martedì 30 marzo 2021

TASI et IMU, ... l'héritage de Napoléon

【Gianni Spagnolo © 21C25】

Fra il maggio e il settembre del 1812, quando i geometri Sovico e Albertoni, operarono dalle nostre parti, non furono probabilmente accolti in pompa magna. Erano incaricati nientepopodimenoche da Napoleone Bonaparte Imperatore di mappare il territorio del comune e farne il censimento catastale. Comune di Rotzo, Cantone e Distretto di Asiago, Dipartimento del Bacchiglione: erano queste le nostre nuove coordinate. L’intento era ovviamente quello di usarlo poi come base per le imposte, che la subentrante amministrazione foresta aveva evidentemente intenzione di gestire in modo differente da quanto fatto dalla Serenissima. 

Il Veneto Dominio s’era infatti eclissato già una dozzina d’anni prima, dopo aver garantito per secoli privilegi ed esenzioni fiscali alla nostra gente. Le uniche cataste che conoscevano i Nostri erano perciò i mucchi delle bóre accatastate in montagna o lungo l'Astico, che peraltro da noi si chiamavano tassùni, che sì, avevano pur essi un'omofonia con le tasse, ma di schéi ne portavano, invece di cibuscàrli. Catasto dovette sembrare perciò un parolone foresto che inpienàva la boca, affine alla bestemmia.  

I solerti agrimensori non si persero comunque d’animo e s'apprestarono a catalogare ogni appezzamento di terreno ed ogni casa secondo i moderni protocolli e le direttive ricevute da cotanto Imperatore. Il comune di Rotzo dovette mettere a loro disposizione delle persone che conoscessero bene il territorio e che li assistessero nelle rilevazioni e così affiancò loro gli indicatori comunali: Gio:Mattio Stefani, Gio:Battista Caldiraro e Cristiano Spagnolo, tutti di Rotzo e ciauscanti, ma comunque in grado di leggere, scrivere e interloquire con quei tecnici foresti. 

Il territorio paesano fu suddiviso grossomodo in fette che andavano dalla Val della Torra a quella di Rigoloso e che furono identificate come segue:

1. Pian della Torra;

2. Costalonga;

3. Costa;

4. Delle Rive;

5. Del Rovere o Lucca;

6. Nogara Sagliega o Parsoli;

7. Isole;

8. Aretta o Tagliara;

9. Dal Brolo;

10. Vegre;

11. Costa;

12. Pralungo;

13. De Masi;

14. Pisacqua;

15. Maso;

16. Cerati.

Per ognuna delle particelle fondiarie o immobiliari ricadenti nelle varie zone  era poi indicato la natura del terreno (zappativo, arativo, riva in costa, ronco, novale, ecc.) o dell’abitazione, la sua estensione e il nome del proprietario. La maggior parte dei toponimi sono facilmente riconoscibili, salvo forse il 6), che dovrebbe corrispondere all’attuale zona delle Scuole/Casetta Pro Loco; il 7) forse riferito ai Pré de l'Astego; il 9) che non saprei individuare; e il 13/15 che potrebbero riferirsi ai Rìghele e al Poéjo.

Lasciamo dunque i più duri da gratare a scervellarsi per individuare il posto della Nogara Sagliega, della Tajara*, del Brolo** e degli altri siti, ruscando fra i file del loro vecchio floppy dagli ormai radi peli. 

Agli amici emigrati in Francia, che si lamentano delle tasse che gravano sulle seconde case al paesello, è doveroso precisare che è tutta colpa di Napoleone, parvia che se lora nol ghésse tenpelà la Serenissima, desso noi pagaria proprio on casso***, conpagno de stiàni. ;-))

* In veneto significa tiglio. ** In veneto significa orto cintato. *** In veneto significa pezzo di casa.







Il capitello dei Cerati


 (J. S.)

domenica 28 marzo 2021

Combattenti col pennino

Archivio F. Lorenzi

【Gianni Spagnolo © 21C15】

Ecco qua che Tita, classe 1908, lo scolaro che ci mostra orgoglioso il suo diploma, raggiunge la maturità al quarto anno di istruzione elementare, ottemperando così all’obbligo di legge.

L’anno del conseguimento, il 1919, è particolarmente evocativo. L’Italia è appena uscita vincitrice dalla Prima Guerra Mondiale, ma Tita le sue scuole le dovette fare da profugo fra Barbarano e Castegnero. Sfollato a sette anni con la famiglia, proiettato in un contesto del tutto nuovo, precario e foresto. Torna in paese a dieci anni e lo trova devastato e tutto da ricostruire. Il primo inverno lo passa nei ricoveri rappezzati alla bell’e meglio con i tavolati delle baracche austriache. Quello fu anche fra gli inverni più rigidi della nostra storia recente; in più imperversava l'epidemia di influenza Spagnola, che di morti, fra la popolazione civile prostrata, ne faceva più della guerra. Certamente nulla al confronto dei disagi che devono subire oggi gli scolari alle prese con la DAD e tutte le privazioni psicologiche ed emozionali del lockdown. Mentre sulle montagne di casa i nostri combattevano portando alta la penna per la grandezza della Patria, Tita, nel suo piccolo, aveva combattuto col pennino e anche lui aveva raggiunto la sua piccola vittoria. Eh si, ciò. Ancamassa!

