“Su fógo Maria ca brusémo anca la miseria!
Butémo su un copertòn vecio del camio ca fémo prima e manco fadìga!”.
Tita parlava reggendo in equilibrio un vecchio copertone del camion che da anni era buttato da parte nell’orto.
Si intravedevano le tele e qualche lumaca si era attaccata nella cavità interna, protetta dal sole e dall’umidità.
Il fuoco vigoroso in un angolo della cantina riempiva di calore e di fumo la piccola stanza interrata e lambiva il soffitto a volto di quarei.
La finestrella in alto, a livello del piano terra, era diventata il camino e anche la rampa di scale era invasa dall’acre cortina di fumo.
Le fiasche con il vino erano allineate sul pavimento e la stanga di salami e di sopresse pendeva attaccata a due ganci dal soffitto.
Tita, aiutato dalla moglie, fece rugolare in fretta il grosso pneumatico giù per le scale trattenendo il respiro e in fretta lo gettarono tra le fiamme che lo avvolsero rapidamente con un crepitio sordo.
Le ragnatele attaccate al soffitto e ai muri erano diventate dei merletti scuri che sventolavano alle ondate di calore e davano un’aria sinistra all’ambiente.
Gli occhi dei due cominciarono a lacrimare e la gola a bruciare, mentre il respiro si faceva difficoltoso.
Uscirono in fretta all’aperto mentre dalla finestra adesso usciva un fumo nero e denso che appestava l’aria.
Danzavano falive nere confuse con le fiamme e col rantolo del fuoco che veniva amplificato dalle volte della stanza.
Tita si sedette sul sedile di marmo sotto il portico e con il fazzoletto si asciugò il sudore.
Sputò per terra per togliersi quel gusto di gomma bruciata che gli era entrato in gola, sul pavimento chiazze di escrementi rinsecchiti di rondini che d’estate popolavano il cortile e nidificavano sotto le travi del tetto.
Era affaticato, ma soddisfatto, finalmente i salami potevano asciugare in fretta.
“Cossa vùto métare con la fadìga de prima” disse alla moglie che mostrava qualche perplessità su quella scorciatoia trovata dal marito.
“Ma,… se te lo disi ti…” esclamò la Maria ponendosi a sedere poco lontano.
Poi ci fu il silenzio rotto solo dal crepitio del fuoco e dallo squittire di un topo che, come un razzo, guadagnava la corte uscendo mezzo arrostito da quella specie d' inferno.
Il fuoco durò qualche tempo, poi piano piano calarono il fumo e il crepitio; ormai si era fatta sera e la luce nell’angolo della strada si accese.
Tita, assorto, con i pensieri tra le volute del fumo, ricordava gli anni passati quando verso dicembre si ammazzava il maiale.
Quanto lavoro e quanta fatica drìo el mas-ciaro! Si cominciava la mattina presto, con l’alba, a far bollire l’acqua e si finiva un paio di giorni dopo quando il mas-cio era stato trasformato in salami, sopresse, pansette, luàneghe, mortandéle, lardo, sanguéta e colà.
Non si buttava via niente, nemmeno le unghie e il pelo.
Era un rituale antico e preciso che teneva conto della luna e del tempo, meglio se i giorni andavano via secchi e freddi.
Bisognava anche stare attenti che il maiale fosse sano e che, se femmina, non fosse in calore.
Bastava poco per rovinare tutto il lavoro di un anno.
Poi seguiva la fase di stagionatura nelle cantine, dopo aver asciugato col fuoco di legna nelle grandi cucine, gli insaccati.
Di solito si sceglieva del legno buono e resinoso che nel bruciare conferiva al fumo l’aroma che poi in parte veniva assorbito dai salumi.
Costava fatica tutto questo, costanza e pazienza.
Negli anni ’60 i tempi stavano cambiando in fretta, la televisione aveva dato una svolta rapida alla vita e tutto quello che era vecchio o in odore di passato, era da buttare o da bruciare.
Si accettava il nuovo come la frontiera che avrebbe dato benessere e felicità.
I nostri paesi uscirono malconci e spogliati da questa rivoluzione e si ritrovarono svuotati e stravolti nell’anima e nel corpo.
