di Fiorenzo Barzanti
Quella sera, erano le 8, mia mamma andò a letto vestita. Dopo dieci minuti si alzò ed io che ero un bambino ‘’mi infilai’’ sotto le lenzuola calde lasciate da lei che intanto era tornata in cucina a fare i suoi lavori. E sì..., vi comunico la triste notizia, eravamo all’inizio di marzo e nelle nostre case contadine si smetteva di scaldare il letto con il ‘’prete e la suora’’. Fino ad allora e per tutto l’inverno era stata una ‘’goduria’’. Il ‘’prete’’ era un oggetto di legno fatto con due semiarchi che si aprivano a barchetta ed inserito sotto le lenzuola, le alzava e creava una cavità. All’interno aveva due lastre in metallo. In una, quella che poggiava sul materasso, veniva appoggiata ‘’la suora’’ che era uno scaldino pieno di carboni ardenti ricoperti di cenere per conservare a lungo il calore e per evitare incendi. Dopo 10 minuti il letto era caldissimo e quando fuori nevicava era bellissimo assaporare il caldo e sentire il rumore della neve che batteva sui vetri.
Per scaldare il letto in modo veloce a volte si utilizzava solo ‘’la suora’’ che era dotata di manico e di una griglia sopra. La si faceva scivolare ripetutamente per 5 minuti in mezzo alle lenzuola.
Io di norma in inverno ero il primo ad andare a letto. Dormivo nel lettone con i miei genitori. Poi il prete e la suora passavano nel lettino a fianco dove dormiva mia sorella che arrivava poco dopo.
Eravamo nel dormiveglia e sentivamo arrivare i rumori dalla cucina che era comunicante con una porta. Quella volta c’era una veglia. Erano presenti circa 15 persone. Si sentivano forti risate perché il contadino Nin ad Pasota era un bravissimo imitatore e simulava l’azdora che faceva la sfoglia e si sputava nelle mani per fare scivolare meglio ‘’e sc-iadur’’ (il matterello).
Arrivava il profumo del ‘’vin brulè’’ che bolliva nel paiolo sopra il fuoco e che riscaldava gli animi fino a farli parlare ‘’sopra le righe’’. A volte si sentiva qualche barzelletta ‘’sporca’’ che io non capivo e che mia sorella mi traduceva, ma penso che anche a lei non fosse ben chiara.
Ma il profumo vero nei mesi di gennaio e febbraio arrivava dal soffitto.
Erano appesi alle travi a stagionare nella nostra stanza da letto, dopo l’ammazzamento del maiale in gennaio, i salami, le salsicce in copia di due separate da un rametto di finocchio selvatico per non farle toccare, la pancetta arrotolata e quella intera, la coppa, la ‘’guleta’’ (guanciale), la salsiccia matta, i cotechini. A volte facevamo fatica resistere e mia sorella che era più grande, saliva sulla sedia e prendeva due salsicce, una per ciascuno. Erano sublimi. Il giorno dopo il mio babbo se ne accorgeva, ma faceva finta di niente e diceva: ‘’u ià da les un surgatin che magna la sunzeza se al ciap! ’’ (ci deve essere un topolino che mangia la salsiccia, se lo prendo! ). Infine ci addormentavamo.
A volte sentivamo la ‘’burela’’ (mucca da latte) che improvvisamente muggiva e scalpitava. Sicuramente aveva visto un topolino e si sa che le mucche hanno il terrore dei topi. La nostra stanza da letto era proprio sopra la stalla ed una botola rotonda serviva a mio babbo per scendere e controllare anziché passare dalla scala esterna quando c’era la neve.
Per fortuna il buio ci impediva di vedere le fotografie che erano appese alla specchiera sopra il comò. Si era soliti infatti mettere quelle dei parenti defunti con quegli sguardi terrificanti ‘’da paura’’.
Prima di coricarci eravamo andati ‘’come d’obbligo’’ al gabinetto che distava 30 metri dalla casa. In inverno quando c’era la neve era complicato, ma il mio babbo faceva ‘’la rota’’ con il badile.
Comunque per le emergenze avevamo sotto il letto ‘’e bucalet’’ (il vaso da notte).