Fino al 1860, in Italia non c’era l’obbligo scolastico, che venne introdotto proprio quell’anno con la Legge Casati. In quel periodo l’istruzione elementare divenne gratuita, ma obbligatoria solamente per i primi due anni su i quattro totali. Tali scuole erano però presenti solo nei borghi con più di quattromila abitanti  o sedi di istituti di istruzione secondaria. Quest’ultima esisteva in tutti i capoluoghi di provincia e comprendeva l’istruzione secondaria classica e quella tecnica. Si poteva accedere all’università solamente completando il ciclo d’istruzione classica.

Bisognò attendere il 1877 per veder promulgata la Legge Coppino, che portò l’istruzione elementare da 4 anni a 5 e l’obbligo scolastico a tre anni. Fu questa una direttiva che contribuì grandemente ad innalzare il tasso di alfabetizzazione nazionale. Nel 1904 la Legge Orlando estese l’obbligo scolastico fino ai 12 anni ed obbligò i comuni ad istituire istituti elementari almeno fino alla quarta classe. La legge Daneo-Credaro del 1911 portò alla statalizzazione delle scuole elementari, fino a quel momento gestite dai comuni, seguita infine nel 1923 dalla riforma Gentile. 

Il Veneto però entrò a far parte del Regno d’Italia solo nel 1866, mentre prima, come Regno Lombardo-Veneto soggetto alla Corona d’Austria, si trovava in una situazione migliore, almeno dal profilo dell’istruzione obbligatoria. Il regolamento austriaco, già  dal 1818, delineava infatti l'istruzione offerta da tre tipi di scuole, con l'istruzione elementare obbligatoria dai sei ai dodici anni: le scuole elementari minori (due anni, a carico delle casse comunali); le scuole elementari maggiori (tre anni per le femmine, quattro per i maschi, a carico dell'erario) e infine le scuole elementari tecniche (attivate non prima di dieci anni, destinate ai maschi e a carico dell'erario).




La pagina della domenica

 

In quel tempo, quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: «Perché fate questo?», rispondete: «Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito»». Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano:

«Osanna!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Osanna nel più alto dei cieli!».

Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània.




Con la domenica delle Palme entriamo nella settimana santa in cui seguiremo il cammino di Gesù passo dopo passo e giorno dopo giorno. Seguiremo il cammino che condurrà Gesù alla passione, morte e resurrezione. E l'invito che viene a tutti noi e a tutta la chiesa è a volgere lo sguardo, la mente, il cuore a Gesù e al suo cammino. Un detto rabbinico afferma che "un uomo impara in base alle vie che percorre". Il discepolato cristiano esige che si impari dalle vie che percorre Gesù, ed esige che si sappiano misurare le proprie vie sulle vie percorse da Gesù. La settimana santa è questo cammino che può orientare nuovamente i nostri cammini personali ed ecclesiali. Così questa santa settimana, proponendoci il cammino di verità e di sofferenza di Gesù, può aiutarci a fare anche noi un cammino di verità, quella verità fuori della quale vi è solo inganno, e anche un cammino di sofferenza, perché la verità emerge in noi solo con sofferenza, come in un parto.

In particolare, la pagina evangelica odierna ci presenta il cammino di Gesù verso Gerusalemme. Un aspetto di tale cammino è che si tratta di un cammino non solo povero, ma disarmato. Dietro alle notazioni evangeliche sulla cavalcatura povera e mite scelta da Gesù si profila l’immagine del messia descritto da Zaccaria come mite e umile (Zc 9,9-10), messia disarmato che, in virtù di tale inermità, potrà anche disarmare il suo popolo. Certo, un re disarmato, è un paradosso, è un re che si è disarmato, da armato e dotato di esercito quale era. Ovvero, può convincere altri dell'efficacia dell'inermità solo chi vive l'inermità sulla sua pelle. Sappiamo come le nostre relazioni siano attraversate da violenza multiforme e plurima. Le forme della violenza possono essere rozze e grossolane, ma più spesso sono sottili, dissimulate. Ma chiediamoci: quando c’è violenza? È violenta ogni azione in cui si agisce come se si fosse soli ad agire: come se gli altri, il resto dell'universo, o semplicemente, il resto della famiglia, il resto della comunità fosse là soltanto per ricevere l'azione. Se questa è la violenza capiamo che non occorre alzare le mani o la voce per essere violenti. La violenza, in radice, è una assolutizzazione dell'io. Seguire il cammino di Cristo significa imparare il cammino della mitezza, ovvero dell'essere più forti della propria forza, accettando di mettere limiti a se stessi per accogliere e fare spazio ad altri, agendo avendo di mira, responsabilmente, le conseguenze che la propria azione può avere su altri. E sapendo dunque dirsi anche dei no.

