mercoledì 30 giugno 2021

Come divenimmo "polentoni"...

Colpa de l'uffizio delle biave.

Di Milo Boz 

Fu certamente anche grazie all’OFFICIO delle BIAVE, una Magistratura veneta, che nel XVI secolo, come misura per prevenire carestie dovute a cattivi raccolti, incoraggiò la coltivazione del granturco, in alternativa al grano, abbinandolo anche al riso. Il granturco, introdotto nel 1550, forniva un raccolto più abbondante di quello che era stato possibile ottenere prima e si diffuse in tutto il Veneto nel giro di tre generazioni per diventare infine il prodotto principale della dieta dei contadini.

Anche il riso fu introdotto nel XVI secolo e contribuì in maniera significativa ad aumentare le scorte alimentari. Secondo Pierre Chaunu, il riso fornisce 7,35 milioni di calorie per ettaro, contro 1,51 milioni di calorie del grano. Queste cifre, anche se approssimative, rendono l’idea dell’importanza del riso nell’incremento delle scorte di cibo.

Le calorie fornite dal granturco sono intermedie, ma in pratica, determinano la vera differenza la caduta delle piogge locali e la qualità del suolo. Il riso richiedeva l’inondazione e ciò limitava la sua diffusione a terre piane ed irrigue. Il granturco necessitava di più precipitazioni atmosferiche del grano, ma questi due raccolti erano reciprocamente sostituibili ovunque nel Veneto.

I Magistrati ammassavano delle scorte di grano, granturco e riso, in appositi edifici, per poi introdurre a prezzi calmierati o, nei periodi di crisi profonda, addirittura distribuire gratuitamente per le classi povere, le scorte accumulate. Traccia di queste provvidenziali usanze le troviamo ancora nella toponomastica di qualche città veneta, anche se con la creazione dello stato unitario italiano, il Grande Fratello di orwelliana memoria, ha fatto scomparire nomi che invece erano carichi di significati. A Padova, tanto per fare un esempio, l’attuale Piazza Garibaldi, era detta fino a metà ‘800, Piazza delle Biave.

(inviata da A. Giacomelli)

El cimbro sconto gazòget bor in oarn: Plao


Gianni Spagnolo © 21F29
Qui ci occuperemo delle parole del nostro dialetto che derivano verosimilmente dal Cimbro. Sono vocaboli dell'antica lingua rimasti nella nostra parlata corrente e che sono sopravvissuti divenendone parte. A volte adattandosi foneticamente, altre assumendo addirittura un significato diverso per allegoria.

La parola di oggi è:

  • Plao
  • Usato quasi esclusivamente in collegamento al vestiario: vestìo da plao. Cioè in modo informale, dimesso, oppure non consono alle circostanze.
Potrebbe forse derivare dal C7C: plòas, nel senso di liscio, schietto, senza fronzoli. É voce raccolta prevalentemente in famiglia e mai fuori dalla nostra zona. Non mi pare infatti registrata nel dialetto vicentino. 
Invito quindi il nostro esperto-omeopatico-cimbrico Enrico Sartori ad intervenire per darci la sua opinione.

- Frase: A no vegno mia al funerale, ca son vestìo da plao. / Non vengo al funerale perché sono vestito in modo inappropriato.

Cuestion de pasta!

 


SNOOPY


 

martedì 29 giugno 2021

Ma allora... leggete!


Sono certa, che il lavoro di chi gestisce questo Blog, sia da elogiare: non è semplice avere sempre qualcosa di nuovo da pubblicare, che sia di largo gradimento e renda  costantemente interessante tutto quello che viene proposto.  Dopo la decisione di pubblicare soltanto i commenti “decenti”, gli stessi sono calati vertiginosamente, dando l’impressione che a leggere o a guardare, siano rimasti veramente in pochi. Partendo dal presupposto che, se una persona scrive o pubblica qualcosa lo fa per il piacere di farlo e non per ricevere elogi, mi sono resa conto che i lettori di Bronsescoverte sono tanti. Anche se non ci sono commenti, i visitatori, quotidianamente si soffermano su ciò che viene presentato.

