martedì 31 marzo 2020

Marzo: è ora di togliere il "prete" dal letto


di Fiorenzo Barzanti 
 
Quella sera, erano le 8, mia mamma andò a letto vestita. Dopo dieci minuti si alzò ed io che ero un bambino ‘’mi infilai’’ sotto le lenzuola calde lasciate da lei che intanto era tornata in cucina a fare i suoi lavori. E sì..., vi comunico la triste notizia, eravamo all’inizio di marzo e nelle nostre case contadine si smetteva di scaldare il letto con il ‘’prete e la suora’’. Fino ad allora e per tutto l’inverno era stata una ‘’goduria’’. Il ‘’prete’’ era un oggetto di legno fatto con due semiarchi che si aprivano a barchetta ed inserito sotto le lenzuola, le alzava e creava una cavità. All’interno aveva due lastre in metallo. In una, quella che poggiava sul materasso, veniva appoggiata ‘’la suora’’ che era uno scaldino pieno di carboni ardenti ricoperti di cenere per conservare a lungo il calore e per evitare incendi. Dopo 10 minuti il letto era caldissimo e quando fuori nevicava era bellissimo assaporare il caldo e sentire il rumore della neve che batteva sui vetri.
Per scaldare il letto in modo veloce a volte si utilizzava solo ‘’la suora’’ che era dotata di manico e di una griglia sopra. La si faceva scivolare ripetutamente per 5 minuti in mezzo alle lenzuola.
Io di norma in inverno ero il primo ad andare a letto. Dormivo nel lettone con i miei genitori. Poi il prete e la suora passavano nel lettino a fianco dove dormiva mia sorella che arrivava poco dopo.
Eravamo nel dormiveglia e sentivamo arrivare i rumori dalla cucina che era comunicante con una porta. Quella volta c’era una veglia. Erano presenti circa 15 persone. Si sentivano forti risate perché il contadino Nin ad Pasota era un bravissimo imitatore e simulava l’azdora che faceva la sfoglia e si sputava nelle mani per fare scivolare meglio ‘’e sc-iadur’’ (il matterello).
Arrivava il profumo del ‘’vin brulè’’ che bolliva nel paiolo sopra il fuoco e che riscaldava gli animi fino a farli parlare ‘’sopra le righe’’. A volte si sentiva qualche barzelletta ‘’sporca’’ che io non capivo e che mia sorella mi traduceva, ma penso che anche a lei non fosse ben chiara.
Ma il profumo vero nei mesi di gennaio e febbraio arrivava dal soffitto.
Erano appesi alle travi a stagionare nella nostra stanza da letto, dopo l’ammazzamento del maiale in gennaio, i salami, le salsicce in copia di due separate da un rametto di finocchio selvatico per non farle toccare, la pancetta arrotolata e quella intera, la coppa, la ‘’guleta’’ (guanciale), la salsiccia matta, i cotechini. A volte facevamo fatica resistere e mia sorella che era più grande, saliva sulla sedia e prendeva due salsicce, una per ciascuno. Erano sublimi. Il giorno dopo il mio babbo se ne accorgeva, ma faceva finta di niente e diceva: ‘’u ià da les un surgatin che magna la sunzeza se al ciap! ’’ (ci deve essere un topolino che mangia la salsiccia, se lo prendo! ). Infine ci addormentavamo.
A volte sentivamo la ‘’burela’’ (mucca da latte) che improvvisamente muggiva e scalpitava. Sicuramente aveva visto un topolino e si sa che le mucche hanno il terrore dei topi. La nostra stanza da letto era proprio sopra la stalla ed una botola rotonda serviva a mio babbo per scendere e controllare anziché passare dalla scala esterna quando c’era la neve.
Per fortuna il buio ci impediva di vedere le fotografie che erano appese alla specchiera sopra il comò. Si era soliti infatti mettere quelle dei parenti defunti con quegli sguardi terrificanti ‘’da paura’’.
Prima di coricarci eravamo andati ‘’come d’obbligo’’ al gabinetto che distava 30 metri dalla casa. In inverno quando c’era la neve era complicato, ma il mio babbo faceva ‘’la rota’’ con il badile.
Comunque per le emergenze avevamo sotto il letto ‘’e bucalet’’ (il vaso da notte).
In inverno spesso ci svegliavamo al mattino con la neve che era entrata dagli scuroni che avevano grandi ‘’scarvaie’’ (fessure) e si era ammucchiata sui vetri fino a metà. Rintanati sotto l’imbottita sembrava che ci fosse ancora più caldo e mia sorella mi raggiungeva nel lettone.
I nostri genitori si erano già alzati presto e quando entravamo in cucina ci aspettava una tazza di latte caldo che mia mamma aveva appena munto ed il calore del camino con la legna che bruciava scoppiettando.
Siamo alla fine degli anni 50 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena ed abitato da famiglie di contadini mezzadri. La mia era una di queste ed io ero un bambino al quale sono rimasti impressi molti ricordi.
Scusate la divagazione. Eravamo in marzo, vi dicevo, non si accendeva più il camino, ma alla sera faceva abbastanza freddo ed allora mia mamma dava ‘’una sfiambata’’ (fiammata). Con una fascina di ‘’sarmint’’ (rami, scarto della potatura) faceva un fuoco veloce che intiepidiva l’aria.
Un’altra usanza che veniva riscoperta da noi bambini era il ricominciare ad andare a piedi scalzi durante il giorno. Passato il freddo e la neve si mettevano da parte le pantofole ed i calzettoni. Si riconquistava la libertà, ma i primi giorni erano difficili, infatti la pelle sotto la pianta dei piedi non si era ancora indurita ed occorreva stare attenti a dove si mettevano i piedi. Il trucco era il solito, mai appoggiare il piede di botto, ma farlo scivolare lentamente in avanti in modo da rendere innocui gli ostacoli come ‘’i spunton’’ (radici che affioravano) o i sassolini. Nonostante tutto le spine erano a portata di mano.
Ed allora mia mamma con santa pazienza mi faceva sedere sotto il mandorlo e con un ago estraeva i corpi estranei. Il dolore era mitigato dall’intenso ed incredibile profumo dei fiori di mandorlo e dal ronzio delle api.
Come dice il proverbio: marzo pazzerello se c’è il sole prendi l’ombrello. Bruschi cambiamenti climatici e piogge improvvise causavano i malanni di stagione a noi bambini, mal di gola, raffreddore, febbre. Spesso era necessario chiamare il Dottor Celletti che era il medico di famiglia famoso ed amato dai contadini delle nostre colline. Arrivava con la sua automobile, sempre elegante e ben vestito. Capelli brizzolati ed un intenso profumo di dopobarba. Con i bambini giocava e sapeva trovare il modo giusto per dare loro le medicine che spesso erano sciroppi ‘’sgubitosi’’. Diceva sempre prima di andarsene: è troppo presto per i bambini camminare scalzi.
Quella volta però il mio amico Salvatore non aveva un semplice mal di gola, ma il dottore sentenziò che le tonsille dovevano essere tolte al più presto.
Salvatore aveva la mia età, suo fratello Michele un anno in più. Erano i figli di un famiglia contadina di siciliani (provenivano da Caltanissetta) che abitavano a 50 metri da noi. Il loro babbo si chiamava Carmelino ed era diventato uno dei migliori amici del mio babbo.
Fu così che l’indomani andammo a Cesena per togliere le tonsille. Sul ‘’baruzen’’ (piccolo biroccio) trainato dalla nostra asina Nita, salirono Salvatore e la sua Mamma, io, e il mio babbo che guidava. Salvatore aveva mal di gola, ma tutti lo rassicuravano del fatto che togliere le tonsille era una cosa veloce ed indolore e che a tutti i bambini prima o poi venivano tolte.
Arrivammo nell’ambulatorio a Cesena che onestamente non ricordo più dov’era. Un medico con un camice bianco lunghissimo fece entrare Salvatore e la sua mamma. Non so esattamente cosa sia successo, ma non deve essere stato simpatico. Dopo alcuni giorni Salvatore mi raccontò che gli avevano fatto allargare la bocca e gli avevano messo una specie di ‘morsa’’ poi … un dolore atroce.
Comunque l’aspetto piacevole fu che subito dopo l’intervento ci comprarono un cono di gelato sfuso. Per me piccolo, per lui gigante per mitigare ed anestetizzare il dolore.

