venerdì 28 febbraio 2014
Prima del silenzio
Niente tunnel con in fondo la luce, niente figure angeliche che ti accompagnano, niente musica soave e sensazione di benessere, niente di tutto questo. Solo buio, una maledetta oscurità eterna. Il mio nome è dimenticato da tutti, pochi ancora si ricordano di me, non so se qualche mio aguzzino è ancora in vita, non voglio saperlo. Sono ancora sepolta nel cimitero di Lusiana, nessun fiore sulla mia tomba, mai. Dicono che ero orfana di genitori e che guidavo i soldati nei rastrellamenti contro i partigiani, ero giovane e bella, i capelli biondi lunghi fino alle spalle, ecco cosa scrisse il giornale sul mio ritrovamento in fondo alla spaluga di Lusiana:
dopo i resti dei quattordici soldati tedeschi ho potuto vedere adagiata nella bara la ragazza, era davvero bionda come me la descrivevano, i capelli fluenti coprivano la sua spalla sinistra e i lineamenti del viso davano l’impressione che stesse dormendo, fu seppellita in fretta nel cimitero assieme ai soldati, la gente del posto non ricorda il suo nome, sembra sia orfana di madre e che fu vista in testa a reparti nazisti. Sembra, ha scritto quel giornalista, il dubbio, un tremendo dubbio. Tempo dopo, un autore di questi orribili fatti andò a cercar perdono dal parroco di Covolo e chiuse il colloquio col prete dicendo: ”non sarà più vero che io mi armi, che io uccida, meglio essere uccisi che uccidere". Se ne andò in un silenzio indimenticabile.
Sono stata gettata viva in quel budello nero dopo aver subito torture e violenze, solo perché amavo un ufficiale tedesco e con lui dividevo le tragedie della guerra. Avevo solo ventidue anni e il mio nome è volato nel vento per sempre, nessuna lapide, nessun ricordo, forse nessun perdono.
giovedì 27 febbraio 2014
Fornai all'opera
Val d'Astico - si fa il pane all'aperto -
(in base all'angolo della casa qualcuno saprebbe localizzarla? Sembrerebbe Forni sulla provinciale...)
Le castagnole di Nonna Lucia
Prendete una nonna con buona volontà, mettetele vicino un nipotino curioso, simpatico e che abbia voglia di fare, indossate 2 grembiuli, un tavolo per impastare, gli ingredienti giusti: tanta pazienza, attenzione e gioia, non importa se si sporca in giro, ogni tanto qualche bacio e sorrisi a volontà.
Io faccio così!!! Lucia
Ancò che zé el dòbia grasso...
voglio condividere la ricetta delle castagnole che solitamente amo fare:
semplice veloce e il risultato è ottimo!
Per una terrina:
2 uova--400 gr di farina--100gr di zucchero--65 di burro--mezza bustina di lievito--una spruzzata di liquore (prugna-grappa)--un pizzico di sale
Sbattere le uova e aggiungere gli ingredienti (il burro fuso), impastare bene
e poi fare come con gli gnocchi, ma tagliarli più piccoli;
cuocere in olio caldo, spolverare di zucchero a velo e ... gustare!!!
BUON CARNEVALE A TUTTI!
mercoledì 26 febbraio 2014
La storia del poro Nòno - (quarta parte)
In alcuni di questi nuclei si intravedono, più o meno evidenti, alcuni retaggi di questo passato. Case di foggia antica, caratterizzate da murature a barbacane, con finestre piccole, struttura raccolta e idonea alla difesa, dalla presenza di porticati di chiusura o specole. In alcuni casi anche da dispositivi di difesa passiva, con abbozzi di fortificazioni e feritoie.
Questo era inizialmente la struttura del paese: non un unico nucleo abitato, ma un gruppo di Corti/Masi distinte. Tale separazione farebbe supporre che le famiglie avessero una loro forte connotazione e vigore già all’atto del loro insediamento e non fosse dovuta a immigrazioni successive, che si sarebbero più ragionevolmente sviluppate a macchia d'olio attorno al centro/Ospizio. Non ci sarebbe quindi sostanziale differenza di modalità d'insediamento (come potrebbe sembrare a prima vista) con le vicine valli di Posina, Leogra e Agno, dove però la maggiore disponibilità di terrazzamenti vallivi consentì il proliferare di masi fino a quote elevate.