Un giorno mi trovavo con mio marito e i miei nipoti in un parco giochi del nostro territorio, quando mi si avvicina una coppia distinta e mi chiede se sono io Lucia Marangoni che scrive nel Blog. Questi signori, molto gentili, mi hanno raccontato che sono in valle nella casa dei nonni e che, venendo da Torino, risiedono in una contra', dove due volte l’anno risiedono per un bel po’ di tempo, a volte anche con figli e nipoti. Mi dicono che ogni mattina hanno un appuntamento fisso con Bronsescoverte e che mi leggono volentieri; io sono contenta e li ringrazio di cuore per le loro parole. Un altro giorno, davanti alla Posta, c’è una persona da “rentolà” che mi saluta dicendomi che la poesia che ho scritto è veramente bella; in un altro momento, in un negozio del nostro comune, una signora si avvicina  e, dopo essersi accertata che fossi io, (con la mascherina è difficile conoscersi subito) mi chiede come sto, mi dice che legge sempre e mi ringrazia per quello che ho scritto e scrivo. Altre persone mi hanno detto che hanno capito che stavo meglio, dopo che ho ricominciato a scrivere. Mio marito, che incontra persone quando va a farsi i giretti in bici, mi porta sempre i complimenti di qualcuno che legge i miei pensieri e che mi ringrazia. E altro ancora…

Ma allora... leggete!

Io non ho bisogno di sentirmi elogiata, lodata o che altro, scrivo perché amo farlo e perché credo che se a qualcuno fa bene leggere ciò che mi viene dal cuore, non può che essere gratificante, perché desidero soltanto fare del bene.

Quando viene pubblicato qualcosa di mio, è come se donassi il mio intimo a tutto il mondo; ogni parola, ogni riga, ogni testo è lì a disposizione di tutti, perché come ho ricevuto questo “dono”, a mia volta lo regalo agli altri e questo mi rende felice!

Vorrei ringraziare tutte quelle persone “coraggiose” che commentano sul Blog: grazie, perché ogni tanto fa bene sentire che ci siete; a tutti gli altri che non osano scrivere, vorrei dire che rispetto il loro atteggiamento e credo che piuttosto di scrivere cattiverie e malignità, sia molto meglio non scrivere nulla!

Buona lettura e serena estate a tutti!

Lucia Marangoni (Damari)


“Un poeta, regalando le sue poesie, apre la sua anima, la dona agli altri. È molto più facile dare affetto, che dare la propria anima!!”

“Scrivere è come baciare, ma non con la bocca, con la mente”

E a proposito di bufale... meditiamo...


 

SNOOPY


 

lunedì 28 giugno 2021

Andare alla fontana

Ogni anno, quando l’orto comincia a dare i suoi frutti, mi piace andare alla fontana a lavare la verdura.

Quando immergo le mani nell’acqua fresca, nell'ambiente meraviglioso che ho intorno, penso sempre alle donne di un tempo, a quanta fatica hanno fatto per attingere l’acqua  per i bisogni della famiglia e per gli animali.

Nell’epoca in cui nelle case non c’era l’acqua corrente e sopra il “seciàro” erano attaccati i “sèci” con il mestolo per bere l’acqua, nessuno avrebbe immaginato che con un semplice gesto della mano, l’acqua sgorgasse fresca e continua, dentro le case!

Ai nostri tempi, non si fa caso quando si apre il rubinetto per una qualsiasi necessità, perché siamo nati in un’era dove abbiamo trovato tutte le comodità. Credo che un tempo, l’acqua si adoperasse con parsimonia, solo per lo stretto necessario, perché andare a prenderla alle fontane costava fatica. 

Mentre lavo la verdura, penso a quanta storia è passata vicino a quella fontana e a tutte le fontane del nostro territorio;  penso a quanto era “normale” recarsi alla fontana più vicina alla propria abitazione, mentre ora chi attinge alle fontane lo fa per  dare da bere ai fiori che si trovano lì vicino, oppure serve ai ciclisti che fanno una sosta per riempire le borracce, o anche chi va a camminare e si ferma per ristorarsi..