Caro San Rocco...


(da Biblioteca civica di Rotzo)

Oggi la chiesetta di Castelletto, quella a Te dedicata, è rimasta aperta. Come succedeva prima che iniziasse questo periodo buio e surreale, come ai tempi in cui la nostra piccola comunità cristiana si raccoglieva attorno alla messa nel giorno dedicato al Signore. Allora ci parevano cose scontate, pensavamo fosse la normalità, ancora non sapevamo quale meraviglioso dono potesse essere ritrovarsi assieme e scambiarsi una stretta di mano. La parola stessa “normalità” ha assunto un significato nuovo, non indica più un ripetersi monotono e consolidato di fatti o accadimenti prevedibili e scontati, ora rappresenta un sogno, è diventata il nostro sogno più grande: tutti vorremmo al più presto ritornare alla normalità. Sembrano cose ripescate nel tempo, tanto lontane ci appaiono, invece risalgono appena a qualche settimana fa. Ci sembrava giusto tenere aperta la tua chiesa in momenti come questi, dove un morbo nuovo serpeggia fra le nostre contrade e le nostre case, come un’ombra cupa e sfuggente; le porte spalancate dell’edificio religioso che ti ospita ci appaiono come un messaggio di speranza, come una bandiera dispiegata al vento. La statua che ti ritrae ci riporta ai tuoi viaggi: eri un umile pellegrino, con il bastone, la mantellina e un cappello per la pioggia, con le conchiglie appese alle vesti, simbolo futuro di altri pellegrinaggi. Nelle gambe si notano i segni e le ferite della peste e fu proprio durante il periodo di isolamento che un cane - così narra la tradizione - venne tutti i giorni a portarti un pezzo di pane e a leccarti le piaghe, risanandole. Per questo sei venerato contro le epidemie. Cose di un tempo antico, certamente, che suonano stonate in un’epoca come quella attuale dove tutto è affidato alla scienza. Ma poi, siamo così sicuri che la scienza riesca a darci tutte le risposte di cui abbiamo bisogno? All’inizio di questa pandemia abbiamo assistito a scontri “virulenti”, è proprio il caso di dirlo, fra vari studiosi, anche di alto livello, sulla natura del virus: c’era, ad esempio, chi lo descriveva solo un po’ più pericoloso rispetto alla normale influenza stagionale, creando incertezza e dubbi fra la gente. Se nemmeno gli esperti erano concordi nel ritenere questo virus un pericolo serio, come di lì a poco si sarebbe rivelato, figurarsi cosa poteva capirne la gente comune. Per fortuna ai nostri giorni ci sono ospedali di prim’ordine con terapie intensive, respiratori, sale di rianimazione. Ma si continua a morire, caro San Rocco, non come ai tuoi tempi, per carità, ma molto più di quanto la nostra mentalità di uomini moderni e tecnologici sia disposta ad accettare; e non ci consola il fatto che a lasciarci siano le persone più anziane o più fragili, perché con i nostri vecchi perdiamo affetti e riferimenti importanti, perdiamo la memoria e il senso di quello che è stato. Ma nemmeno negli ospedali la scienza è stata sempre impeccabile: alcuni di questi, invece di luoghi di cura, sono diventati centri di contagio e diffusione del virus e molti medici e infermieri ne sono stati colpiti, assieme a tanti pazienti presenti in quel momento nelle corsie: e per la scienza non è stata certo una bella pagina. Anche in questo caso abbiamo capito, ancora una volta di più, come alla base di tutto ci sia l’Uomo, con i suoi valori, i suoi sentimenti, le sue passioni. 
Il lavoro e l’impegno di medici, infermieri e di tutto il personale che opera nelle nostre strutture sanitarie e nelle case di riposo è qualcosa che ci ha commosso nel profondo e che merita rispetto e ammirazione incondizionati. 
Se poi a tutto questo vorrai aggiungere il tuo sguardo benevolo e rassicurante, te ne saremo immensamente grati!