Questo era inizialmente la struttura del paese: non un unico nucleo abitato, ma un gruppo di Corti/Masi distinte. Tale separazione farebbe supporre che le famiglie avessero una loro forte connotazione e vigore già all’atto del loro insediamento e non fosse dovuta a immigrazioni successive, che si sarebbero più ragionevolmente sviluppate a macchia d'olio attorno al centro/Ospizio. Non ci sarebbe quindi sostanziale differenza di modalità d'insediamento (come potrebbe sembrare a prima vista) con le vicine valli di Posina, Leogra e Agno, dove però la maggiore disponibilità di terrazzamenti vallivi consentì il proliferare di masi fino a quote elevate.
Anche la divisione della terra disponibile era legata a queste Corti e la proprietà fondiaria era tramandata lungo l’asse patriarcale radicando queste famiglie al territorio paesano, limitandone la mobilità rispetto ad altre venute dopo che ebbero meno vincoli con esso. Infatti si può osservare che i cognomi paesani più antichi sono in genere anche quelli meno diffusi nel circondario.
Ma da cosa dovevano difendersi? Qual'è la ragione di questa urbanizzazione protetta? Sicuramente abitare lungo la Via d'Alemagna comportava pericoli legati al ricorrente passaggio di eserciti, di bande armate, vagabondi o masnade in transito. con quello che poteva comportare in termini di predazione e violenza. Era terra di confine, di traffici e di contese. O forse c'erano altre motivazioni che ora sfuggono.
I prati dell'Astico erano privi di insediamenti e probabilmente nei primi secoli non ancora coltivati perché persisteva la devastazione del torrente. Le contrade più distanti dal centro, oltre la Val dell'Orco a sud e verso la Torra a nord, non esistevano ancora.
Il territorio di San Piero confinava allora a monte con la corona del Sojo a valle con l'Astico a nord con la Torra e a mezzogiorno con il Rioseco, oltre il quale c'erano le terre di Rotzo. Il maso di Belasio ricadeva quindi nelle pertinenze di Rotzo e fu proprietà della potente famiglia dei Cerati prima d'essere ceduto nel 1587 ad Antonio Dal Pozzo di Castelletto per 504 ducati.
Non è dato a sapere quando vennero ridotte a cultura le rive degli Aldere e il pianoro della Campagna; probabilmente avvenne con gradualità a partire dal XV° secolo dato che prima la popolazione dovette essere veramente esigua e grande il lavoro necessario per rendere coltivabili quei conoidi alluvionali.
Di che origine erano i primo abitanti?
Non ci sono documenti che e permettano di far chiarezza su questo punto. Toldo, Lorenzi, Gianesini, Bonifaci, Faccin, sono tutti cognomi patronimici e non danno particolari indicazioni in merito. Nel duecento i nomi personali di derivazione latina e germanica coesistevano in tutta la regione. Io sono del parere che fossero in larga misura della stessa stirpe di tutte le genti dei dintorni, che parlassero la medesima lingua, che avessero i medesimi costumi, non vedendo ragione alcuna per ritenere il contrario.
Qualcuno sostiene invece che queste prime famiglie si siano via via insediate in paese al seguito dei vari guardiani succedutisi alla guida dell'Ospizio e chiamati dai luoghi d'origine di questi. Certamente la terra era inizialmente nella disponibilità di quella istituzione e quindi la cosa potrebbe anche essere plausibile. Non dimentichiamo però che i fondi agricoli non erano certo immediatamente disponibili per essere assegnati, ma bensì dovettero essere strappati alla montagna con una fatica di generazioni e nel corso di secoli.
Consideriamo anche che in una petizione dei nostri del 1567 per implorare dalla Serenissima l'esenzione dai gravami fiscali, essi dichiarano che tre secoli prima, cioè a metà duecento, a San Pietro non c'erano che ".. quattro o cinque silvestri e umilissimi tuguri .."