Vedere una donna che lava la verdura alla fontana, nel 2021, è cosa inusuale e strana… l’ho visto negli occhi di chi è transitato verso il “Piovàn”: occhi stupiti, occhi increduli… mentre immagino i loro commenti, ma io sono fiera di poter ancora recarmi a una fontana e rilassarmi con il gorgoglio e la magia che l’acqua sa dare!

Lucia Marangoni






Le fontane


Cò le seste piene de roba da lavare,

ale fontane nà volta, se usava ‘ndare:

ala matina presto, se se incaminàva

chi rivava prima, el posto ciapàva!


In fila sula vasca, in tante a lavare,

sfregolàndo col saòn, gera  un gusto cantare…

le done e anca le tose le se trovava,

e co la schena in-cucià, le ciàcolava!


L’acqua la gera nà vera ricchessa…

tuto intorno, nà bellessa!

Quante volte se ‘nava avanti e indrìo,

col bigòlo e le sece, lo sa solo Dio!


Nessuni  gavarìa mai pensà

che tante robe, le sarìa presto canbià,

che se gavarìa fato in pressa a desmentegare,

come se fasèva un tempo a lavare…


Tante fontane desso le xè stropà,

altre, da tuti abandonà…

no ghè xè ciàcole, filastroche o cansòn,

no se sente quel bon profumo de saòn…




Le gera ciare , lustre: nà meraveja,

gnanca più le ghè somèja…

le porta el peso de tanti ani,

de tanta gente, le gioie e i afani…


Parchè nò solo par lavare

ale fontane, se se podèva trovàre,

anca i amori nasseva lì intorno,

tante ociàde, giorno dopo giorno…


Tute le bestie se portava a bevàrare,

i seci de acqua par far da magàre,

ale fontane sempre movimento, confusiòn…

l’acqua scorèva chieta, in ogni stagiòn!


Se le podesse, quanto le gavarìa da contare…

ma le tase… no ghè xè più ciàcole da smaronàre…

 quanta vita vissìn, ghè xè passà…

desmentegàrse, no sarìa proprio un pecà?


Lucia Marangoni Damari



                                   

Prepariamoci per la barchetta di S. Pietro

La sera del 28 prendiamo una caraffa o un altro contenitore di vetro trasparente e riempiamolo per 3/4 di acqua, poi versiamo delicatamente nella caraffa l'albume di uno o due uova.
Portiamo quindi il nostro contenitore in giardino, sul prato, sul balcone o comunque all'aperto.
All'alba del 29 giugno andiamo a ritirarlo.
La notte di S. Pietro, la rugiada del mattino o chissà cos'altro... avranno fatto la "MAGIA": nell'acqua si sarà formata "la barchetta di S. Pietro", il suo veliero.
I nostri Nonni, in base alla forma della barca e delle vele, ricavavano utili informazioni sul clima dell'estate appena iniziata e sul futuro raccolto.
I bambini rimanevano incantati per questa magia.

MANTENIAMO VIVE LE NOSTRE TRADIZIONI! 

La Cooperativa di Pedescala

PEDESCALA - Rarissima foto dei 18 soci fondatori della "Cooperativa", con il parroco pro tempore Don Piero Costa (1900-1907) ed estratto notarile redatto dal notaio Francesco Pagliosa di Velo d'Astico, datato settembre 1907 con di seguito i nomi:

Pretto Giò Batta di Antonio - Marangoni Leonardo di Antonio - Stenghele Antonio di Francesco - Giacomelli Giovanni fu Leonardo (Rasolo) - Dal Pozzo Michele fu Valentino - Gerosa Giuseppe fu Tommaso - Marangoni Giò Batta fu Antonio - Gerosa Antonio fu Tommaso - Giacomelli Bortolo fu Rocco - Dal Pozzo Giovanni fu Valentino - Marangoni Antonio fu Agostino (Tonai) - Giacomelli Nicolò fu Giovanni - Stenghele Giovanni di Francesco - Pretto Giò Batta fu Nicolò Antonio - Giacomelli Giovanni fu Giovanni detto Mola - Dal Pozzo Pietro fu Giovanni - Giacomelli Antonio di Antonio - Pretto Antonio di Antonio.