Interessante e vero!


Ascoltatelo fino in fondo - spiega molto bene

E c'è anche chi, per solidarietà, in Florida ha appeso il gonfalone di Valdastico sull'uscio di casa. Un piccolo, grande gesto da parte di Linda Claire Sartori, nipote di Paolo Sartori fondatore della nostra Casa di riposo.


Che bravetta sta Signora... ;-)

Sandrokkia che vigila attenta sulla via... Tutto OK, zero assembramenti, passo e chiudo



Cataloghiamoci :-)))


lunedì 30 marzo 2020

Toponomastica & Toponomistica

AdSV/BdG - Mappa catastale del 1809 - San Pietro in Val d'Astico
Gianni Spagnolo © 200313
Recenti pubblicazioni sull'antica toponomastica locale hanno fatto riaffiorare molti nomi di luoghi dall’uso circoscritto,  dei quali s’era già perso il ricordo. Con un appassionato e certosino lavoro sulla memoria, ma soprattutto sugli archivi civili notarili, è stato possibile portare alla luce i toponimi, spesso di origine cimbra, che in antico caratterizzavano la montagna vicentina. Ai nostri confini, Ivo Matteo Slaviero con Rotzo1, Alberto Baldessari con Pedemonte2 e Renato Pretto e Angelo Saccardo con la Val Posina3, hanno racchiuso il nostro comune, per così dire, in un’enclave d’ignoranza.
Valdastico, infatti, non risulta pervenuto!  
In verità qualcosa è stato fatto ed ha portato almeno all’elencazione dei toponimi minuti locali4 dei quali ancora si conservava memoria; si tratta però di denominazioni  per lo più risalenti a non oltre le tre o quattro generazioni addietro. Per andare più a ritroso servono attestazioni scritte ed è proprio qui che casca l’asino, dato che noi abbiamo, chissà perché, una situazione documentaria molto più lacunosa,  frammentaria e dispersa dei nostri vicini.
Comunque, senza pretese di fare un lavoro organico, accurato ed esaustivo come i benemeriti autori citati, proviamo a procedere omeopaticamente e alla buona, analizzando quello che c’è.
In atti della fine del millecinquecento  stipulati dal notaio Lodovico Cerato dai Forni, troviamo riferimenti ad alcuni toponimi di San Pietro: Vegre, Rovere, Prosoli e Reseco e a due di  Forni: Agri e Ponticelli. Questo pubblico funzionario scrive nella lingua volgare formale in uso al tempo, ovvero un italiano ancora fortemente influenzato dal latino. Egli è uso rendere spesso i nomi personali e quelli di località in latinorum, per cui è difficile capire quale fosse l’effettivo corrispondente nella parlata allora corrente.
Le località di Rovere ed Agri sono indicate con riferimento ai proprietari confinanti e prossime alla strada consortile, ma nulla di più preciso, per cui non è possibile collocarle sul territorio mancando ulteriori riscontri. In ogni caso sono senz'altro dei nomi mutuati dalle piante ivi esistenti, cioè il rovere e l'acero (Agro o Aorno in dialetto locale arcaico). Végre invece è un toponimo giunto fino a noi e palese nella sua accezione di: terreno incolto. Da quanto si evince dalle descrizioni la vegra era l'area incolta prossima alle giare della Val dell'Orco, ovvero sotto l'attuale Parco dell'Emigrante. Possiamo immaginare che le pur brevi valli dell'Orco e del Chéstele sfociassero a quel tempo sui prati dell'Astico soggette a regimi molto turbolenti, non essendo regimentate e conducendo molta più acqua. Ne conseguiva che le rive nei pressi fossero prevalentemente ghiaiose, infide e improduttive; da ciò verosimilmente il nome di Végre.
Su Prosoli e  Reseco invece possiamo tentare qualche migliore approssimazione.
Anno 1598, 14 di marzo;  Compravendita5 fra “ .. Baptiste f.q. Jo.e  de luca santi petri valis astici pertinentiam Rotii  e  Jacobo f.q. dominici de luca de dicto loco ..”/ ".. una pezza di terra arativa plantate vitibus et arboribus, posita in pertinentiis sa:ti petri valis astici pertinentiam Rotii in ora  vocata dei prosoli, cui coheret à mane strata comunis, à meridie heredes d. baptiste de toldis, à sera covali et à monte dictus empratori ..”
La località detta “dei Prosoli” confina dunque ad Est con la strada comunale e ad Ovest con i covoli ed è piantumata a viti e alberi da frutto. L'unico posto del paese dove ci sono dei covoli ad occidente mi pare essere la zona sopra la pontàra, dove ora c'è il plesso scolastico e la stazione dei Carabinieri. Questa era senz'altro un'area particolarmente vocata per gli alberi da frutto; nei ricordi più recenti erano mitici quelli del Vecio Strùca. Circa il significato del nome non so dare spiegazione, non risultandomi che prosolo/prosoli fossero termini significativi della lingua veneta. Attingendo invece dal cimbro potremmo individuarne la radice in Pros/Prös/Prosele che significa gemma, germoglio; bùto per dirla alla veneta. Quindi “luogo dei virgulti”, forse in ragione del fatto che quelli erano terreni  piantumati da poco.
