Quand’ero bambino mi dilettavo a
giocare nel baito dietro casa con gli
attrezzi del nonno. La maggior parte
degli utensili e delle cose che c’erano là erano di provenienza militare.
Reperti della prima guerra mondiale, che aveva distrutto il paese. Oggetti racimolati sulle montagne intorno e riciclati per gli usi agricoli e boschivi; come
nella mia, così era probabilmente in molte case del paese.
Sono cresciuto
svuotando bossoli e lucidando pallottole, raccogliendo palle di schrapnel, culi di bomba e schegge d’ogni
tipo e foggia. Facevo i miei primi lavoretti battendo sullo schermo graduato di
una mitragliatrice Schwarzlose fissata al banco da falegname, con un curioso attrezzo, mezzo martello e mezzo menaròto, del Genio Imperiale. Casse di
munizioni, bossoli, fibbie, finimenti, tenaglie da reticolati, gavette, borracce, picchi e mazze, elmetti,
canne da fucile, ecc.; tutto era stato dotazione degli eserciti di entrambi i
fronti.
L’incamiciatura in maillechort del piccolo proiettile
calibro 6,5 dell’M91 italiano si prestava ad una bella pulitura, ma non reggeva
il paragone con la filante ogiva 7,92x57 del Mauser tedesco, peraltro quasi
introvabile. Non mi piaceva granché, invece, la munizione dello Steyr-Mannlicher
M.95 austriaco, il famoso ta-pum dei
canti di naja. Va però detto che i suoi quadretti di balistite, davano migliori
risultati della nostrana solenite per i nostri scopi pirotecnici.
Le guerre erano allora
onnipresenti nel nostro immaginario di bociasse,
alimentate con dovizia di particolari dai reduci ancora viventi e
dalla retorica patriottica.
Questa passione per le cose militari sfumò
rapidamente una volta che prestai a mia volta servizio di leva. Fra marce, assalti a fuoco e esercitazioni di
ogni tipo, anche lo sparare mi venne a noia, così come in genere le cose riconducibili
ad attività belliche. Cominciai un po’ a capire l’assoluta avversione che aveva
mio Padre per le armi e che tanto aveva tarpato i miei entusiasmi negli anni
piccoli. Lui aveva certo vissuto esperienze e maturato convinzioni che solo ora
iniziavo a comprendere.
Questo imprinting, per così dire,
mi tornò poi utile in qualche mio viaggio fatto in Ucraina e Russia in tempi
più recenti.
Mi trovavo infatti nell’immensa
piana del Donbass, nell’Ucraina orientale, non ancora vittima della recente e
disastrosa guerra civile. Ragioni di lavoro mi portano spesso in posti e regioni remote,
lontano dai percorsi turistici e dove normalmente un viaggiatore occidentale non
mette piede. Per un curioso inveterato come me, la cosa è però sempre interessante
perché mi permette di approfondire aspetti di vita locale che altrimenti non
avrei modo di conoscere. Quelle cittadine non hanno tuttavia particolari attrattive, se
non il tradizionale mercatino domenicale delle pulci, dove i locali espongono
le loro merci più disparate. Elemento predominante di queste
esposizioni, oltre alle anticaglie e cianfrusaglie che si trovano un po' dappertutto, sono
le cose militari: reperti di quella seconda guerra mondiale che qui ha
lasciato un segno profondo.
Poco più ad oriente, infatti,
scorre il Don, nome assai evocativo anche nei nostri ricordi. A sud-est s’elevano le
montagne del Caucaso, dov’erano inizialmente destinati i reparti Alpini di
quella scellerata campagna dell’ARMIR. Più a nord, oltre il confine con la
nuova Russia, c’è Nikolaevka, altro nome che ci è familiare. L’offerta di
reperti militari è impressionante: oltre ad una ovvia vasta rassegna di quelli
russi, parti di uniformi, documenti, colbacchi, caschi, distintivi, medaglie,
baionette e ogni sorta di accessori, c’è una miniera di reperti dell’esercito
nazista.
Distintivi della Waffen SS "Viking" e del III Panzercorp, che qui combatterono, cartoline e
lettere, fotografie, documenti ed effetti personali, ruolini di reparto, parti
di munizioni e di uniformi di ogni foggia e grado che da noi sarebbero assai
ambite. Mi attardo ad analizzare quei frantumi di storia, a leggere quei
documenti scritti in caratteri gotici e le cartoline spedite dal fronte e mai
arrivate ai destinatari: il lato più umano di ogni guerra.
Osservo avidamente se
trovo qualcosa di familiare, di riconducibile al nostro Corpo di Spedizione.
L’occhio allenato mi porta verso qualche caricatore dell’M.91, delle giberne grigioverdi, una mantellina tarmata con le
inconfondibili mostrine fiammate e, ... ruscando in una scatola piena di varie cose, … una
consunta ma inconfondibile nappina verde.
Di quello stesso colore la portò
mio nonno sull’Ortigara e più di recente anch'io!
Me la rigiro, un po' incredulo, fra le mani, nello stupore del vecchio
venditore che probabilmente si chiederà cosa mai mi possa attrarre in quello strano battuffolo arruffato e scolorito.
Qui siamo un po’ più a sud dell’area della Sacca del Don; i nostri reparti combatterono più a nord, a ridosso dell’attuale
confine con la Russia. In questa zona agirono principalmente le divisioni
corazzate tedesche che puntavano ai ricchi giacimenti petroliferi del Caucaso e
che rasero al suolo Stalino. Chissà chi era e che fine avrà fatto quell’alpino
dell’Edolo, del Saluzzo, ma più probabilmente del battaglione Cividale
della Divisione Julia, immolatosi a Kalitva. L'avrà portata orgoglioso inastata con la sua penna nera.
Furono necessarie 200
tradotte per trasportare in nostri soldati in Russia; ma ne bastano solo 17 per
rimpatriare i superstiti.
La mente vaga.
Cosa avranno pensato i nostri alpini
all’andata, calpestando questa terra nera e grassa, soffice coperta di una
pianura fertile e dall’orizzonte libero e infinito?
Loro, avezzi
alla terra magra e sassosa delle nostre vanéde, agli orizzonti limitati dalle montagne e alla
quotidiana fatica del salirle?
Cos’avranno pensato i pochi che ritornarono,
a calpestarla ghiacciata verso un orizzonte bianco e ormai, per troppi, irraggiungibile?
La giornata è
triste e uggiosa, il freddo pungente e mi pervade una strana angoscia. Preferisco
distogliere lo sguardo ed il pensiero verso cose più amene, come le splendide
bambole ucraine costruite con prodotti agricoli locali, i lavori di artigianato
con la scorza di betulla e le colorate icone dell'arte bizantina.
Ce ne sono di vario tipo e foggia e alcune di esse sono dipinte su vecchi pezzi di porte delle isbe; i colori sono sbiaditi, ma la fattura è spesso notevole e
l’effetto struggente.
Materne Madonne con Bambino, simili alle molte appese un
tempo a capoletto nelle nostre case. Chissà cos’avranno pensato quei nostri soldati che
a quelle porte bussarono per trovare un po’ di calore e ristoro nella, spesso inutile, marcia di ritorno a baita.
Eccoli, ... i pensieri che ritornano….
Gianni Spagnolo
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