Delmo Stenghele


SNOOPY


 

domenica 27 giugno 2021

Tradizioni di San Giovanni


L'acqua de melissia, la rugiada de san Giovanni, l'erba de San Giovanni, el giglio de San Giovanni e la notte de San Giovanni.

Le notti che precedono e seguono la data di san Giovanni Battista, il 24 giugno, erano ritenute magiche e avevano poteri occulti efficacissimi. Ecco perché, nella notte di San Giovanni, in pianura si raccoglieva la camomilla selvatica (detta erba di San Giovanni) e in montagna l'iperico (anch'esso erba di San Giovanni). Era una notte questa, in cui si poteva fare “l'acqua de milissia”. Le erbe, fresche di primavera, da unire nella magica “pozione” erano molte e variavano anche a seconda dei luoghi di raccolta: melissa, genziana, camomilla, alloro, menta rotundifolia, salvia, rosmarino, timo, valeriana e qualche fiore di giallo iperico, pochi fiori, perché con la loro linfa, rosso porpora, avrebbero potuto rendere oscura “l'acqua de melissia”.
Ma, in ogni paese, c'era la “fèmena dell'acqua de melissia”.
In molti paesi delle nostre montagne, veniva vista come fosse una fattucchiera, una “maga”. Anche nel mio paese, Maria, mescolava in un pentolone molte erbe, poi le lasciava macerare in acqua per alcuni giorni e al termine portava quell'acqua a bollitura. Il coperchio del pentolone aveva un buco centrale e da lì usciva tutto il vapore che, raccolto in un imbuto rovesciato, collegato ad un tubo a serpentina, raccoglieva la magica pozione, la condensava e la depositava, goccia dopo goccia in un ultimo recipiente. Un procedimento analogo, insomma, a quello per distillare la grappa. Quest'acqua aveva poteri curativi verso quasi tutti i mali, ma particolarmente, verso i disturbi del ventre, la cattiva digestione, il gonfiore. Io avevo paura di Maria e quando passavo in bici davanti alla sua casa, pedalavo forte per non incontrarla. Nessun chierichetto voleva entrare con il prete in casa sua per la benedizione delle case: quella “maga” intimoriva, era, per noi, da evitare (ed era invece una brava persona come tutte le altre in paese. Fu proprio durante la benedizione delle case che mi raccontò come raccoglieva le erbe e preparava l'acqua). Una curiosità sulle date: ma San Giovanni nacque proprio il 24 giugno? Sentite la storia: l'angelo Gabriele portò l'annuncio a Maria e le disse che sarebbe diventata madre di Gesù. In quello stesso momento le annunciò che la sua cugina Elisabetta, ormai vecchia, aspettava un bambino (Giovanni appunto) e “... questo è il sesto mese per lei che tutti dicevano sterile. Nulla è impossibile a Dio!” disse l'angelo! Allora se per tradizione, Gesù nasce nella notte tra il 24 e il 25 dicembre, l'annunciazione ricorre necessariamente, 9 mesi prima, quindi il 25 marzo. Il 25 marzo era dunque, secondo le parole dell'angelo Gabriele, il sesto mese per Elisabetta quindi... Giovanni non poteva che nascere tre mesi dopo, proprio il 24 giugno! Tradizioni, poesie, ricordi belli. Cose che oggi non si usano più, ma io, la mattina del 24 giugno, quando vado in orto, accarezzo la “magica” rugiada della notte di San Giovanni e ricordo, con tenerezza, ogni “prodigiosa pozione” che in quella notte veniva preparata.
Lucio Spagnolo

La pagina della domenica

 


27 giugno 2021

Mc 5,21-43
XIII Domenica nell’anno
di Luciano Manicardi

In quel tempo essendo Gesù passato di nuovo in barca all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: «Chi mi ha toccato?»». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare




