venerdì 28 luglio 2017

El brò grasso


Quand’eravamo bambini e ci lamentavamo per qualcosa che non ci piaceva, mia nonna era solita dire, scrollando la testa sconsolata: “A vé lagné del brò grasso!”
Con questa espressione voleva esprimere il disappunto perché non sapevamo apprezzare quello che avevamo a disposizione e che invece per lei era una risorsa preziosa, da trattare con rispetto e gratitudine.


Se qualcuno mi chiedesse in quale posto al mondo vorrei vivere, risponderei senza esitazione l’Italia, e precisamente qui da noi. Questo non per un riflesso condizionato, per sciovinismo o perché non ho mai messo il naso fuori dalla porta. Un certo uso di mondo infatti ce l’ho, avendolo girato parecchio; all’estero ci ho vissuto, ci ho studiato e ci lavoro e bazzico anche adesso. 
Ho pratica di paesi a noi vicini e anche lontanissimi, di culture che ci somigliano e altre che ci sono affatto estranee. Rifletto, faccio confronti, cerco di capire e trovare le ragioni dei modi di vivere e di rapportarsi dei vari popoli. In ciò mi aiuta la passione per l’antropologia culturale, che ho sempre coltivato.
In verità io sono un italiano un po’ anomalo, nel senso che non rientro nel cliché nazionale, come mi fanno a volte notare i miei interlocutori stranieri. Aborro, ad esempio, la tendenza ad identificare il nostro spirito nazionale nell'effimero, il tifo sfrenato e la faziosità. Da militare rischiai il linciaggio perché rifiutai l’alzabandiera fuori ordinanza la sera che l’Italia vinse i mondiali, mentre mi ritrovavo a presidiare la caserma nel generale svaccamento di tutti i gradi. Non riusciremo mai ad essere seri e affidabili finché legheremo la nostra identità alle cose insignificanti, svilendola nelle prove più impegnative.
Mi urta l'approssimazione, la disorganizzazione, la faciloneria, la mancanza di civismo che spesso ci caratterizza. Ricordo l’esempio di mio Padre, che piuttosto che parcheggiare fuori posto, faceva fuori un pieno per trovare quello consentito. Trent’anni di Svizzera l’avevano reso più rigoroso e preciso degli svizzeri stessi.

Pur non andando dunque affatto orgoglioso dei tanti difetti nazionali e che a volte mi fanno vergognare del mio passaporto, dico anche non tollero la poca stima che abbiamo di noi stessi e la inveterata abitudine a piangerci addosso e guardare l’erba dei giardini altrui, invece di metterci di buona lena ad innaffiare e concimare la nostra.
Accettiamo supinamente e adoranti lezioni di economia dai finlandesi, per esempio, il cui unico contributo all’umanità finora è stato forse il legname; oppure lezioni di etica dai soliti tedeschi, che hanno seminato il continente di odio, morti, e di distruzione come nessun altro. 
Va bene che comunque dalle lezioni, noi non impariamo niente, ma questa è un’altra storia.

Eppure ne abbiamo di cose di cui andar fieri e caratteristiche innate che hanno contribuito al progresso dell’umanità molto più di quanto non l’abbiano fatto coloro che oggi pretendono d’insegnarci a vivere. Viviamo in un mondo di globalizzazione tecnologica, ma la Cultura e la Bellezza non sono ancor riusciti a globalizzarle, e noi avremmo ancora parecchio da dire al riguardo. Viviamo in un territorio che non ha eguali al mondo in fatto di varietà di ambienti, clima, stili, prodotti, cibi e modi di essere, eppure lo lasciamo andare in malora. Abbiamo ancora una base morale solida e più santi e mistici di chiunque altro, ma ci accodiamo beoti al relativismo dei paesi del Nord Europa, che hanno riformato tutto e non riescono più ad inginocchiarsi se non di fronte al loro egoismo. Credo che non ci sia popolo al mondo che odi, più o meno inconsciamente, la propria tradizione, come l'italiano. Eppure è a di tanta parte di quella tradizione che è permeato il mondo occidentale.
Viviamo immersi in un mondo di stimoli culturali, paesaggistici, morali, sociali, ecc. che gli altri si sognano e che sono il portato di una civiltà millenaria, ma che non riusciamo più a percepire e considerare.
È misurandomi con gli altri che mi rendo conto di cosa potremmo essere se solo riuscissimo a fare sistema delle nostre abilità e dei nostri talenti invece di andare ciascuno per proprio conto e facendoci deliberatamente del male. 
Singolarmente spesso bravi, ma collettivamente una nullità, ecco cosa siamo. Incapaci di fare squadra e perennemente occupati a levarci la pelle dagli occhi uno con l'altro.
Che fosse proprio il nostro inveterato individualismo la causa prima dei nostri mali, l’aveva già capito il Guicciardini cinquecento anni fa. L’eccessiva cura del “particulare” come nostra debolezza nazionale. Un'autentica, secolare, maledizione.
Ci lamentiamo degli occhi di grasso nel brodo, dimenticando che sono quelli che gli danno sostanza e bramiamo il brodo di dado dei vicini. 
Aveva proprio ragione mia nonna!

Gianni Spagnolo

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