Nella pagina evangelica il cammino di Gesù è espresso solo nella seconda parte, mentre la prima è occupata dall'indugiare del narratore su ciò che Gesù ha detto ai discepoli circa il loro entrare in un villaggio, il prendere una cavalcatura e poi l'effettivo svolgersi delle cose. Sette degli undici versetti del testo sono occupati dalla descrizione di questi dettagli che ci possono apparire poco significativi. E non basta dire che qui appare la capacità profetica di Gesù, la sua autorità, quasi la sua chiaroveggenza. Si tratta di azioni e situazioni molto normali che non esigono nulla di straordinario. Ma forse ci dicono altro. Gesù sente e sa vicina la sua fine, la sua morte. Il suo cammino va verso la morte. E quando il futuro si assottiglia o svanisce, il dettaglio acquista importanza. Quando non si può più guardare troppo avanti si comincia a guardare meglio ciò che è vicino, prossimo, immediato. Così l'atteggiamento di Gesù ci insegna ad accordare importanza alle piccole cose, sapendo che è esattamente in queste piccole cose che viviamo i nostri grandi valori,

viviamo il vangelo, viviamo l'amore. Certo, quando non si guarda che il piccolo, il dettaglio, e lo si rende enorme, allora la vita diviene una prigione e la si rende tale per coloro che vivono con noi; quando si accorda peso spropositato a dettagli insignificanti normalmente per lamentarsene, allora si sta semplicemente dichiarando la propria piccola qualità umana, la propria totale estraneità alla makrothymía; ma quando si guardano i dettagli perché si ha cura degli altri, perché si prevede ciò che gli altri possono incontrare sul loro cammino, quando cioè è l'amore che presiede a questo sguardo e lo guida, allora questo sguardo è vitale. In realtà, in questo testo noi possiamo vedere il cammino di chi prevede ciò che avverrà non perché è un indovino, ma semplicemente perché è responsabile. Vi è uno sguardo che vede le cose piccole perché è piccolo esso stesso, perché è sguardo di persone piccole, meschine; vi è uno sguardo che vede le cose piccole perché nella logica dell'amore nulla è piccolo ma tutto è importante.

L'atteggiamento di Gesù in questo cammino emblematico verso Gerusalemme è un cammino di mitezza e non di arroganza, di dolcezza e non di pretesa. Gesù promette di restituire subito la cavalcatura su cui intende entrare in Gerusalemme, non se ne appropria, non la requisisce. Il testo sottolinea la povertà di Gesù, il suo essere un paradossale signore: signore che ha bisogno di un asino, se lo fa portare, ma promette di restituirlo subito. Gesù dispone gli eventi perché alla luce delle Scritture emerga la qualità messianica del cammino verso Gerusalemme: l’asino è la cavalcatura del Messia povero e mite di Zc 9,9; è l’asino “legato” di cui aveva parlato Giacobbe morente a suo figlio Giuda benedicendolo nella profezia messianica di Gen 49,10-11; il corteo che accompagnerà questo ingresso mostra tratti regali, come appare dai mantelli stesi sulla strada e dalle parole di ovazione (cf. 2Re 9,13). E tuttavia la concezione messianica che Gesù vive è molto distante da quella che viene intesa dalla folla, come appare dalle parole del salmo 118 utilizzate dai presenti per acclamare re Gesù (cf. Sal 118,25-26 in Mc 11,9-10) e da quelle, tratte dallo stesso salmo, che Gesù userà per rivelare il rigetto del Figlio da parte dei vignaioli, cioè il rigetto dell’inviato di Dio da parte dei capi d’Israele, insomma, per annunciare l’evento pasquale:

La pietra che i costruttori hanno scartata
è diventata testata d’angolo;
dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri (Sal 118,22-23 in Mc 12,10-11).

Dunque, Gesù, insieme ai discepoli, giunge in prossimità di Gerusalemme (è solo con il v. 11, non compreso nella pericope liturgica, che Gesù entra in Gerusalemme e nel Tempio). Gesù sa ciò che questo significa. L'ha appena detto ai discepoli: "Noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo uccideranno" (10,33). Giunto a questa soglia, che non è solo il limitare di una città, ma anche il confine di una vita, Gesù dà responsabilità ai suoi discepoli e ne manda avanti due, di cui non si riporta il nome. E dà loro istruzioni. Gesù prevede, ha cura e sollecitudine per coloro che invia davanti a sé e di cui sente la responsabilità. La prospettiva della morte verso cui sta avanzando non lo distoglie dal pensiero di coloro che camminano con lui. Gesù non è distolto da sue preoccupazioni, non cade preda di situazioni in cui non è più il padrone di se stesso, ma resta responsabile, attento e preoccupato delle persone che il Signore gli ha affidato. Nemmeno una situazione così critica come questo avvicinamento a Gerusalemme lo porta allo smarrimento, alla perdita del controllo, e soprattutto alla perdita della responsabilità. Gesù si conserva responsabile e vicino ai suoi discepoli non mancando di dare loro parole, insegnamenti, indirizzo, esempio.