Ora, delle due l'una: o questi tuguri erano disseminati nel territorio e costituirono i nuclei originari delle predette corti (quindi non ricoveri addossati all'Ospizio, ma sparsi sul crinale vallivo dove c'era un po' di terra da dissodare), oppure questo farebbe supporre che durante l'attività ospitaliera non ci siano stati insediamenti di coloni, salvo qualche famiglia di servi nei pressi della chiesa, ma che lo sviluppo dell'abitato fu successivo al 1300.
A quel tempo all'ospizio era già subentrato un monastero, pare di monache di clausura e ciò non darebbe adito a grandi interazioni con la popolazione locale, salvo i diritti di proprietà fondiaria e di relativa ricognizione decimale. L'ospizio di San Pietro, come quello di Brancafora, avevano proprietà agricole a Carrè e Chiuppano dai quali traevano probabilmente quelle rendite che, almeno inizialmente, non erano ricavabili dalla terra nelle loro immediate pertinenze.
Ma da cosa dovevano difendersi? Qual'è la ragione di questa urbanizzazione protetta? Sicuramente abitare lungo la Via d'Alemagna comportava pericoli legati al ricorrente passaggio di eserciti, di bande armate, vagabondi o masnade in transito. con quello che poteva comportare in termini di predazione e violenza. Era terra di confine, di traffici e di contese. O forse c'erano altre motivazioni che ora sfuggono.
I prati dell'Astico erano privi di insediamenti e probabilmente nei primi secoli non ancora coltivati perché persisteva la devastazione del torrente. Le contrade più distanti dal centro, oltre la Val dell'Orco a sud e verso la Torra a nord, non esistevano ancora.
Il territorio di San Piero confinava allora a monte con la corona del Sojo a valle con l'Astico a nord con la Torra e a mezzogiorno con il Rioseco, oltre il quale c'erano le terre di Rotzo. Il maso di Belasio ricadeva quindi nelle pertinenze di Rotzo e fu proprietà della potente famiglia dei Cerati prima d'essere ceduto nel 1587 ad Antonio Dal Pozzo di Castelletto per 504 ducati.
Non è dato a sapere quando vennero ridotte a cultura le rive degli Aldere e il pianoro della Campagna; probabilmente avvenne con gradualità a partire dal XV° secolo dato che prima la popolazione dovette essere veramente esigua e grande il lavoro necessario per rendere coltivabili quei conoidi alluvionali.
Di che origine erano i primo abitanti?
Non ci sono documenti che e permettano di far chiarezza su questo punto. Toldo, Lorenzi, Gianesini, Bonifaci, Faccin, sono tutti cognomi patronimici e non danno particolari indicazioni in merito. Nel duecento i nomi personali di derivazione latina e germanica coesistevano in tutta la regione. Io sono del parere che fossero in larga misura della stessa stirpe di tutte le genti dei dintorni, che parlassero la medesima lingua, che avessero i medesimi costumi, non vedendo ragione alcuna per ritenere il contrario.
Qualcuno sostiene invece che queste prime famiglie si siano via via insediate in paese al seguito dei vari guardiani succedutisi alla guida dell'Ospizio e chiamati dai luoghi d'origine di questi. Certamente la terra era inizialmente nella disponibilità di quella istituzione e quindi la cosa potrebbe anche essere plausibile. Non dimentichiamo però che i fondi agricoli non erano certo immediatamente disponibili per essere assegnati, ma bensì dovettero essere strappati alla montagna con una fatica di generazioni e nel corso di secoli.
Consideriamo anche che in una petizione dei nostri del 1567 per implorare dalla Serenissima l'esenzione dai gravami fiscali, essi dichiarano che tre secoli prima, cioè a metà duecento, a San Pietro non c'erano che ".. quattro o cinque silvestri e umilissimi tuguri .."