Anno 1597, 13 di novembre – Compravendita5 fra “.. Josephis  f.q. Jo.e marie de’ laurentiis santi petri valis astici pertinentiam Rotii Jo.e Baptista f. q. blasii de rezarinis de dictu loco ..” / ".. in loco furnos, pertinentiam Rotii, vic. districtus, in ora de’ Ponticelis in domo et hab. heredi q. Jo.e marie foladoris, presentibus fra.co f. q. laurentii à via tonezie, habitatore furnis predictictis et Jo.e marie f. q. marci cardi albaredi habitatore resechi pert. Rotii, omnibus duobus testibus ..”
Da questa scrittura possiamo ottenere una serie di informazioni. L’atto viene redatto in località Ponticelli di Forni in casa di un certo foladore. Siamo quindi in un’area ricca d’acque e presso un testimone che fa il follatore. Dunque lì c’era un follo, cioè un opificio per follare i panni, o più verosimilmente, le cortecce d’abete bianco per ricavarne il tannino così prezioso per la conciatura delle pelli. Il plurale farebbe pensare a più ponti e  quindi ad una zona di canali. In quest’epoca (fine del XVI secolo) si assiste ad una migrazione in valle di famiglie della montagna. Apprendiamo infatti di Francesco del fu Lorenzo Dalla Via (à via), che è originario di Tonezza ma che ora abita ai Forni, mentre in altre scritture coeve troviamo Jo:s f. q. valentini de petenatis (Pettinà), anch'esso sceso da Tonezza per stabilirsi in valle e così pure l'asiaghese crestano f. laurentii à molendino (Dal Molin). Poi Giomaria del fu Marco Cardi, che è di Albaredo ma è detto abitare ora a Reséco, che è sempre nel territorio di Rotzo, ma nel suo piede vallivo. Il confine meridionale fra il territorio (parrocchie) di San Pietro e quello di Rotzo era la Val di Rigoloso, o di Pisciavacca o di Rio Seco; non si sa bene neanche ai giorni nostri quale termine sia più pertinente6. Dato però che il maso di Bellasio a quel tempo era già chiamato così ed era abitato da un ramo dei Prüner di Castelletto, dov’era accasato questo Giomaria dei Cardi di Albaredo per stare sulla parte di Rotzo della Valle, cioè sulla sua sinistra orografica? Scarterei la zona più pertinente, cioè la costa di monte sopra Bellasio, dove si fatica ad immaginare insediamenti. Considerando che la contra’ Righele è sicuramente d'epoca posteriore e che comunque appartiene a San Pietro, l'alternativa sarebbero i ruderi posti a monte della Bréiola, sotto l’attuale strada che sale dalle Forme e che a fine settecento erano abitati da famiglie Dal Pozzo. Queste erano anche, guarda caso, proprietarie di una larga porzione del Monte di Rotzo sopra Bellasio(Reséco), magari ereditata/acquistata dai Cardi. Supporrei pertanto che proprio quel maso fosse in origine la residenza di un ramo dei Cardi di Rotzo i quali erano soprannominati Rigoloxo8. A questo punto però, se il nome di questa località nel 1598 era Reséco, qualche perplessità la solleva. Il toponimo giunto fino a noi è "Rio Secco", che peraltro s’applica benissimo alla valle in quei pressi, che oggi è così parca d’acqua, ma che un tempo dovette averne di perenne, visto che alimentava un  mulino. Se fosse stato lo stesso nel XVI secolo, il notaio Cerato, che era del posto, non avrebbe avuto nessuna esitazione a scrivere: Rio Secco, data la sua attenzione all’omologazione linguistica; se dunque l’annotò come Reséco (resechi alla latina) è perché quel toponimo non significa “rivolo secco”, come banalmente possiamo pensare, ma aveva un altro significato. Ricorrendo all'antica lingua ci starebbe un Ress(ar)ekke (dosso solido, sano, in buono stato), forse perché all’epoca era al riparo dalle bizze dell’Astico e/o non soggetto a frane. Se queste ricostruzioni sono verosimili, c’insegnano a prestare molta attenzione alla deriva toponomastica, che è sempre alla ricerca di significati correnti e pertanto incline alla corruzione dei termini originari. 
(1)                “ROTZO – Toponomastica storica e aspetti di vita della comunità ” di Ivo Matteo Slaviero – 2014.
(2)              “I NOMI PARLANO – Viaggio attorno ai nomi di luogo di Pedemonte” di Alberto Baldessari – 2004.
(3)              “POSINA – Una identità ritrovata” – di Renato Pretto e Angelo Saccardo – 2011.
(5)              A.d.S. Vicenza – Notaio Lodovico Cerato (1546-1628)
(8)             https://bronsescoverte.blogspot.com/2012/08/brandelli-di-storia-patria-rotzo.htmI Righele che durante il XVIII secolo dettero origine all'omonima contra' posta sulla destra orografica della Val di Rigoloso, quindi in territorio di San Pietro, provenivano dai Forni ed è non è inverosimile che discendessero proprio da questi Cardi, soprannominati Rigoloxo, che avevano interessi in quella zona due secoli prima e che probabilmente gravitavano, per prossimità, sulla comunità di Forni. Essendo questi nomi del tutto autoctoni riterrei l'innegabile assonanza assai indicativa di una derivazione.