Ed ecco che, salito sulla cavalcatura, Gesù compie il suo percorso in mezzo a una folla numerosa che lo acclama. "Osanna". Questa invocazione, che letteralmente significa “Signore, salva!”, diviene formula stereotipa che non invoca ma celebra, non supplica ma manifesta una certezza, non chiede ma presume. Mentre invochiamo salvezza già presumiamo salvezza. Mentre dichiariamo di attendere il Signore, ne addomestichiamo la figura perché ci confermi nelle nostre attese. E così il testo vaglia il possibile traviamento delle nostre ermeneutiche esistenziali, ecclesiali

e storiche di Gesù e del suo cammino. Il cammino di Gesù non è solo sottoposto al rischio dell’incomprensione, ma anche della cattiva comprensione, dell’interpretazione interessata, che non scomoda, non mette in crisi, ma conferma. Certamente la folla non percepisce il senso profondo di ciò che dice, grida e acclama. Vi è come una schizofrenia, una scissione tra ciò che viene proclamato e ciò che viene compreso. La schizofrenia si rende manifesta nel fatto che le folle che qui osannano Gesù, saranno le stesse che ne invocheranno la crocifissione. Ma ancora: la folla grida davanti a Gesù, "Benedetto il Regno che viene, del nostro padre David". Gesù ha sempre annunciato il Regno di Dio, non di David. Viene proiettato su Gesù ciò che queste persone hanno in se stesse: l'immagine politico-nazionalista del regno messianico. L'altro resta un oggetto, lo schermo su cui viene proiettato ciò che un altro crede, sente o pensa. E anche questo è uno dei tanti meccanismi di violenza che accompagnano il quotidiano di tante relazioni: l'incapacità o la non-volontà di comprendere l'altro. E allora lo si riduce alle proprie misure. Siamo sempre a quella radice della violenza che è l'assolutizzazione del proprio "io".


LA FRASE


"Dicono che prima di entrare in mare

Il fiume trema di paura.

A guardare indietro

tutto il cammino che ha percorso,

i vertici, le montagne,

il lungo e tortuoso cammino

che ha aperto attraverso giungle e villaggi.

E vede di fronte a sé un oceano così grande

che a entrare in lui può solo

sparire per sempre.

Ma non c’è altro modo.

Il fiume non può tornare indietro.

Nessuno può tornare indietro.

Tornare indietro è impossibile nell’esistenza.

Il fiume deve accettare la sua natura

e entrare nell’oceano.

Solo entrando nell’oceano

la paura diminuirà,

perché solo allora il fiume saprà

che non si tratta di scomparire nell’oceano

ma di diventare oceano".


Khalil Gibran



MIX - di tutto un po'...

La folla solitaria. 

Dopo la pandemia ci accorgeremo che la società è finita


Carlo Bordoni nel suo “L’intimità pubblica” (La Nave di Teseo) fa i conti con la triste “de-socializzazione” in cui siamo piombati


Spero di non aver frainteso le parole del sociologo Carlo Bordoni che usa questa espressione nel suo “L’intimità pubblica” uscito con la Nave di Teseo, però mi sembra che la triste “de-socializzazione” in cui siamo piombati con la pandemia prometta un futuro orribile, più misero, più arido, più desolante.

La fine della società avvizzisce emozioni e conoscenze. La religione del distanziamento, destinata a depositarsi nel fondo dei nostri automatismi, rende sospetto il calore del contatto, della contiguità, della vicinanza. Gli uffici svuotati mortificano la creatività nel lavoro che si alimenta di tempi morti, di sguardi, di scambi, di intese, di ironia, di chiacchiere anche: lo smart-working razionalizza forse le catene produttive, ma mortifica idee, intuizioni, fraseggi tra i colleghi, come quelli che si realizzano con il pallone in un campo di calcio. La scuola distanziata forse fa andare avanti nei programmi, ma azzera tutto l’intorno sociale, amicale, sentimentale che fa ricordo e che nella vita adulta viene custodito come esperienza preziosa.

Ecco, la “de-socializzazione” individuata da Bordoni come tratto costitutivo della nostra epoca, svuota l’esperienza sociale come orizzonte che trascenda il mero valore d’uso delle cose che si fanno. Andare allo stadio con gente che si affolla non è solo guardare una partita: è esperienza sociale. Andare al cinema non è solo vedere un film, è esperienza sociale. Andare al ristorante non è solo mangiare, è esperienza sociale. Andare a scuola non è solo apprendere una lezione, è esperienza sociale. “Società” è imparare più cose di quelle che servono a uno scopo pratico. La sua fine è tristezza infinita, perché la vita è un equilibrio di sociale e di privato, di socializzazione e di solitudine. E se la società finisce, anche la solitudine rischia di perdere la sua bellezza.

Pierluigi Battista HP

L'angolo della Poesia

 




(J.S.)


Ė difficile anche il risveglio 

se il nuovo giorno è la replica di ieri,
le mansioni fanno il girotondo 
nel cerchio che non si ferma mai.
Invidio i panni stesi al sole 
cosi liberi di sventolare, 
sentire addosso il vento 
e i piccoli brividi di freddo.
Invidio la nuvola nera 
che può liberarsi dell'angoscia
quando vuole 
e tutto sembrerà normale
mentre io fingerò di stare bene.

Francesca Stassi


La figlia Anna Maria desidera informare la Comunitá di Lastebasse

 

Lastebasse/Segrate

SNOOPY


sabato 27 marzo 2021

Un sentito appello

La foto di nonno Giovanni e nonna Teresa con mio padre bambino è stata scattata nel 1942. Nella seconda mio nonno è l'uomo in centro, mentre nella terza sta leggendo il giornale durante una pausa dal lavoro. Nell'ultima mia zia Giovanna Toldo, la figlia nata dieci giorni dopo la sua morte.