Ora, delle due l'una: o questi tuguri erano disseminati nel territorio e costituirono i nuclei originari delle predette corti (quindi non ricoveri addossati all'Ospizio, ma sparsi sul crinale vallivo dove c'era un po' di terra da dissodare), oppure questo farebbe supporre che durante l'attività ospitaliera non ci siano stati insediamenti di coloni, salvo qualche famiglia di servi nei pressi della chiesa, ma che lo sviluppo dell'abitato fu successivo al 1300.
A quel tempo all'ospizio era già subentrato un monastero, pare di monache di clausura e ciò non darebbe adito a grandi interazioni con la popolazione locale, salvo i diritti di proprietà fondiaria e di relativa ricognizione decimale. L'ospizio di San Pietro, come quello di Brancafora, avevano proprietà agricole a Carrè e Chiuppano dai quali traevano probabilmente quelle rendite che, almeno inizialmente, non erano ricavabili dalla terra nelle loro immediate pertinenze.
Gianni Spagnolo
lunedì 24 febbraio 2014
El quiss de Carnavàle de Ricardo:
Chi elo quelo sul musso...
e chi elo quelo che lo mena...???
(by Riccardo)
Notiamo in sfilata anche Remo e la Nenè,
nonchè lo storico Capitello della campagna
e la vecchia casa dei "Costante",
prima dell'allargamento di Via delle Alpi.
Con le maschere gli aiutini per forza di cose vero?
Allora diciamo che quello sul musso è già andato avanti...
ed aveva un soprannome... ma non perchè ce l'avesse...
quello che lo conduce ha a che fare col mondo dei norcini...
Con le maschere gli aiutini per forza di cose vero?
Allora diciamo che quello sul musso è già andato avanti...
ed aveva un soprannome... ma non perchè ce l'avesse...
quello che lo conduce ha a che fare col mondo dei norcini...
domenica 23 febbraio 2014
Il Carnevale di Venezia
Il Carnevale di Venezia, se non il più grandioso, è sicuramente il più conosciuto per il fascino che esercita e il mistero che continua a possedere anche adesso che sono trascorsi 900 anni dal primo documento che fa riferimento a questa famosissima festa.
Chi non ne ha mai sentirto parlare? Si hanno ricordi delle festività del Carnevale fin dal 1094, sotto il dogato di Vitale Falier, in un documento che parla dei divertimenti pubblici nei giorni che precedevano la Quaresima. Il documento ufficiale che dichiara il Carnevale una festa pubblica è del 1296 quando il Senato della Repubblica dichiarò festivo l’ultimo giorno della Quaresima.
Tuttavia il Carnevale ha tradizioni molto più antiche che rimandano ai culti ancestrali di passaggio dall’inverno alla primavera, culti presenti in quasi tutte le società, basti pensare ai Saturnalia latini o ai culti dionisiaci nei quali il motto era “Semel in anno licet insanire” (“Una volta all’anno è lecito non avere freni”) ed è simile lo spirito che anima le oligarchie veneziane e le classi dirigenti latine con la concessione e l’illusione ai ceti più umili di diventare, per un breve periodo dell’anno, simili ai potenti, concedendo loro di poter burlare pubblicamente i ricchi indossando una maschera sul volto. Una utile valvola di sfogo per tenere sotto controllo le tensioni sociali sull’esempio del “Panem et Circenses” latino.
Se un tempo il Carnevale era molto più lungo e cominciava
addirittura la prima domenica di ottobre per intensificarsi il giorno
dopo l’Epifania e culminare nei giorni che precedevano la Quaresima,
oggi il Carnevale ha la durata di circa dieci giorni in coincidenza del
periodo pre-pasquale ma la febbre del Carnevale comincia molto tempo
prima anzi, forse non è scorretto dire che, a Venezia, la febbre del
Carnevale non cessa mai durante l’anno. Una sottile euforia si insinua
tra le calli della città più bella del mondo e cresce
impercettibilmente, sale con la stessa naturalezza dell’acqua, sfuma i
contorni della cose, suggerisce misteri e atmosfere di tempi andati.