Strane emozioni... (1)

(video di Cinzia Giacomelli)

Strane emozioni... (2)

(video di Ornella Alessi)

Non sono più tra noi - (10° - 03/20) - Giorgio Pesavento



Caro Giorgio...

...tempi tristi, tristissimi, quasi irreali... Situazioni disumane, inconcepibili, inaccettabili!!!
Che tu ti debba congedare da noi in questa "assenza di tutto" (tu, come purtroppo anche altri) mi avvilisce in una maniera indicibile... e provo tanta rabbia..., ma siamo tutti impotenti e, volenti o dolenti, ci dobbiamo nostro malgrado adeguare...
Ti sia di consolazione almeno il grande affetto che percepisco in tutti quelli che han avuto la fortuna di conoscerti ed apprezzarti e tutti concordano con la Persona buona, solare, simpatica, con una parola ed un sorriso per tutti!
Ieri sera abbiamo aperto in tanti le finestre e ti abbiamo pensato con il sottofondo dell'AVE MARIA che echeggiava nella Valle dagli altoparlanti di Claudio Guglielmi che così ha voluto ricordare te e tutti quelli che non sono più tra noi. Veramente una lodevole iniziativa che ha "mitigato" un po' "l'assenza di tutto".
Eri anche uno "Zuzzurellone"... ed io desidero ricordarti così, come nel video che ho rubato ad Ampelio. Ricordiamocelo tutti così, perchè credo che è così che vorrebbe essere ricordato...


A Giorgio

Un altro giorno è passato,
portando con sè un fardello pesante…
che si aggiunge alla paura per qualcosa
che ci sta devastando dentro e fuori:
c’è la tristezza, lo sgomento, l’incredulità
per un amico che se n’è andato…
Le lacrime scendono, i pensieri cercano
fra le pieghe della vita, i ricordi…
Come le foto di un album,
passano davanti alla mente
e si dissolvono fra le nuvole dei pensieri.
Sono immagini di gioia, di risate,
di chiacchierate, di confidenze,
di preoccupazioni, speranze e sogni…
Cose che erano la normalità, 
erano appuntamenti settimanali
ma ora sono ricordi preziosi, 
racchiusi nel cuore trafitto
dagli avvenimenti della vita
che ti ha portato via troppo presto,
strappandoti agli affetti più cari,
alla famiglia, agli amici a chi ti conosceva da sempre.
Ogni persona ha dei ricordi particolari, diversi, speciali…
Questo ci resta e in questo momento dove,
non abbiamo modo di esternare la nostra vicinanza,
il nostro abbraccio, il nostro sostegno
a chi è nella disperazione più grande…
Ricordo e preghiera, preghiera e ricordo…

CIAO GIORGIO
LUCIA
29 marzo 2020

Una cosa molto utile: aprite il link in fondo e fate un clic sulla cartina geografica nell'area corrispondente alla vostra Regione per visualizzare tutte le informazioni riguardanti la situazione Covid19 che vi interessano - (il link mi è stato inviato da Flores)



Cambiamento


(di Laura Messina-web)

Mi sembra che molte certezze stiano crollando, che alcune convinzioni su cui si fondavano scelte, comportamenti, situazioni, siano diventate improvvisamente traballanti, come se ogni cosa fosse stata messa in discussione, come se fosse diventato obbligatorio oggi rivedere le priorità, ripercorrere mentalmente il passato per salvare i ricordi buoni, i giorni felici, le cose che fino a quando non ci sono venute a mancare, non avevamo capito ancora bene che significato avessero, le persone che fino a che non sono state lontane, non avevamo nemmeno riconosciuto che posto occupassero nel nostro cuore. Certo, si potrebbe dire che per alcune consapevolezze è tardi, che non si può tornare indietro a ringraziare se non lo si è fatto, che non si può tornare indietro a scusarsi o a ritrovarsi o ad evitare di perdersi, la vita non si riavvolge, semmai ti travolge, come sta succedendo adesso. Ma si può andare avanti o provarci almeno, cambiati profondamente, nelle idee, nei sentimenti, nel riconoscimento dell'essenziale, con molte paure in più, con ferite profonde che lasceranno il segno, con le priorità ribaltate e con il coraggio rinnovato di chi ha dovuto attraversare ancora una volta una tempesta, questa volta più tremenda, questa volta decisiva. Succedono stranezze; sento che mi sto distaccando da molte cose, che giorno dopo giorno stanno perdendo importanza dentro di me, anche se fino a ieri mi sembravano vitali. Sento un cerchio che si stringe intorno a poche cose, a poche persone, direi alle persone di sempre; sento diventare inutili le spiegazioni, le polemiche, i discorsi complicati, i rapporti che stavano in piedi a stento, le formalità. Tutto si riduce e si impreziosisce, poche gemme inestimabili in un tesoro che si tiene in una mano, occhi che parlano senza dire, poche parole che significano tutto, un desiderio dolce nell'attesa che il tempo passi e restituisca ciò che ha resistito, ciò che non poteva andare perduto.