Buongiorno a tutti i lettori del blog.

Innanzitutto ringrazio di cuore Carla e Gianni che mi danno la possibilità di fare il seguente appello.           

In breve, sto cercando notizie su mio nonno paterno, Giovanni Toldo "Godi", e di  persone che potrebbero aver lavorato al suo fianco in Albania (a Tirana) o averne sentito parlare, anche indirettamente, a vario titolo.

Mio nonno era nato il 4 settembre 1910 a San Pietro Valdastico, nella casa in via S. Barbara (di fronte al Capitello di San Marco), da Toldo Giuseppe e Toldo Augusta. Si sposò nel 1938 con Fontana Teresa "Traca" di Valpegara. L'anno successivo, nella stessa abitazione, nacque il primo figlio: mio padre Antonio. Una lettera inviata dal nonno alla famiglia documenta il suo impiego come carpentiere in quell'anno a San Didero (TO).

Con l'occupazione dell'Albania da parte dell'Italia, molti nostri operai furono, però, inviati temporaneamente in quel Paese. Tra questi, mio nonno, che partì per lavorare - sempre come carpentiere - alla costruzione della "Casa del Fascio" (oggi Politecnico Universitario della capitale albanese). La sua prima lettera da Tirana in nostro possesso porta la data del 6 aprile 1941.

L'anno successivo ritornò a Valdastico e poté riabbracciare i suoi cari. Di quel breve periodo mio padre ricordava con commozione di essere stato accompagnato da mio nonno alla Basilica di Sant'Antonio a Padova, dove ricevette in dono un giocattolo in legno: piccole oche su rotelle che conserviamo tuttora.

Alla fine del 1942 il nonno dovette tornare a Tirana: la famiglia stava crescendo e la povertà pure. Qui, purtroppo, lo attendeva un terribile destino: un brutto incidente sul lavoro presso la  'Società Forbeton' lo costrinse al ricovero all'Ospedale "Bruno Mussolini" di Tirana. Le sue ultime strazianti lettere testimoniano il graduale peggioramento delle sue condizioni, che lo portarono a morire nel primo pomeriggio del 26 febbraio 1943. Dopo soli dieci giorni, a Valdastico, sarebbe nata sua figlia, mia zia, alla quale venne dato il nome del padre.

A causa della Seconda guerra mondiale in pieno corso e dei successivi travagli interni all'Albania, le sue spoglie non fecero più ritorno in patria. Al cimitero di San Pietro Valdastico, sulla lapide della tomba in cui riposa la sua famiglia (tra cui suo figlio, il mio caro papà) è stata amorevolmente affissa anche la sua foto, ma il nonno di fatto non riposa lì.

Da qui il mio bisogno di ricerca, che si muove su più canali, tra i quali questo utile blog tanto seguito. 

Per cortesia, chiunque avesse informazioni al riguardo, anche indirette, mi contatti all'indirizzo: paola.toldo@virgilio.it o su Facebook (Paola Toldo Slaviero).

Grazie

Paola

Questa sì che si chiama passione... anche se non votano, hanno sempre il massimo delle sue attenzioni😊😊😊


 

SNOOPY


 

giovedì 25 marzo 2021

I video di Gino Sartori - l'anello del contrabbandiere

 



Note: 

Percorso ad anello che si svolge nei comuni di Valdastico e Pedemonte e che offre alcuni impagabili scorci sulla Valle dell’Astico vista da punti diversi.
Ringrazio Flores Munari per i clip video e Gianni Spagnolo per la parte scritta.
Si consiglia di percorrere questo sentiero accompagnati da persone del luogo che li frequentano o da apposite Guide.

M'illumino di meno


 

Dal boschetto di Alago... il codibugnolo

 


SNOOPY


 

