupano di profughi? «L’aumento
c’è stato fin da quando è emersa, in maniera potente, la necessità di
dare accoglienza a questa massa di disperati che, in fuga da guerre e
povertà, si riversano sulle nostre coste».
In ballo ci sono le gare d’appalto
promosse dalle prefetture: un affare da decine di milioni di euro.
Denaro che fa gola a molti... «Se l’accoglienza si fa nel modo
giusto, non è di certo un business. Assicurando cibo decente, un
adeguato numero di operatori, e servizi di buon livello, direi che se ne
vanno quasi 34 dei 35 euro al giorno che lo Stato garantisce per
ciascun profugo. Non dimentichiamo che le coop sociali non devono avere
scopo di lucro e sono tenute a reinvestire l’utile. Ma poi c’è sempre
qualcuno che tenta di fare il furbo guadagnando sulle spalle dei
disperati. E a favorirlo, a volte, è l’assenza di controlli».
Chi sono questi «furbetti»? «Sono
quelli che risparmiano su tutto, dalla qualità del cibo al numero degli
operatori. Quest’ultimo è il tasto più dolente. Secondo noi, il
rapporto ottimale è di un operatore ogni otto profughi: così è possibile
gestire al meglio i conflitti, si evitano problemi di ordine pubblico e
siamo in grado di garantire un’adeguata formazione. Ma in alcune realtà
si arriva ad avere un operatore ogni 50-60 profughi. E il personale non
sempre è all’altezza: come si può mettere un ragazzo “di primo pelo”,
per quanto animato da buona volontà, ad affrontare il dramma enorme di
chi fugge dalle persecuzioni? I soldi assegnati alle coop dovrebbero
servire anche all’inserimento dei migranti nella società. Ma questo è un
percorso che non si improvvisa: servono competenze».
Non sono fattori di cui gli enti
pubblici tengono conto, quando c’è da assegnare la gestione dei profughi
all’una o all’altra cooperativa? «Purtroppo no. I bandi delle
prefetture spesso si limitano a pretendere l’erogazione dei servizi,
senza però tenere conto di queste variabili “umane” che invece sono
molto importanti. Il risultato è una concorrenza sleale, da parte di chi
ha una gestione più spregiudicata dei profughi rispetto a chi lavora
bene. E a questo si aggiunge il danno d’immagine: anche le coop “sane”
rischiano di passare, nell’opinione pubblica, per un gruppo di persone
che vogliono speculare sulla pelle dei migranti ».
Qual è la soluzione? «Visto che
il governo non fissa delle linee guida, le vogliamo mettere noi: l’idea è
di fare un patto tra cooperative, che eventualmente andrebbe allargato
anche alle associazioni. Si tratterebbe di una sorta di “decalogo di
qualità” al quale si deve attenere chiunque voglia occuparsi della
gestione dei profughi: regole precise, per garantire un adeguato livello
qualitativo del servizio di accoglienza».
Quando riuscirete a sottoscrivere questo accordo? «Ci
stiamo provando anche se non è facile: ci sono molti interessi in
ballo. Prima occorre che tutti capiscano una cosa: senza regole, la
schiera degli speculatori è destinata ad aumentare ».
Crede sia possibile assicurare un buon
servizio anche nelle maxi-strutture, come quelle create all’interno di
alcune aree militari del Veneto? «È evidente che, concentrando in
un unico luogo centinaia di persone, è più difficile offrire una
risposta adeguata alle loro necessità. Inoltre, quando ci sono grandi
assembramenti le situazioni di conflittualità inevitabilmente aumentano.
Ma non me la sento di gettare la croce addosso a chi si trova a gestire
questi campi: di fronte a un’emergenza, a volte, non si può far altro
che adottare soluzioni di emergenza. E se non ci sono strutture più
piccole, è ovvio che si deve scegliere il male minore».
A complicare la vita delle cooperative, si è messo il ritardo con il quale lo Stato paga il lavoro svolto... «Ormai
i fondi vengono trasferiti dalle prefetture con un ritardo di 150
giorni e ci sono alcune delle nostre associate che non vengono pagate da
settembre 2015. Il risultato è che le piccole cooperative vanno a corto
di liquidità e si trovano costrette a chiedere un prestito alle banche.
Ma in questo modo, i pochi utili vengono bruciati per pagare gli
interessi, invece di essere reinvestiti».
Corriere Veneto
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