Dedicata a tutti noi!


SNOOPY e angolino relax




domenica 29 marzo 2020

La pagina della domenica



LA RIFLESSIONE 


HO VISTO UN UOMO

Ho visto un Uomo
vestito di bianco
e stanco
sotto la pioggia battente
e il vento freddo
salire lento
verso l'altare
carico di dolore
di sofferenza
ma anche di speranza.

Ho visto un Uomo
anziano
zoppicante
fare le tante scale
con sulle sue spalle
tutto il dolore del mondo.

Ho visto un Uomo
concentrato
nel suo silenzio
fremente
nella sua preghiera
chiedere il perdono
di tutti i peccati
degli uomini
e la loro Salvezza.

Ho visto un Uomo,
uomo fra gli uomini,
innalzarsi
su tutti
e pregare
per tutti.

Ho visto un Uomo
dire
"nessuno si salva da solo"
perché
non siamo soli
se crediamo
in Dio
e nella sua Salvezza.

Ho visto un Uomo
che,
con tutti gli altri uomini del mondo,
si salverà
perché ha creduto
e crederà
per sempre.

(Giulia Madonna-web)


IL VANGELO DELLA DOMENICA 

In quel tempo  un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
All'udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».
Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell'ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?» Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.


LA POESIA

Anche i muri vorrebbero fiorire,
le tende aprirsi sulle strade
o sui cortili e aprire gli occhi
sul mutamento della natura,
ma dentro
si scolla tutto e si frammenta
in tante sensazioni sconosciute.
E la finestra guarda a vuoto
il vuoto ramificato nei vicoli
senza passi e sorrisi,
il senso d'impotenza,
il frastuono dei pensieri.
Mi manca tutto il poco delle cose,
le cose piccole diventate grandi.

Francesca Stassi


LA FRASE

Non avevamo mai tempo... e ora abbiamo capito quanto è lungo un giorno...