A Chiuppano, via la vecchia chiesa, sacrificata a un municipio insipido, via le fontane per ricavare spazi per nuove costruzioni o barattate per qualche stupido posto macchina, via la buca del ghiaccio, via gli archi, via le mura via, via….
Via il dialetto, via i vecchi modi di dire, via le credenze di legno, via le vecchie ricette, via tutto… via la miseria.
Via la miseria, deve aver pensato bene Tita nel suo piccolo, mentre si adoperava a parare la manovella del tritacarne per ridurre la carne al giusto vaglio.
In via Longa questo voglia di nuovo e di tribolare men, era passata come un vento e aveva tirato dentro il vortice, persone e famiglie, con soluzioni a volte grottesche e con risultati spesso ridicoli.
I Burinei, vicini di casa, di pochi mezzi, non potendosi permettere una lavatrice elettrica come quelle della pubblicità, avevano portato a casa una grama alternativa: la lavatrice a manovella.
Che spettacolo! Una specie di ovo da far vorticare rapidamente carico di indumenti e di acqua con un po’ di detersivo.
Al sabato, quando di solito veniva adoperata, dall’esterno si avvertiva una specie di tremolio ai vetri delle finestre: le prime volte la Nena Trapuja pensava spaventata al teramoto.
Era la fase della centrifuga, con il padrone di casa che parava come un mato e i figli, uno per gamba che tenevano ferma la tóla; la moglie invece provvedeva a trattenere la macchina.
Questa famiglia nel suo piccolo non si era fatta mancare nulla: aveva anche un mezzo di trasporto, non una bicicletta né la moto, nemmeno l’automobile, ma un incrocio tra una motocicletta e un missile.
L’abitacolo era coperto da una rabalsa di vetro che veniva calata sul guidatore dopo che questi aveva guadagnato il posto di guida da un pertugio laterale.
Quando tutto fiero dava il via per partire, un nugolo di ragazzi della contrà si badanava a urtare drio quella specie di proietto che pareva sparato da una bombarda.
Avevano anche uno dei primi mangiacassette, ordigno mai visto prima, che sostituiva il vecchio giradischi.
Dunque Tita, pensando a queste novità, si convinse che i salami doveva trattarli in maniera diversa.
Niente legna, tempo e casin in cucina, l’alternativa rapida e meno faticosa erano le rue del camio che bruciavano così bene.
Allora al momento opportuno tirò fuori quell’asso dalla manica.
Ecco il perché di quel rogo in cantina che aveva arroventato l’aria seccato e affumicato i muri e i salumi.
Quando il fuoco fu spento, quel posto sembrava un bivacco in una caverna con i salami che pendevano anneriti dalla stanga.
Apparentemente non si poteva giudicare il risultato,…solo tra qualche mese si sarebbe potuto dire.
I vecchi che abitavano in quella via, si grattarono la testa quando seppero di quell’espediente.
“A són promòso da védare” disse Toni Volpe quando passò a vedere il risultato.
Checo Frate si grattò la testa e si portò la pipa sulla bocca forse per non dire niente. Era un uomo selvatico, ma buono, lontano dai venti di novità e di cambiamento.
Viveva tra i boschi, la terra e gli animali; forse quell’esperimento lo faceva inorridire.
Tita guardava quei budelli rinsecchiti con non poca apprensione, forse aveva esagerato e la moglie non aveva visto troppo sbagliato.
Dopo due mesi tagliarono il primo salame, in cucina.
Tutti intorno, tutti promòsi de sajàre.
Plastica s-céta: Mopren!... fu il responso della Nena, come quela in televisòn!
Il giorno dopo, in fretta, quasi furtivamente, Tita staccò i salami dalla stanga e li depositò malamentre nel carioòn da stala.
Poi li svodò sul luamàro.
Fine triste di un esperimento.
Gli tornò in mente quando a metà degli anni ’20 aprì il primo molino elettrico del paese mosso dalla corrente, più o meno in uno stabile dove si trova ora la nuova chiesa.
Durò poco, perché la gente si era messa in testa che la farina, che usciva da quei cilindri, sapeva da létrico.
Una suggestione collettiva, una roba da mati.
Ma i salami sapevano proprio da plastica.
Maurizio Boschiero