Un tempo il Carnevale consentiva ai Veneziani di lasciar
da parte le occupazioni per dedicarsi totalmente ai divertimenti, si
costruivano palchi nei campi principali, lungo la Riva degli Schiavoni,
in Piazzetta e in Piazza San Marco. La gente accorreva per ammirare le
attrazioni, le più varie: i giocolieri, i saltimbanchi, gli animali
danzanti, gli acrobati; trombe, pifferi e tamburi venivano quasi
consumati dall’uso, i venditori ambulanti vendevano frutta secca,
castagne e frìtole e dolci di ogni tipo, ben attenti a
far notare la provenienza da Paesi lontani delle loro mercanzie.
La
città di Venezia, grande città commerciale, ha sempre avuto un legame
privilegiato con i Paesi lontani, con l’Oriente in particolare cui non
manca, in ogni edizione del Carnevale, un riferimento, un Filo Rosso che
continua a legare la festa più nota della Serenissima al leggendario
Viaggio del veneziano Marco Polo verso la Cina alla corte di Qubilai
Khan dove visse per circa venticinque anni. Un Filo Rosso che si snoda
lungo l’antica e famigerata via della Seta.
Alcuni Carnevali sono passati alla storia: quello del
1571, in occasione della grande battaglia delle forze cristiane a
Lepanto quando, la domenica di Carnevale venne allestita una sfilata di
carri allegorici: la Fede troneggiava col piede sopra un drago
incatenato ed era seguita dalle Virtù teologali, la Vittoria sovrastava i
vinti ed infine la Morte con la falce in mano per significare che in
quella vittoria anche lei aveva trionfato.
Nel 1664 in occasione delle nozze in casa Cornaro a San
Polo, si organizzò una grandiosa e divertente mascherata a cui
parteciparono molti giovani patrizi. Una sfarzosa sfilata attraversò
Venezia e fece tappa in due dei più famosi monasteri della città: quello
di San Lorenzo e quello di San Zaccaria, dove risiedevano le monache di
nobile stirpe.
Il 27 febbraio 1679 il Duca di Mantova sfilò con un
seguito di indiani, neri, turchi e tartari che, lungo il percorso
sfidarono e combatterono sei mostri, dopo averli uccisi si cominciò a
danzare.
Per il Carnevale del 1706: giovani patrizi si
mascherarono da Persiani e attraversarono la città per poi esibirsi
nelle corti e nei parlatoi dei principali monasteri di monache (San
Zaccaria e San Lorenzo).
Venezia divenne l’alta scuola europea del piacere e del
gioco, della maschera e dell’irresponsabilità. Venezia si fece grande
virtuosa delle metamorfosi e il carnevale fu (ed è ancora) il suo
exploit.
Per molti giorni all’anno, il mondo sembrava non opporre
più resistenza i desideri diventavano realizzabili e non c’era pensiero o
atto che non fosse possibile. Questa era Venezia nel Settecento, il
secolo che, più di ogni altro, la rese luogo dalle infinite suggestioni e
patrimonio della fantasia del mondo. Venezia era allora il mondo di
Giacomo Casanova, un mondo superficiale, festante, decorativo e galante,
il mondo di pittori come Boucher e Fragonard, Longhi, Rosalba Carriera e
Giambattista Tiepolo, la patria del padre della Commedia dei Caratteri,
uno dei più grandi autori del teatro europeo e uno degli scrittori
italiani più conosciuti all’estero: Carlo Goldoni che, in una poesia
dedicata al Carnevale, così rappresenta lo spirito della festa:
“Qui la moglie e là il marito
Ognuno va dove gli par
Ognun corre a qualche invito,
chi a giocar chi a ballar”.
Ognuno va dove gli par
Ognun corre a qualche invito,
chi a giocar chi a ballar”.
Nel XIX secolo, invece, Venezia e il suo Carnevale
incarnano il mito romantico internazionale e la città della Laguna, con
le sue brume e l’aspetto paludoso, diventa meta di artisti, scrittori,
musicisti, avventurieri e bellissime dame di tutto il mondo: Sissi
d’Austria, Wagner, Byron, George Sand, Ugo Foscolo.