In inverno spesso ci svegliavamo al mattino con la neve che era entrata dagli scuroni che avevano grandi ‘’scarvaie’’ (fessure) e si era ammucchiata sui vetri fino a metà. Rintanati sotto l’imbottita sembrava che ci fosse ancora più caldo e mia sorella mi raggiungeva nel lettone.
I nostri genitori si erano già alzati presto e quando entravamo in cucina ci aspettava una tazza di latte caldo che mia mamma aveva appena munto ed il calore del camino con la legna che bruciava scoppiettando.
Siamo alla fine degli anni 50 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena ed abitato da famiglie di contadini mezzadri. La mia era una di queste ed io ero un bambino al quale sono rimasti impressi molti ricordi.
Scusate la divagazione. Eravamo in marzo, vi dicevo, non si accendeva più il camino, ma alla sera faceva abbastanza freddo ed allora mia mamma dava ‘’una sfiambata’’ (fiammata). Con una fascina di ‘’sarmint’’ (rami, scarto della potatura) faceva un fuoco veloce che intiepidiva l’aria.
Un’altra usanza che veniva riscoperta da noi bambini era il ricominciare ad andare a piedi scalzi durante il giorno. Passato il freddo e la neve si mettevano da parte le pantofole ed i calzettoni. Si riconquistava la libertà, ma i primi giorni erano difficili, infatti la pelle sotto la pianta dei piedi non si era ancora indurita ed occorreva stare attenti a dove si mettevano i piedi. Il trucco era il solito, mai appoggiare il piede di botto, ma farlo scivolare lentamente in avanti in modo da rendere innocui gli ostacoli come ‘’i spunton’’ (radici che affioravano) o i sassolini. Nonostante tutto le spine erano a portata di mano.
Ed allora mia mamma con santa pazienza mi faceva sedere sotto il mandorlo e con un ago estraeva i corpi estranei. Il dolore era mitigato dall’intenso ed incredibile profumo dei fiori di mandorlo e dal ronzio delle api.
Come dice il proverbio: marzo pazzerello se c’è il sole prendi l’ombrello. Bruschi cambiamenti climatici e piogge improvvise causavano i malanni di stagione a noi bambini, mal di gola, raffreddore, febbre. Spesso era necessario chiamare il Dottor Celletti che era il medico di famiglia famoso ed amato dai contadini delle nostre colline. Arrivava con la sua automobile, sempre elegante e ben vestito. Capelli brizzolati ed un intenso profumo di dopobarba. Con i bambini giocava e sapeva trovare il modo giusto per dare loro le medicine che spesso erano sciroppi ‘’sgubitosi’’. Diceva sempre prima di andarsene: è troppo presto per i bambini camminare scalzi.
Quella volta però il mio amico Salvatore non aveva un semplice mal di gola, ma il dottore sentenziò che le tonsille dovevano essere tolte al più presto.
Salvatore aveva la mia età, suo fratello Michele un anno in più. Erano i figli di un famiglia contadina di siciliani (provenivano da Caltanissetta) che abitavano a 50 metri da noi. Il loro babbo si chiamava Carmelino ed era diventato uno dei migliori amici del mio babbo.
Fu così che l’indomani andammo a Cesena per togliere le tonsille. Sul ‘’baruzen’’ (piccolo biroccio) trainato dalla nostra asina Nita, salirono Salvatore e la sua Mamma, io, e il mio babbo che guidava. Salvatore aveva mal di gola, ma tutti lo rassicuravano del fatto che togliere le tonsille era una cosa veloce ed indolore e che a tutti i bambini prima o poi venivano tolte.
Arrivammo nell’ambulatorio a Cesena che onestamente non ricordo più dov’era. Un medico con un camice bianco lunghissimo fece entrare Salvatore e la sua mamma. Non so esattamente cosa sia successo, ma non deve essere stato simpatico. Dopo alcuni giorni Salvatore mi raccontò che gli avevano fatto allargare la bocca e gli avevano messo una specie di ‘morsa’’ poi … un dolore atroce.
Comunque l’aspetto piacevole fu che subito dopo l’intervento ci comprarono un cono di gelato sfuso. Per me piccolo, per lui gigante per mitigare ed anestetizzare il dolore.