Il vangelo odierno presenta Gesù quale narratore della cura che Dio si prende degli umani. Gesù guarisce la donna emorroissa, Gesù ridà la vita alla bambina dodicenne morta. Il lungo testo di Marco è costituito infatti dall’incrociarsi di due racconti, quello di Giairo che va da Gesù a supplicarlo di guarire sua figlia che sta morendo (Mc 5,21-24.35-43) e quello della donna emorroissa che, mentre Gesù si sta recando a casa di Giairo, lo tocca nel suo mantello sperando così di guarire dalle perdite di sangue che da tanto tempo la affliggono (Mc 5,25-34). Di fatto, Gesù, sentendosi toccato in maniera non casuale, non dovuta alla semplice, meccanica e ottusa calca della folla, ma intenzionalmente, sentendosi toccato da un tocco che è un'invocazione, una supplica non verbale ma corporea, una richiesta di aiuto, si ferma e dialoga con la donna. Colpisce il fatto che Gesù intuisca che quel tocco è femminile. Marco scrive che Gesù, sentitosi toccato, “guardava attorno per vedere colei che aveva fatto questo” (Mc 5,32). Gesù discerne la presenza di una donna dietro a quella modalità comunicativa. Di fatto, fermatosi a parlare con la donna, Gesù ritarda il suo cammino verso un caso decisamente più grave, anche perché riguardava non una persona adulta malata cronica, da ben dodici anni, ma una bambina di soli dodici anni. Questo ritardo è fatale? Perché a un certo punto, mentre Gesù stava ancora parlando con quella donna (Mc 5,34), sottolinea Marco, delle persone giungono dalla casa di Giairo annunciandogli che sua figlia è morta e che dunque non è più il caso che disturbi il maestro. L’incrocio dei racconti è in verità anzitutto l’incrocio delle vite, delle esistenze e delle sofferenze, delle storie che spesso sono semplicemente storie delle disgrazie e dei mali di una persona, di una famiglia. Perché le malattie, le disgrazie, i lutti, hanno il potere di orientare le storie personali e famigliari, di dare loro una configurazione onnipervasiva. La vita, dunque, come incontro di sofferenze.

Incontro che tuttavia ha dei connotati molto diversi: l’incontro di un uomo e di una donna. Di un uomo che svolge compiti liturgici durante le celebrazioni alla sinagoga, un uomo che ha una certa importanza (in Mt si parla di un “capo”: Mt 9,18.23). Entrambi, nel loro bisogno, nella loro sofferenza, vanno da Gesù. Unico per entrambi è il bisogno di vita, diverso il linguaggio che ciascuno esprime. Giairo, uomo con funzione sociale e religiosa importante, supplica, parla molto, ma ha anche il coraggio e l’umiltà di inginocchiarsi, di gettarsi a terra davanti a Gesù (Mc 5,22-23). Egli viene portando la situazione disperata di sua figlia che è malata in modo grave, è agli estremi, (in Lc 8,42 la situazione è resa più drammatica dall’annotazione che quella bambina dodicenne era la sua figlia unica), mentre la donna porta la propria sofferenza personale, ma che la accompagna giorno dopo giorno da dodici anni. Si tratta di una situazione che induce una profonda vergogna. Di Giairo colpisce il fatto che cade ai piedi di Gesù, si inginocchia davanti a lui. Certo, il movente è forte - la salute compromessa della figlia - ma ugualmente l’immagine di un uomo, un maschio adulto, che ricopre anche una funzione importante sul piano sociale e religioso, che si inginocchia per pregare e per supplicare, non può non colpire. Spesso avviene, soprattutto nella vita di fede di un uomo, di un maschio, che l’avanzare degli anni porti con sé anche un certo cinismo, un non crederci più di tanto, un pregare sempre meno o un tralasciare del tutto la preghiera. Colpisce molto vedere uomini in età avanzata, anziani, che piegano il loro corpo affaticato e acciaccato in un gesto di adorazione davanti a Dio, si inginocchiano, a volte in modo impacciato e lento, e tuttavia non rinunciano a questa espressione visibile e corporea dell’invisibile che abita nel loro cuore. Uomini che magari hanno costruito la loro vita da protagonisti e che tuttavia si riconoscono debitori davanti a Dio, si inginocchiano, pregano, rendono grazie. Qui, con Giairo, supplicano.