Il Carnevale ebbe un momento di stasi dopo la caduta della Repubblica di Venezia perché malvisto dalla temporanea occupazione di austriaci e francesi. La tradizione si conservò nelle isole, Burano, Murano, dove si continuò a festeggiare. Solo alla fine degli anni Settanta del XX secolo alcuni cittadini e associazioni civiche si impegnarono per far risorgere il Carnevale che venne inaugurato nel 1979.
Il Comune di Venezia, il Teatro La Fenice, l’azienda provinciale di soggiorno e la Biennale prepararono un programma di 11 giorni lasciando anche molto spazio all’improvvisazione e alla spontaneità senza dimenticare un supporto logistico con mense e alloggi a prezzi accessibili.
Il Carnevale dei nostri giorni è un magnifico happening che coinvolge grossi sponsor, le reti televisive, le Fondazioni culturali e che richiama folle di curiosi da tutto il mondo con migliaia di maschere in festa e con una pacifica e sgargiante occupazione della Laguna.
Tra le calli della meravigliosa città, per una decina di giorni, si svolge una continua rappresentazione di teatrale allegria e giocosità, tutti in maschera a celebrare il fascino di un mondo fatto di balli, scherzi, galà esclusivi e romantici incontri.
Il mandorlo in fiore
Stanca del protrarsi di questo periodo piovoso, grigio, uggioso...
oggi sono andata a caccia di qualche timido segnale primaverile
e l'unico che ho trovato è questo mandorlo in fiore.
Solitamente, quando si parla di mandorli in fiore,
la mente ti porta alla Valle dei Templi di Agrigento
e invece qui siamo nientemeno che in Contra' Lucca
e il mandorlo in fiore è di proprietà di Adelfo Bonifaci.
sabato 22 febbraio 2014
venerdì 21 febbraio 2014
Malga Posellaro
(by Riccardo)
Una pausa per gli Amici appassionati di fondo.
Dovremmo essere nel 1978.
Da sx seduti: Riccardo Spagnolo - Ennia Spagnolo - Fernando Spagnolo -
Riccardo Stefani - Rosanna Serafini - Claudio Lorenzi (pocio)
Da sx accosciati: Franco Stefani (delle vasche) -
Antonio Lorenzi (fognassa) - Loris Pretto -
Notate la somiglianza strabiliante di Nicolò con lo zio Antonio...
Il risotto
Siamo in tanti a saper cucinare, ma a volte ignoriamo quelle "piccole malizie" che fanno la differenza e se le sappiamo, non ci poniamo il perché sia così.
Ho letto in questi giorni un bell'articolo sul riso e ho piacere condividerlo con voi.
***§§§***
Il riso, coltivato in tutto il mondo, raggiunge livelli di eccellenza nella zona del Pavese infatti Pavia è il primo produttore di riso in Italia e in Europa.
Il CARNAROLI, l'ARBORIO e il VIALONE NANO, sono i risi che esigono i grandi Chef per preparare uno dei piatti più amati al mondo: IL RISOTTO, uno dei tanti vanti del "made in Italy". Infatti il risotto è un piatto italiano e solo italiano. Attenzione, non il riso, alimento universale, ma quello che parte dal soffritto ed è tirato a cottura con il brodo, più infinite varianti ed aggiunte.
Sappiamo che ogni Regione ha "il suo risotto": dal risotto milanese allo zafferano, al nero di seppia veneziano, all'onda quello mantovano, senza dimenticare "el risi & bisi" vicentino per sconfinare a tutti quelli ai frutti di mare.
Preparare un risotto a regola d'arte non è uno scherzo: oltre alle regole di base, ci sono tanti segreti da scoprire per trasformare un piatto quotidiano in un'esperienza di gusto.
Iniziamo dal tipo di riso. Il VIALONE NANO ha chicchi tondeggianti di una certa grandezza. Cuoce in circa 15 minuti, un po' più velocemente di CARNAROLI e ARBORIO. E' adatto per risotti ben mantecati, come quelli tipici della cucina veneta e mantovana;
il CARNAROLI, dai chicchi lunghi e grossi rilascia UN TIPO DI AMIDO che fa sì che durante la cottura il cuore dei chicchi resti "al dente". Al contrario, la part esterna si sfalda un po', regalando al piatto, la tipica cremosità. Ogni chicco s'impregna di tutti i profumi e condimenti: perciò il CARNAROLI è indicato per risotti semplici e raffinati a base di ingredienti di qualità.