martedì 23 marzo 2021

Dispetti e Sospetti

GdVI - 3/5/1991 - Archivio F. Lorenzi

【Gianni Spagnolo © 21III11】

Si sta avvicinando anche per noi moderni un appuntamento che faceva bacilare on pasto i nostri paesani d’antan: la note dele Palme.
Eh si, ciò, ancamassa! 
Perché la Notte delle Palme era la notte dei dispetti: il momento deputato a creare disagi ai paesani. Non si sa da dove arrivi questa tradizione, che in zona sembra specifica di San Pietro, ma pare documentata anche nel Trevigiano. Si trattava di scherzi abbastanza innocenti, fatti per prendere in giro o creare disagi alle persone che più se la tiravano in un modo o nell’altro. I dispetti si risolvevano alla fine con il ritorno delle cose al pristino stato, senza danni materiali, salvo all’autostima dei destinatari. O almeno così doveva essere.
Coloro che possedevano qualcosa di particolare di cui si vantavano, gli antipatici cronici, chi doveva purgare qualche torto fatto ai giovanotti del paese, chi era nato per esser preso di berta, chi se la tirava troppo, i tirchi patentati, gli insofferenti di tutto, le Autorità, ecc.; queste erano tutte categorie che quella notte era consigliabile dormissero con un occhio solo, perché sarebbero state prese sicuramente di mira.
Progettare questi scherzi era compito dei giovanotti del paese e rappresentava sostanzialmente il risveglio dal lungo letargo invernale. Ogni anno bisognava cambiare modalità e obiettivi, ma lo scopo era sempre lo stesso: far bacilar la jente la matina drìo. L’altro imperativo era di non essere mai scoperti. Tuti sìti, negare sempre!
Vediamo un po’, andando a ricordo mio e di qualche paesano ancor pì duro da gratàre, in cosa consistevano questi scherzi:
1. Scanbiare le galine intei punari;
2. Portar via el cagaòro e scòndarlo;
3. Menar via el barosso dala corte e portarlo su par la Singéla;
4. Ligare i batoci dele canpane;
5. Cavare e scóndare i batoci dele canpane;
6. Piturare de calce i muli;
7. Incolorire el cavalo a strissie bianchenere;
8. Incolorire i vìri del motocaro;
9. Robàr le sécie e méterle in fila sora la fontana dela piassa;
10. Cavare i balcuni dai pòlese e scundàrli in volta; 
11. Cavare le porte dei cessi e scóndarle in volta; 
12. Meter fiora el fioco rosa in fioreria da una che speta on toso e ga ancor da conprare; 
13. Cavarghe le rue al Fiorino e méterlo sora i blochi; 
14. Metere le bonbole de gas de Catinòn sora el coverto;
15. Scòndare in volta le scale dela téda;
16. Scóndare in volta: cariole, caretéi, brenti, séce e vasi de fiuri;
17. Canbiarghe de posto ale panchine;
18. Piturarghe le statue a Spingi;
19. Tajarghe le ponte ale piante del sindaco;
20. Farghe sparire l’ulivo al prete;
21. Meterghe rento le fassine sule manéte dela porta dei Carbinjiri;
22. Cavare e scondere el cancelo dela caserma dei Carbinjiri;
23. Portare i vedei de uno intela stala de naltro;
Altri ancora ne verranno senz’altro in mente ai lettori pensandoci un po’ su.

La mattina della Palme, il paese era così pervaso da un'insolita  frenesia, con gente vestita da festa e pronta a nar messa che la ghéa da strolicare on pasto in volta pal paese a rancurare la roba chei ghe ghéa sconto la note. La cosa, inoltre, doveva svolgersi possibilmente con discrezione, par no far la figura da mona e darghe sodisfassiòn a cuj sbregamandati. I quali sbregamandati erano ben vigili per sganassare alle loro spalle. I più previdenti, immaginando le asportazioni più consuete, si cautelavano legando i balcuni, metendo sotto chiave carióle, sece e brenti, inciavando le stale, tirando le scale in teda, tirando rento le sigàgnole e così via. 
Un paio di questi episodi balzarono all’onor delle cronache un trentina d’anni fa, quando le pubblicò perfino il quotidiano locale, evidentemente a corto di argomenti o per le consuete piaggerie alle Autorità. Vabbe’, li forse c’era di mezzo la politica, che di solito non era contemplata. Memorabile fu invece la vicenda del vitello, che sfociò addirittura in un processo del quale diamo cronaca nel trafiletto di apertura, pubblicato sul GdVi del 5 maggio 1991.
In quel caso i protagonisti non erano proprio degli imberbi giovanotti, ma omini fati, che però  si dimenticarono la regola d’oro di questi scherzi, ossia d’inviare la consueta letterina anonima che permetteva di recuperare il maltolto qualora la cosa non si fosse risolta in giornata, come successe col cancello della Benemerita. Nossesamai! 
La più esilarante rimane quella che coinvolse il vecio Struca, uomo indisponente e dal braccino corto e pertanto bersaglio conclamato. Questi, subodorando che potessero portargli via il suo bel cesso esterno, pensò bene di chiudersi dentro quella notte a vigilare. Il risultato fu che dei baldi giovani arrivarono, legarono ben fisso il cagaóro a due branchi e lo portarono in campagna intero col Struca rento chel sbecàva fa un mato e dovette essere liberato l’indomani.

Qualcuno avanzò l’ipotesi che questi scherzi venissero fatti proprio la notte della Palme perché, con la Settimana Santa entrante, ci sarebbero stati diversi confessori straordinari foresti dai quali confessarsi, avendo con ciò l’assoluta certezza che il Reverendo Signor Parroco titolare non lo venisse mai a sapere, pena l'anatema. Sempre che questa contrizione dell’anima fosse avvertita dagli autori dei dispetti, cosa tutt’altro che scontata. 
Non credo che quest'anno ci sia da temere che il paese si svegli con le preoccupazioni di un tempo. Quella verve ormai non c'è più: sparita! Come tante altre cose e non solo per colpa del Covid.
In ogni caso, meglio vigilare. Nosessamai!




Chi si riconosce?


 (foto da Graziella Toldo)


01 -
02 -
03 - 
04 - 
05 - 
06 - 
07 - 
08 - 
09 - 
10 - Olimpia Slaviero (?)
11 - 
12 - 
13 - 
14 - 
15 - 
16 - Graziella Toldo
17 - 
18 - 

Dal boschetto di Alago... femmina di codirosso

 


SNOOPY


 

domenica 21 marzo 2021

Simpatica iniziativa




 

La pagina della domenica



In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!».