Marzo e la primavera


da "I racconti di nonna Giulia" di Dana Carmignani
 
Più che sentirla, io la primavera l’annusavo come gli animali.
Me ne accorgevo molto prima che arrivasse, un po’ come succedeva con nonna.
Quando andavo a rifare i letti e invece di lavorare, mi divertivo, oppure quando stavo zitta zitta, immersa nelle mie di faccende, lei, nonna, che non mi sentiva da sotto, che faceva, si toglieva le ciabatte in fondo di scala, poi si attaccava alla ringhiera, e ad uno scalino per volta (l’età e le sue gambe non le permettevano altro) saliva pian piano per chiapparmi sul fatto, magari mentre leggevo un giornalino o mi rimiravo nello specchio mezza nuda con qualche fronzolo addosso, invece di fare “il mio dovere”… io me ne accorgevo che arrivava, perché la ringhiera di ferro alla quale lei si aggrappava, ad un certo punto della salita, faceva un rumore strano, impercettibile ai più, ma che io avevo già catalogato come rumore della casa… un po’ come il rumore di una molla che scatta o che torna al suo posto, quindi sapevo che dopo un attimo da quel rumore me la sarei vista apparì di soppiatto sull’uscio con la solita frase “Mi dici un po’ cheffai?... ”… dopo le solite beghe e i soliti giri intorno al letto per acciuffarmi, che ci vedevano come in una giostra continua avanti una o l’altra a secondo delle postazioni… lei scendeva, tutta scarduffata con la pezzola su un fianco imprecando quel S. Bartolomeo protettore dei bambini che tante volte si era presi gli insulti al posto mio… io finivo l’iniziato e poi tornavo giù, e sgusciandole dietro le spalle come un gatto, schizzavo fuori.
Ecco, la primavera faceva quel rumore strano prima di proporsi nel suo splendore, faceva quel boeing di molla che scatta come la ringhiera di nonna, e io la sentivo.
Tiravo sù il naso come fanno i cani, o come facevano i vecchi che solo con quel gesto ti sapevano dire che tempo avrebbe fatto l’indomani, e mi riempivo i polmoni, prima degli occhi di un'aria diversa, frizzante, che poi soprattutto al mattino faceva sentire il cambiamento.
Mi spogliavo. Era una delle prime avvisaglie. Mi toglievo il cappotto, e a scuola, alla mattina in bicicletta andavo solo col grembiule e la pezzolina, ma non era preoccupante, noi figlioli eravamo imbottiti come bambole di pezza. E la “maglia sulla carne” si teneva fino a giugno quasi.
Al mattino il sole penetrava nella nebbiolina che ancora persisteva, e poi prendeva il sopravvento ed esplodeva in un cielo azzurro che mi accompagnava per il percorso dell’andata e continuava in un calorino più forte del solito al ritorno, che mi faceva togliere allora anche il grembiule bianco e il fiocco che finivano appoggiati al manubrio sulla cartella... “Badala tutta sparaciata… - mi gridava nonna quando entravo – un t’alleggerì tanto te lo detto… poi t’ammali… possib
ile che tu un mi stia mai a sentì..!”
Non potevo. Era troppo interessante. Il percorso cambiava ogni momento. Ogni mattina, ogni attimo era diverso da giorno a giorno, per tutto l’anno. Mi perdevo nei miei ragionamenti, nelle mie osservazioni, nei miei sogni come sempre, ma in quel periodo c’era proprio qualcosa in più.
Il risveglio a piccole dosi che osservavo pian piano mi entusiasmava e allora cantavo… cantavo quello che mi veniva in mente, canti di chiesa o canzonette che sentivo alla radio… “Occhè l’hai già infilata…” mi diceva nonna quando mi sentiva ripetere pari pari una canzone che magari avevo ascoltato solo un attimo prima… oh sì che mi piaceva! Mi pareva che il cielo, il sole, il calore il risveglio del momento andassero di pari passo con quella voglia, che poi all’epoca non era solo mia… cantavan tutti… fischiavano gli uomini nei campi mentre vangavano e le donne… le donne spalancavano le finestre cantando… sentir cantare era normale… cantava anche nonna mentre impastava il pane nella madia… più sottovoce però, lei era meno esosa di me che non avevo, come diceva lei “ritegno di nulla”… e poi gli animali… gli uccelli non attuivano… un continuo cinguettare mi accompagnava ogni dove, e il gallo, oddio il gallo era senza requie!
Quelle povere galline scappavano disperate dalle sue sgrinfie. Le coniglie cominciavano a pelarsi per preparare il cuccio. Le galline si acchiocciavano…
il risveglio si vedeva, era palpabile, si toccava con mano insomma, la primavera che arrivava!
Lo stesso capitava a me, ero sempre spiritata, ma in quel periodo nonna non ne aveva verso… il più delle volte tornavo a casa da scuola zuppa, perché stando col naso per aria a seguire il cielo e le nuvolette, finivo inevitabilmente
con la bicicletta in qualche fosso pieno d’acqua. Facevo tardi perché mi fermavo sul ciglio a raccattare le prime giunchiglie o le mammole pensando alla mia maestra, e poi si vede proprio come gli animali, anche gli amici miei maschietti, pur se piccoli sentivano il frizzare di epoche che da lì a poco sarebbero state più invadenti, perché li avevo tutti dietro, e per corteggiarmi molti facevano percorsi più lunghi, accompagnando me prima di andare a casa loro.
Arrivavo perennemente scortata da un nugolo di ragazzini… “Occhè è possibile che tu ce li abbia dietro sempre tutti te… come un can guasto”… - diceva nonna mentre entravo e loro rigiravano culo e biciclette e se ne andavano.
Non mi interessavano, a me interessava il mio mondo, la mia libertà, i miei interessi… la mia vita… e, come al solito succede, è un principio che vale per tutto, meno sei interessata e più interessi te… vince sempre chi fugge. I comportamenti definiti femminili io non li avevo, anzi avevo un atteggiamento molto maschile nei confronti della vita, che faceva a pugni con il mio aspetto bellino e lezioso. Questa miscela, mi sono accorta poi anche in futuro, attira molto, ma allora non lo sapevo, sapevo solo che avrei mangiato un boccone veloce, che avrei altrettanto velocemente fatto i compiti e poi sarei scappata di casa con un pezzo di pane in mano condito con un po’ di olio e sale, e sarei andata a mangiarmelo giù giù in fondo al rio, dove avrei preso sù per il ciglio e sarei finita ancora più lontano verso il boschetto, dove c’era un profumo di pino inebriante, mentre le urla di nonna si perdevano nel vento tiepido e mi arrivavano ormai fioche…. “Ma badalaaaaa…. è già scappa… possibil
e che tu un debba mai sta un po’ accaaasaaa?"

L'isolamento


di Elena Bernabè web

"Maestro, come posso affrontare l'isolamento?"
"Pulisci la tua casa. A fondo. In tutti gli angoli. Anche quelli che non hai mai avuto la voglia, il coraggio e la pazienza di toccare. Rendi la tua casa splendente e curata. Togli la polvere, le ragnatele, le impurità. Anche quelle più nascoste. La tua casa rappresenta te stesso: se ti prendi cura di essa, ti prendi cura anche di te."
"Maestro, ma il tempo è lungo. Dopo essermi preso cura di me attraverso la mia casa come posso vivere l'isolamento?"
"Aggiusta quello che può essere aggiustato ed elimina ciò che non ti serve più. Dedicati al rammendo, ricama gli strappi dei tuoi pantaloni, cuci ben bene gli orli sfilacciati dei tuoi abiti, restaura un mobile, ripara tutto ciò che vale la pena riparare. Il resto, buttalo. Con gratitudine. E con consapevolezza che il suo ciclo è terminato. Aggiustare ed eliminare fuori di te permette di aggiustare o eliminare ciò che c'è dentro di te."
"Maestro e poi? Cosa posso fare tutto il tempo da solo?"
"Semina. Anche un solo seme in un vaso. Prenditi cura di una pianta, annaffiala ogni giorno, parlaci, dalle un nome, togli le foglie secche e le erbacce che possono soffocarla e rubarle energia vitale preziosa. E' un modo di prenderti cura dei tuoi semi interiori, dei tuoi desideri, dei tuoi intenti, dei tuoi ideali."
"Maestro, e se il vuoto viene a farmi visita? Se arrivano la paura della malattia e della morte?"
"Parlaci. Prepara la tavola anche per loro, riserva un posto per ciascuna tua paura. Invitale a cena con te. E chiedi loro come mai son giunte da così lontano fino alla tua casa. Che messaggio vogliono portarti. Cosa vogliono comunicarti."
"Maestro, non penso di potercela fare..."
"Non è l'isolamento il tuo problema, ma il timore di affrontare i tuoi draghi interiori. Che hai sempre voluto allontanare da te. Ora non puoi fuggire. Guardali negli occhi, ascoltali e scoprirai che ti hanno messo con le spalle al muro. Ti hanno isolato per poterti parlare. Come i semi che possono germogliare solo se sono da soli"