Invece, l’emorroissa parla con il corpo, con il tatto, non dice parola alcuna, se non interiormente, tra sé e sé, per dotare di intenzionalità il suo toccare (Mc 5,27-28). Per avere un po’ di spazio deve rubarlo, muoversi di soppiatto, e toccare il mantello di Gesù “da dietro” (Mc 5,27). Deve il più possibile non essere vista, non essere notata, perché è un’impura, perché le perdite di sangue la collocano socialmente e religiosamente nello spazio dell’impurità. Agli antipodi di Giairo che socialmente e religiosamente è in vista. Ma insomma, ognuno, nel proprio bisogno, va a Dio con il proprio linguaggio, con tutto se stesso, con la verità di se stesso. E supplicare - ciò che fa Giairo - non è solo proferire parole che chiedono aiuto, ma è atto di tutta la persona che si “piega sotto”, si raggomitola all’ombra del Signore, si rifugia in lui cercando relazione e salvezza. Tuttavia è vero solo in parte che la donna non parla. La donna non esterna le sue parole, ma parla interiormente, sa parlare tra sé, sa pensare, sa avere una vita interiore, sa costruire una intenzionalità. “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata” (Mc 5,28). Lei sa bene che se tocca Gesù, o anche solo il suo mantello, lo rende impuro, ma ormai non conosce remore e non esita. E tocca il mantello di Gesù. Nessun feticismo, ma solo la fede, e una possibilità di comunicazione che passa attraverso il corpo. La donna esprime una preghiera corporea. E Gesù guarisce con il suo corpo. Sente una forza che lo abbandona. In questa guarigione il più è stato fatto dalla donna. In certo modo, Gesù ratifica ciò che è avvenuto e conduce la donna allo stato di parola, facendola veramente accedere a pienezza personale. Il testo dice che “essa conobbe grazie al suo corpo … Egli conobbe in se stesso” (Mc 5,29.30): da parte della donna un’intelligenza corporea, da parte di Gesù una percezione interiore. Vediamo dunque il coraggio della donna che, nonostante la sua condizione di "impura", osa toccare Gesù. E questo gesto coraggioso viene letto da Gesù nella verità della sua intenzione profonda: la sete di guarigione e di vita. Vediamo anche il pudore della donna che, colpita da emorragia intima, non domanda e non implora, ma si limita a toccare il mantello di Gesù, diviene linguaggio ascoltato da Gesù che, fonte della vita, guarisce colei che era colpita proprio nella sorgente della vita. Del resto, il toccare è sempre reciproco: mentre tocco, sono toccato da ciò che tocco.