La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.




La V domenica di Quaresima ci avvicina alla settimana santa e fa volgere i nostri sguardi a Gesù che offre la sua vita. Questa offerta, dice la seconda lettura (Eb 5,7-9), avviene mediante grida e lacrime, cioè attraverso la sofferenza esistenziale assunta come luogo di apprendimento e di obbedienza. Di questa offerta, dice il vangelo, Gesù intravede il momento iniziale quando alcuni pagani lo cercano. Obbedendo a quella ricerca da lui interpretata come espressione del volere divino, egli si dispone al dono della sua vita. È la vita di Gesù che compie la Scrittura, non un'altra scrittura, non un commento alla Scrittura: l'unico scritto di quel Gesù che non ha scritto nulla è la sua vita e, in continuità con la sua vita, anche la sua morte. La croce è lo scritto di Gesù. Altri scriveranno di lui delle narrazioni. Se Gesù ha imparato dalle Scritture, cioè le ha ascoltate e obbedite, egli ha anche imparato dalla vita, e particolarmente, dice la lettera agli Ebrei, da ciò che ha patito e sofferto. Questa è la pazienza di Cristo di cui parla 2Ts 3,5 ("Il Signore guidi i vostri cuori verso l'amore di Dio e la pazienza di Cristo"). Questa pazienza non è il mero soffrire, ma l'imparare dalle sofferenze, unica maniera per non vivere in rivolta o nel lamento, e per fare qualcosa di quella sofferenza che è una dimensione costitutiva del vivere. Cogliere, certo, nella misura del possibile, ma spesso è possibile, la sofferenza come occasione per imparare qualcosa su di noi e sulla realtà: così la sofferenza può edificarci e non distruggerci. E Gesù impara anche dagli altri, e da degli sconosciuti come gli "alcuni greci" che a Gerusalemme si rivolgono ai suoi discepoli per poterlo incontrare. Anche il loro desiderio diviene per Gesù qualcosa da cui imparare. Imparare qualcosa che segna la sua vita e la indirizza verso la morte. L'attitudine spirituale dell'ascolto e dell'obbedienza, così essenziali nella vita spirituale cristiana, sono volti a imparare, ad apprendere, a fare di noi dei discepoli, ma mentre ci fanno discepoli e bisognosi di apprendimento, ci fanno anche coscienti di essere ignoranti, mancanti, bisognosi. Chi è troppo sicuro di sé, non sente il bisogno di ascoltare e di imparare. Se Gesù è maestro, è perché ha imparato, e, come ci dicono le letture odierne, ha imparato dalle Scritture, ha imparato dalla vita, ha imparato dagli altri. Ovvero, cogliendo la parola di Dio nelle Scritture, nella vita, negli altri. Dunque il messaggio delle letture è più che mai cristocentrico.

Il testo evangelico inizia con l'annotazione che alcuni greci erano venuti a Gerusalemme per il culto durante la festa. Poco importa che fossero ebrei della diaspora o pagani convertiti, ciò che interessa è che sono venuti a Gerusalemme per andare al Tempio durante la Pasqua. Tuttavia non è in contesto cultuale che essi incontrano Gesù, ma fuori di esso. Per vedere Gesù essi chiedono a Filippo che si rivolge ad Andrea. Per vedere Gesù ci si deve impegnare in un incontro. A chi esprime il proprio desiderio chiedendo: "Vogliamo vedere Gesù", Gesù annuncia la sua morte. Come altre volte, Gesù dà risposte che spiazzano e obbligano l'interlocutore a fare un salto interpretativo, a dislocarsi da dove si trova. La sua parola ci chiede di ri-situarci. Anche i greci potranno vedere Gesù, ma solo grazie allo Spirito effuso a Pentecoste: noi cristiani siamo senza visione. L’incontro con Gesù avviene solo nella fede, non nella visione, sottolineerà Paolo. A chi gli chiede di vederlo, Gesù dice "Dove sono io, là sarà anche il mio servo". Non si tratta di vedere Gesù

da qualche parte, ma di essere noi là dove lui è stato. Questa è l'unica risposta alla domanda di vedere: "Siate anche voi dove sono io e lì comprenderete". Questa è la maniera autentica di vedere, l'esperienza di fede, un essere concretamente, esistenzialmente, là dove lui è stato. Allora, quando si sarà là, si potrà dire di comprendere qualcosa di Gesù, di vedere qualcosa di Gesù, di fare esperienza di Gesù. Si potrà dire di cominciare a imparare veramente da lui. Questo desiderio di vedere Gesù è esaudito da Gesù spiazzandolo, ri-situandolo, ri-orientandolo. Il vangelo sempre assume l'umano, in questo caso il desiderio di vedere, ma lo ri-orienta, gli dà una nuova direzione. Una direzione non cultuale e religiosa, ma umana, relazionale.