L'ARBORIO ha chicchi grandi e perlati che aumentano di dimensione in cottura. Per questo vanno calcolati circa 20 grammi di meno a porzione, rispetto ad altri risi. Ideale con frutti di mare.
COME SI PROCEDE?
La pentola ideale per il risotto deve essere più larga che alta e con il fondo spesso.
Tostatura - stufatura - mantecatura: queste le tre fasi chiave del risotto e ognuna nasconde dei segreti...
La tostatura inizia col soffritto. Dopo aver affettato a velo o tritato finemente la cipolla, si scalda nel tegame il burro; deve formare un velo uniforme sul fondo del tegame. Si aggiunge la cipolla SOLO quando la base è ben calda: la fiamma deve essere dolcissima e il trito imbiondire lentamente fino ad appassire e quasi scomparire. Ora si aggiunge il riso, si alza la fiamma e si fa tostare qualche minuto, mescolando con un cucchiaio di legno per non bruciare la cipolla. Quando è pronto? Ascoltatelo! Non appena "sfrìgola" è il momento di sfumare con il vino bianco, si deve lasciare evaporare l'alcol ed iniziare a versare il brodo.
La stufatura è una tecnica tipicamente italiana, in cui si aggiunge POCO A POCO del brodo bollente (di carne o verdure in base alla ricetta) in modo che i chicchi di riso siano sempre coperti di liquido, ma ATTENZIONE: il riso deve cuocere nel brodo, ma NON esserne inondato, altrimenti sembrerà bollito. La più bella descrizione è che... BISOGNA FARLO SOFFRIRE... e quindi aggiungere brodo, ben caldo (altrimenti s'interrompe la cottura), A MESTOLI, poco alla volta, mescolando spesso con un cucchiaio di legno, in modo che i chicchi non si attacchino al fondo della pentola.
Il risotto ideale è ancora al dente, nè troppo liquido, nè troppo asciutto.
La mantecatura è la fase finale. Con la pentola sul fornello SPENTO si aggiunge PRIMA il burro, poi il formaggio grattugiato fresco senza esagerare: per 4 persone 8 cucchiai rasi da minestra.
Si attende e poi si inizia a lavorare di cucchiaio. Il riso è ancora molto caldo, tende ad asciugare, perciò meglio avere sottomano altro brodo per dare morbidezza. ATTENZIONE: man mano che la temperatura scende, il riso NON assorbe più.
I SEGRETI DA SAPERE:
Acqua fredda? NO GRAZIE!
Cresciuto ammollo, il riso in cucina NON ama l'acqua fredda perchè, penetrando nel chicco, lo rende fragile e friabile. Ecco perchè va cotto sempre in liquidi bollenti.
LA TOSTATURA determina il tempo di cottura del riso. Più lunga è la tostatura, più il chicco sarà "corazzato" e più tempo impiegherà il risotto a completare la cottura. Regolatevi in base alla vostra fretta.
SI MESCOLA COSI':
Quando si rimesta il risotto, occorre farlo sempre DAL CENTRO VERSO I BORDI e questo perchè nell'area esterna del tegame cuoce più velocemente. Il cucchiaio? Rigorosamente di legno!
L'ONDA PERFETTA
Non basta sciogliere burro e formaggio nel riso per mantecare, occorre rimestare con vigore sul fondo del tegame per ROMPERE e SEPARARE le particelle di grasso. Più è veloce il movimento, più piccole saranno le particelle e maggiore l'aria catturata. Così si ottiene un'emulsione spumosa che dona cremosità al piatto:
la cosiddetta "onda".
la cosiddetta "onda".
BUON APPETITO!!!
Iscriviti a:
Post (Atom)
Potenza del nome
[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...