venerdì 2 aprile 2021

Il venerdì santo di un tempo che fu...




Il Venerdì Santo e la "procession dei lumini".                                 

C'era un giorno nell'anno, in cui noi bambini speravamo e pregavamo che il tempo fosse mite, che non piovesse: era il venerdì santo. Sì, perché in quella sera, ai nostri occhi, il paese si sarebbe tinto di magia, avrebbe avuto il suo paesaggio da fiaba. Mille e mille luci si accendevano, quella sera,  sul ciglio del marciapiede: luci di fioche candele, ad illuminare il percorso della processione, che dalla chiesa, traversando l'intero centro abitato, avrebbe raggiunto la grande croce di ferro, che apriva le sue braccia al limitare dei prati e dei campi coltivati, dopo tutte le case.

E su ogni finestra, ad ogni porta, quei lumini, vasetti di trasparente carta colorata, gialli e verdi, rossi, bianchi e blu riflettevano la luce  delle candele che proteggevano al loro interno, proiettando ombre sinistre, o più familiari, sui muri delle case vicine, sulle pareti scrostate delle stalle e dei fienili, perché Cristo, che quel giorno si era volutamente lasciato uccidere per la salvezza del mondo, potesse passare, tra quei bagliori vicino ai cuori della gente.

Nessuno mancava alla cerimonia religiosa del venerdì santo; le campane non potevano suonare, e non avevano suonato, ma la “snàtara” (una cassa armonica di legno dentro la quale giravano rulli di legno che emettevano un rumore sordo)  secondo la tradizione di sapore ancora medievale, aveva chiamato a sera, nelle chiese buie, col suo viscerale  frastuono vecchi e bambini, giovani uomini e donne; tutti in chiesa in quella sera di silenzio e di lutto. La “snàtara” non parlava da un anno: era stata conservata nella sagrestia perché annunciasse, col suo suono cupo, la morte di Gesù solo nelle sere della Passione, dal giovedì al sabato santo.

Scrive Mario Rigoni Stern: “Il giorno del venerdì santo non si poteva arare, vangare l'orto, raccogliere, tagliare alberi, perché anche la terra era in sofferenza per quella morte. Persino le allodole in cielo, i tordi nei boschi e i passeri nei cortili, stavano zitti. Come pure le campane”. 

Ed era davvero così; solo la voce del prete, avvolto dal suo piviale nero con le ampie bordature viola e oro, poteva rompere il silenzio recitando, per le vie del paese, lo “Stabat Mater”, preghiera propria di quel rito, alla quale ognuno rispondeva cantando sommessamente: “Santa Madre deh! Voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore”.

Ma per noi bambini era comunque festa: luci, sfavillii, ombre colorate e, qua e là, talvolta le fiammelle, più alte e vigorose, di un vasetto di carta che la candela che conteneva aveva incendiato.

E quando un refolo di vento spostava un lume, quando lo capovolgeva, noi, prontissimi, rimettevamo ogni cosa al suo posto perché la coreografia di quel rituale fosse perfetta, come l'anno precedente, come dieci o cento anni prima.

Al termine della processione i ragazzi non guardavano furtivamente le ragazze, come si faceva alla messa della domenica o al termine del fioretto di maggio; quella sera non si poteva: subito, tutti a casa. Niente osterie per gli uomini, niente radio o televisione, solo lutto quasi familiare, e  rispetto per un Uomo crocifisso che sentivamo come nostro salvatore.

Oggi è nostalgia e tenerezza  per quei Venerdì di passione di tanti anni fa, per  quei ricordi ancora vivi e presenti. Dopo tanti anni ancora sento, ogni venerdì santo, lo “Stabat Mater” e la voce possente del prete, tra case del paese, colorate dai bagliori dei lumi di carta, alla quale vorrei poter rispondere anche oggi, cantando... sottovoce.

Lucio Spagnolo

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