Per
un capriccio del calendario in questa prima settimana di maggio ricorre
il settantesimo anniversario della strage di Portella della Ginestra e
del primo volo Alitalia Torino-Roma-Catania.
La
mattanza siciliana e i suoi misteri saranno ricordati oggi dai
segretari di Cgil, Cisl e Uil in occasione della Festa del Primo Maggio,
leit motiv la necessità di garanzie e di diritti per il lavoro: allora
la
lotta al latifondismo per l’occupazione delle terre abbandonate, oggi
la lotta per l’occupazione tout court.
Di
quel primo volo non si dirà nulla perché la vertenza Alitalia finora ha
segnato una pagina tristissima del sindacalismo confederale,
sconfessato da una base distante e statalista e dalla concorrenza delle
sigle
più corporative e demagogiche.
Eppure
il caso Alitalia può essere paradigmatico per ciò che è ormai diventato
il lavoro globalizzato, ma anche per ciò su cui la rappresentanza degli
interessi dei lavoratori deve riflettere. A cominciare dalla deriva
pericolosa creata dall’ideologia della disintermediazione sociale, a
sua volta corollario del mito della democrazia diretta, possibilmente
online, in cui il leader parla direttamente al popolo, considerato nella
sue diverse accezioni: popolo di cittadini elettori,
consumatori, contribuenti, lavoratori. Sempre più spesso
popolo-audience.
Senza
mediazione sociale resta solo il nugolo delle pulsioni individuali e la
sintesi diventa impossibile se non attraverso il denominatore comune
dell’emotività di pancia, brutalmente una sommatoria di egoismi.
Nel
caso Alitalia la linea della ragionevolezza e del realismo, propria di
ogni situazione di drammatica ristrutturazione aziendale, non ha trovato
seguito nei lavoratori, abbacinati dalla propaganda di chi ha puntato
tutto sul non-detto della possibile nazionalizzazione della compagnia
di bandiera. Un non-detto che ha guidato decenni di relazioni
industriali in quella società. Progetto oggi anacronistico e che già ha
assorbito risorse ingentissime dei contribuenti.
Ciò
che fa di questa vicenda un simbolo delle distorsioni contemporanee è
la conferma di quale sia il vero spread da temere: la distanza tra la
complessità delle situazioni economiche e sociali in un mondo
interconnesso
e globalizzato e la iper-semplificazione dei messaggi di chi propone
diagnosi e terapie con battute e slogan, fabbricati a uso dell’emotività
basica dei gruppi sociali di riferimento. Diventa anche la prateria
ideale dove scorazzano indisturbate le famigerate
fake news.
Il
tema del lavoro, come altri, non è mai semplificabile. Tantomeno oggi.
Intreccia l’anomalia di una formazione universitaria poco diffusa e, al
contempo, centrata su profili che chi dà lavoro non cerca, con
l’apartheid
verso i giovani, in un Paese dominato dalla tendenza
all’invecchiamento, ossessivo nella discussione sulla spesa per welfare e
pensioni e assai meno attento alle risorse da destinare alle politiche
attive per far incontrare domanda e offerta di occupazione.
Il Primo Maggio, per avere senso, deve sfidare la pigrizia culturale di
chi conduce la discussione pubblica e la mantiene ferma a stereotipi
lavorativi del Novecento, senza contare che l’occupazione sarà sempre
più destinata a intrecciare forme di auto-imprenditorialità
e a trovare nuovi equilibri (e nuovi saperi) con l’avvento sempre più
massiccio del lavoro dei robot e dell’intelligenza artificiale. E senza
contare il crescente peso di una nuova forma di emigrazione dei talenti.
I
giovani sono le vittime vere di questa situazione. Hanno vissuto, da
ormai un paio di generazioni, in una idea precaria del lavoro, da
outsider, e il riscatto per chi si è sentito un “paria” diventa spesso
il sogno
o la fuga in avanti; magari inventando una app o un blog da influencer
di successo da “vendere” a qualche gigante del web per poi vivere di
rendita e ritentare la sorte. È lavoro subordinato? Parasubordinato? A
chiamata? È fare impresa? Probabilmente non è
nulla di tutto questo e l’eterno dibattito sulle regole parla sempre
d’altro. Soprattutto se l’idea del lavoro si trasforma nel prodotto di
altrettanti “rentier di se stessi”, in un’idea di vita come “mosconata”
speculativa.
Del
resto è difficile scommettere su percorsi formativi certi che possano
davvero dare la garanzia del lavoro futuro in questa Italia dove scuola e
impiego sono così scollegate. Dove servono più saldatori specializzati
o gestori di big data che non avvocati (di cui l’Italia continua a
essere in sovrannumero). La confusione è grande sotto il cielo di un
federalismo slabbrato che ha proprio nella formazione il suo principale
esempio di inefficienza regionale (simbolo tra l’altro
della velocità diseguale tra Nord e Sud).
Il
fatto che anche il progetto europeo di Garanzia giovani finisca in
Italia per camuffare semplici stage (nel 68% dei casi) è segno di un
errore strategico. Sarebbe meglio che la Garanzia giovani si traducesse
in
sempre maggiori casi di contratti di apprendistato, ma questa
fattispecie di ingresso al mercato del lavoro è da sempre indebolita
dalle scarse risorse e dalla incapacità delle Regioni di renderlo
strumento appetibile per l’impresa.
Un bel tema da Primo Maggio,
ma non ne parla nessuno.
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