sabato 28 marzo 2020

Fake

Gianni Spagnolo © 200326
Da quando il relativismo ha fatto diventare plurale la Verità, che fin dal principio fu singolare, molte certezze traballano. Stranamente se la sta passando maluccio anche la Scienza, che pur relativa lo è sempre stata. Essa non ha infatti dogmi assoluti, procedendo per sperimentazioni e verifiche progressive. Quel che è ritenuto vero oggi potrebbe non esserlo più domani alla luce di nuove e provate risultanze. Sembrerebbe l'idolo perfetto per la nostra società in progresso. In pratica vediamo che non è proprio così. L’uomo medio pare affidarsi alla scienza finché conferma le sue aspettative, altrimenti si lascia illuminare facilmente da altri fari. Come per la religione, del resto. Fuori uno, dentro l'altro!
I più illuminati cultori del sapere scientifico puntano perentori il dito contro l'ignoranza scientifica del nostro popolo, ritenuto tradizionalmente privilegiare il sapere umanistico. Cosa in parte vera e in parte pregiudiziale; molti scienziati del passato erano addirittura preti e comunque non è che la società moderna abbondi di afflati umanistici. Magari! Perché l’uomo è un essere complesso fatto di materia e spirito in perenne conflitto e va coltivato con un po’ d’indulgenza. In medio stat virtus, ammoniva già la filosofia scolastica medievale: la virtù sta nel mezzo.
Ora siamo alle prese con questo virus e in molti, grazie all’abbondanza di fonti alle quali poter comodamente attingere attraverso internet, cercano di capire la struttura e le dinamiche di comportamento di questo sgradito ospite, nonché tutto quello che gli gravita attorno. Il problema è che, per vagliare criticamente la mole di informazioni che circolano, difettiamo di sufficiente capacità critica e quindi siamo facile preda emotiva delle cosiddette “fake news”, notizie false. Di queste famigerate feicnius (ma perché non le chiamiamo bufale?), confezionate ad arte o diffuse per paura e incoscienza, ne circolano miriadi. Sono più virali e pervasive del virus stesso.
La bufala infatti è molto simile ad un virus: si diffonde velocemente dappertutto ed è agevolmente recepita dalle coscienze. Sì, perché, come un virus, dispone di risorse gratuite per propagarsi e di subdoli meccanismi per penetrare le menti più predisposte a riceverla. I nostri recettori sono infatti la paura, l’ansia e l’incertezza, che trovano facile sollievo nelle informazioni che danno risposte semplici e perentorie. Non siamo più allenati al dubbio: vogliamo tutto e subito; soprattutto cose che non ci mettano di fronte a nostre responsabilità, individuali o collettive che fossero. La scienza, con il suo rigore deontologico, non è attrezzata per farlo. Anche perché richiede conoscenze specifiche,  processi logici e verifiche troppo lunghi e laboriosi per calmare la nostra fame di certezze facili e immediate. La fake invece è un toccasana: ci da risposte indisputabili e immediate, ma soprattutto un colpevole: perché un colpevole ci deve essere sempre. Se c’è un colpevole significa che noi non siamo responsabili in nessuna misura e questo è infine quel che vogliamo sentirci dire.
Ecco allora che accogliamo e facciamo nostre le opinioni più improbabili. L’idea che il virus sia stato costruito in laboratorio da menti diaboliche è più consolante che approfondire la millenaria lotta dell’uomo con malattie e parassiti. Enfatizzare qualche propagandistico e velleitario aiuto da parte di paesi dall'improbabile, ancorché pelosissima, solidarietà ed empatia è meglio che guardare i numeri e le evidenze empiriche. Dileggiare i nostri partner europei, con i quali condividiamo una civiltà millenaria e decenni di percorsi comuni, come jene pronte ad approffittare del nostro stato di bisogno, conforta il nostro complesso d'inferiorità meglio che andare a leggersi i provvedimenti economici e valutare le risorse stanziate. Chi vive di sola propaganda e ha una rodata esperienza nella manipolazione delle coscienze sta sguazzando libero e onnipotente in questa immensa palude di disinformazione di massa. Poi ci sono anche le bufale cretine di chi s’è fatta un’idea cretina degli eventi e muore dalla voglia di condividerla. Infine c'è sempre un pizzico di cinica e insopprimibile Schadenfreude, una parola tedesca intraducibile in italiano, che significa gioire delle disgrazie altrui.
E sì che basterebbe confidare in qualche autorità riconosciuta e accreditata per evitare di perderci in questo pantano. Purtroppo però anche le autorità riconosciute e accreditate devono fare i conti con la verità al plurale e sono messe in discussione dalla falsità portata al loro stesso livello. Soprattutto quando non dicono le cose che alla gente piace sentire, per cui è meno faticoso e più svelto ricorrere alle altre verità sul mercato. Ovviamente quelle che ci confortano meglio e costano meno, perché, è ovvio, è l’economia che comanda.



Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...