Gesù, sentito della ricerca dei greci, non solo non si affretta a incontrarli ma sembra anzi disinteressarsene. E quei greci scompaiono e nel vangelo non ricompaiono più. In realtà Gesù prende sul serio quel desiderio e vede, dietro i pochi greci che lo cercano, il segno dei pagani che chiedono accesso alla visione del volto di Dio narrato da lui. La ricerca dei greci, che Gesù ri-orienta, in verità, dà una sterzata anche alla vita di Gesù. Gesù vi discerne la venuta dell'ora, del momento in cui egli deve volgersi con risolutezza verso il destino del chicco di grano che deve morire per dare frutto. Le parole di Gesù dicono anche il tormento interiore, la lotta intima di Gesù con se stesso. Il suo cuore è turbato. La prospettiva finale della sua vita è disegnata e Gesù mostra timore e turbamento. La tentazione di evitare quell'ora si fa sentire. "Che devo dire: 'Padre, salvami da quest'ora?'". Il dilemma interiore si risolve con il riferimento alla volontà originaria, al desiderio originario, alla finalità originaria. "Proprio per questo sono giunto a quest'ora". Gesù non si scoraggia, non abbandona, non si volge indietro, non smette di perseverare, ma ravviva il desiderio che lo ha mosso fin dagli inizi e si conferma nel suo cammino. Gesù integra nel suo cammino di vita anche la morte. E questo equivale a dare compimento al desiderio come al cammino. E invita chi ha lasciato tutto e l'ha seguito a fare altrettanto. "Se uno vuole servirmi, mi segua": Gesù lo si vede seguendolo, lo si conosce seguendolo. C'è un ri-orientamento del desiderio e del cammino. Ognuno di noi sceglie una forma di vita in cui ritiene di trovare la pienezza della gioia e del senso, poi gli anni passano e scopriamo che in quella vita noi moriremo, arriviamo a vedere che tutto finisce senza forse aver fatto quell'esperienza di pienezza e di felicità. E questo fa nascere in noi nostalgie, rimpianti, sensazioni di aver sbagliato tutto. O semplicemente, la sensazione che altrove sarebbe meglio per noi, che altrove saremmo finalmente noi stessi, realizzati. Ci vediamo condannati a una quotidianità infelice e ne accusiamo gli altri, la vita, il mondo. Forse però un minimo di autocritica e consapevolezza realistica di sé potrebbe aiutare. Forse non sono gli altri a essere così deludenti, forse non è il tipo di vita il colpevole della mia insoddisfazione, forse sono io. Scrive Rilke: "Se la tua vita quotidiana ti sembra povera, non accusarla. Accusa invece te stesso. Riconosci che non sei in grado di vederne e riconoscerne la preziosità. In verità, per colui che crea, non esiste alcun luogo povero o insignificante". Si tratta allora, di imparare a guardare nuovamente, di ri-orientare lo sguardo, per vedere come Gesù stesso vede. E come vede Gesù? Gesù guarda un seme di grano che cade a terra, che muore: questa è la concezione degli antichi per cui il chicco di grano per diventare albero deve morire e risuscitare. Ora Gesù è abitato da uno sguardo simbolico per cui vedendo quel seme, parla di sé e della propria passione, morte e resurrezione. In quel seme egli vede la necessità del suo innalzamento. Si tratta di ri-orientare il nostro modo di guardare. "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto". C'è un dinamismo di morte che dà vita. Ed è il dinamismo dell'amore e delle sofferenze che esso comporta. E ci viene detto che c'è una morte più dolorosa della morte fisica, ed è la solitudine. "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo": c'è una morte più dolorosa della morte che è la solitudine a cui ci condanniamo separandoci e isolandoci dagli altri e perseguendo una nostra via che non incontra quella degli altri. C'è una morte vivificante perché fa crescere il seme, lo fa diventare altro. Il seme diventa spiga, poi pianta, poi capace di frutto. Questo divenire noi lo possiamo temere, possiamo scambiarlo per una morte, e in certo modo lo è perché non siamo più quelli di prima, non siamo più seme, ma altro, e allora possiamo decidere di preferire di restare come e dove siamo. Possiamo scegliere di non crescere, di non maturare, di vivere una vita che è un lento morire. C'è infatti un abbandonarci, un affidarci sentito così rischioso che ci induce a preferire la solitudine, ovvero a restare nella morte della solitudine, del solipsismo, del narcisismo. Abbiamo qui due forme di morte, una negativa e una positiva, poste di fronte: la paura del cambiamento di sé, che fa restare nella solitudine, è la vera morte, è la sterilità; e l’accettazione del cambiamento di sé, che è la morte feconda di chi, accettando di mutare, si apre alla vita che dà frutto. Il frutto di questa morte è un dare: si diventa capaci di dare di più. La sofferenza del perdere diventa la gioiosa offerta di sé nel dare. Si tratta di fare anche dei momenti critici e dolorosi, l'occasione per andare a fondo, più a fondo di ciò che si sta vivendo. Non di evadere, di cambiare l'esteriorità, l'esterno, ma di andare in profondo di sé. Infatti, non è nel profondo che si annega, ma nella superficie.

Luciano Manicardi


LA FRASE:

Ci vuole così poco a farsi voler bene,

una parola buona detta quando conviene,

un po' di gentilezza,

una sola carezza,

un semplice sorriso che ci baleni in viso.

Il cuore sempre aperto per ognuno che viene,

ci vuole così poco a farsi voler bene...

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...