Ma ecco che l’incontro della donna con le emorragie e Gesù porta allo stabilirsi di un contatto inedito anche tra la donna malata da dodici anni e la bambina dodicenne. Il contatto è tale che Gesù chiama la donna thygáter (Mc 5,34), figlia, esattamente come viene definita la bambina di Giairo (thygáter: Mc 5,25). Sembra che siano rese sorelle. La bambina è nata quando l’altra ha cominciato a soffrire di emorragie, dunque a morire alla capacità di generare figli. L’una è colpita nella sua maternità, l’altra, la bambina, entra nell’età in cui potrebbe realizzare la sua femminilità. E se la donna trova vita vedendo fermarsi il flusso di sangue, la bambina, che è nell’età dell’inizio della maturità anche sessuale, troverà vita vedendo riprendere a scorrere in lei quel sangue che è la vita, come ricorda l’Antico Testamento. Ma anche tra Giairo e la donna emorroissa viene stabilito un rapporto intenso e interessante. A Giairo, che ha ormai appreso la notizia della morte della figlia e ricevuto l’invito a non disturbare più il Maestro, Gesù dice di continuare ad avere fede (Mc 5,36); alla donna che ha toccato il suo mantello, Gesù proclama: “La tua fede ti ha salvata” (Mc 5,34). L’impotenza dell’uomo diviene luogo di dispiegamento della potenza di Dio. Giairo chiedeva la guarigione della figlia e deve scontrarsi con la sua morte; la donna chiedeva di essere salvata e Gesù attribuisce la salvezza alla sua fede. Siamo di fronte al misterioso potere dell’impotenza riconosciuta e assunta nella fede. E un cammino analogo e diverso al tempo stesso devono entrambi fare: Giairo e la donna. Gesù opera due azioni di guarigione, ma conduce anche a pienezza di relazione sia la donna che Giairo. Chiedendo “Chi mi ha toccato le mie vesti?”, Gesù porta la donna a vincere il timore che la teneva nel nascondimento e a passare dal gesto alla parola fino a dirsi davanti a lui, anzi, fino a dirgli “tutta la verità” (Mc 5,33). La donna si dice, nasce alla parola dialogica e così entra nella pienezza della vita: da esclusa, emarginata e impura, ora è inserita nello spazio dello scambio e delle relazioni sociali. Nel caso di Giairo, che lo supplicava “molto” (Mc 5,23), e della sua casa in cui molta gente urlava e faceva trambusto, Gesù fa compiere un cammino che dalla parola e dal rumore va al silenzio. Solo nel silenzio si può discernere la verità della situazione: “la bambina non è morta, ma dorme” (Mc 5,39). E il silenzio imposto a tutti, padre compreso, vuole forse lasciare tutto lo spazio alla bambina di crescere, di espandersi, di divenire una donna. Di trovare la sua parola. Non divoratela con le vostre parole, ma entrate nel silenzio e datele da mangiare.


LA FRASE


Benedetto colui che ha imparato:

ad ammirare, ma non invidiare, 

a seguire, ma non imitare, 

a lodare, ma non lusingare, 

a condurre, ma non manipolare.




Quando la casa dei Nonni si chiude



“Uno dei momenti più tristi della nostra vita è quando la porta della casa dei Nonni si chiude per sempre. Una volta chiusa quella porta, non ci saranno più i pomeriggi felici con zii, cugini, nipoti, genitori fratelli e sorelle. Ve lo ricordate? Non era necessario andare al ristorante la domenica. Si andava a casa dei nonni. A Natale la nonna bucava l’ozono con le sue fritture mentre il nonno si dedicava all’arrosto facendo puntualmente bruciare la canna fumaria. La tavola era lunghissima e veniva apparecchiata nella stanza più grande. Adesso la casa è chiusa ed è rimasta soltanto la polvere. 

Un cartello: vendesi. Nessuno la vuole quella casa. È vecchia. Va ristrutturata. Costa troppo. Che ne sapete di quanto vale la casa dei Nonni? La casa dei Nonni non ha un valore. E così passano gli anni. Non ci sono più regali da scartare. Frittate da mangiare. Verdure da pulire. Quando la casa dei nonni si chiude ci ritroviamo adulti senza capire quando abbiamo smesso di essere bambini. Certo, per i Nonni saremo sempre piccoli e indifesi. Sempre. I nonni avevano sempre il caffè pronto. La pasta. Il vino. Le caramelle. Poi finisce tutto. Non ci sono più le canzoni. Non si fa più la pasta fatta in casa. La nonna non friggerà più le patatine e io non potrò più rubarle di nascosto dal forno. Siete andati via troppo presto porca miseria. Io volevo fare la salsa ancora una volta. Il mirto. Le chiacchiere... Io volevo ancora accatastare la legna con te Nonno, anzi grazie per avermelo insegnato. E grazie per gli insegnamenti sulla vita. Ora quando passo guardo quella casa e mi viene sempre l’abitudine di parcheggiare. E di buttare giù il campanello. E di sentire la nonna gridare che porca miseria non sono modi quelli. Scusa Nonna. Non suonerò più il campanello. Al massimo, quando mi capiterà di pensarvi di nuovo, come ora, canterò una canzone. 

Quella preferita dal Nonno. 

Un amore così grande.

Un nipote

Antonio Cotardo

2 risate



































 

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...