Si
deve risalire al Medioevo per capire come nelle nostre povere zone e
contrade, gli abitanti erano obbligati per vivere a coltivare
le piccole proprietà di valle. Soprattutto esercitavano i cosiddetti
"usi civici" sui terreni boschivi collettivi che si
trovavano in montagna, praticando per i propri bisogni primari
famigliari la raccolta dell’erba, della legna da ardere e
“roncando“ (dissodando i terreni vegri) per renderli idonei
alle coltivazioni agricole.
Così
di certo si faceva ab origine a San Pietro e negli altopiani attorno,
considerando che l’esercizio di questi usi civici era quasi
certamente l’unico modo che spesso impediva di morire di fame
quando le annate volgevano a carestie.
Nelle
foreste delle nostre montagne dell’Altopiano, così abbondanti di
abeti, veniva praticato anche il taglio ed il commercio del legname.
In
quel periodo, proprio per mancanza di strade di comunicazione, i
tronchi tagliati venivano fatti precipitare nelle valli sottostanti.
La
nostra via di comunicazione tra l’alpe e la pianura era la Val
Torra, che riceveva nei mesi estivi grandi quantità di legname. Nel
periodo invernale poi, si costruivano speciali canalette chiamati
ponti, che una volta ghiacciati confluivano a scivolo il legname fino
a valle. Qui poi a mezzo di muli, cavalli e soprattutto buoi,
attraverso la “Strada Boara” (che ancora si può vedere in
località capitello della Torra), venivano trainati e depositati in
gradi cataste (tassuni) nelle immediate adiacenze dell’Astico, in
attesa di poterli fluttuare lungo il fiume fino alla loro
destinazione definitiva, che quasi certamente erano i cantieri navali
della Serenissima Repubblica Veneziana, che a quei tempi era
riconosciuta una grande potenza e li usava per la sua flotta
marinara.
Con
l’evolversi del tempo questa pratica venne abbandonata e si dovette
pensare ad un nuovo e più adeguato collegamento mediante la
realizzazione di una strada carreggiabile.
Si
iniziò così la costruzione della “Singéla”.
Non
è dato di sapere l’epoca esatta di edificazione del collegamento,
di certo la sua realizzazione non fu tra le più semplici, stante
l'epoca e il dislivello da superare, nonché la posizione orografica
in cui si doveva inserirla.
Sappiamo
che la Singéla è nominata per la prima volta in recensioni
storiche nell’anno 1602, dal nobile Francesco Caldogno,
incaricato dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Egli scrive dopo
aver preso visione dei passi ed interessi di stato sui ricchi pascoli
di Vezzena e Camporosà e ci informa che imboccò il sentiero della
Singéla percorrendo il fianco sinistro della Torra, calando
rapidamente in quello dell’Astico. Annotava infatti: “discesa
pericolosa e molto longa”, compiuta sotto la pioggia continua.
Si
sa poi che tra il 1869 ed il 1880 venne riattata a varie
riprese per assumere lo stato ed il percorso attuale; entrò così,
nelle tribolazioni e nel mito della gente di San Pietro.
La
Singéla, così dice la poesia recitata al capitello della
Singéla in occasione della S. Messa d’agosto 2015:
Jero
l’arteria principale, colegàvo el servélo dela Vale, con el core
dela Montagna, dove jera l’unica cucàgna.
Con
questa strada che collega il paese di San Pietro ai boschi di uso
civico nelle montagne sovrastanti, gli abitanti hanno sempre avuto un
particolare rapporto, direi quasi mitico. Anche ora che è
praticamente in disuso, infatti, ogni cittadino appena viene nominata
se la sente incollata addosso, quasi obbligato a vivere in simbiosi
con la stessa.
Tutti,
dico tutti, nei tempi passati, erano obbligati a percorrerla
perché lassù c’era in pratica la materia per sostentamento
dell’intero Paese.
La
prima volta che veniva affrontata la dura salita dai giovani,
iniziava un’avventura, ed era proprio di un’avventura che si
trattava. L'iniziazione assumeva caratteri di cerimonia, quasi
di rito mitologico satanico, morale. Infatti dopo la prima volta che
la si superava in età giovanissima, avveniva all’interno della
comunità una presa d’atto, una sorta di riconoscimento, come in
certi riti nelle tribù africane. Allora non eri più considerato un
bambinello (bociéta), ma per aver fatto la Singéla diventavi
ragazzo, cioè bòcia.
Ebbene,
il dramma di tutti i bocia di San Pietro della prima volta, era il
fatto, da tutti ricordato, che bisognava baciare il Lato B pieno di
brode alla Vecia, che aspettava tutti al varco prima di
arrivare in Cima Singéla, Questo certo ha impedito di dormire a
molti ragazzotti in procinto di affrontare l’impresa.
E
fu così che, in giovanissima età, toccò anche a me di affrontare
l'ignoto. Per l’iniziazione venni accompagnato dal mitico zio
Fiòssaro che abitualmente, per ragioni di lavoro, percorreva la
strada come cavallaro.
La
sera prima vengono preparati con cura gli scarponi e passati con un
abbondante strato di saònda, scarponi strettamente fatti a mano dai
calzolai Bonato dai Lucca, gli unici abilitati a fare le scarpe alla
famiglia Crosati che, data la loro stazza, calzavano abitualmente il
numero 46/47. Questi scarpàri si erano dotati delle forme in legno
adeguate, e per i ragazzi le calzature venivano abbellite con una
cinghietta collocata sopra la tomaia, con relativa fibbia.
Prima
di andare a letto bisognava attrezzare e controllare il Baròsso. Si
doveva procedere dunque ad oliare l’asse di scorrimento delle ruote
con olio usato di ricambio dei motori, che era tenuto in un vecchio
barattolo senza coperchio. In questi alloggiava uno speciale pennello
fatto con il pelo tagliato alla coda di una mucca e fissato con filo
di ferro ad un bastoncino che fungeva da manico; nel contempo veniva
oliata pure la bronzina delle ruote del carro el canonsìn e la
machinéta, cioè un congegno a vite senza fine che agiva con un
tirante su una catena che azionava un freno manuale agente sulle
ruote posteriori. Sotto le stanghe del baròsso erano inchiodati due
sacchi con le estremità aperte, uno conteneva il fieno e la musetta
con la biada per il mulo e nell’altro prima di partire nella notte
venivano infilate le provviste di sostentamento: rigorosamente,
polenta e formaggio, o qualche fetta di salame o salsiccia lugànega
e una bottiglia di acqua; in una di queste sacche prendeva posto
anche un ombrello.
La
sera fatale a letto prestissimo e nell’occasione si dorme in camera
di zio Fiòssaro. Posata nel comodino c’era una sveglia che
inizialmente terrorizzava, scandiva i secondi con la rumorosità dei
magli che una volta operavano nelle fabbriche delle Seghe di Velo
d’Astico; ad ogni secondo tremava il solaio della camera, che era
di legno, poi piano piano la stanchezza e la gioventù prendeva il
sopravvento ed arrivava il sonno.
Passata
di poco la mezzanotte, come un carosello di campane, che squarciava
la notte suona la sveglia.
In
cucina, a cura della nonna, è pronto il caffelatte, sulla maestà
(batùa ) della porta della stalla del mulo si accende una lampadina
che era sprovvista di interruttore, ma funzionava manualmente
avvitandola o svitandola dal supporto.
Una
luce debole illumina la stalla e la corte ove avvengono le operazioni
di finimenti al mulo. Per prima è posta in groppa la sella, e sopra
di essa viene posizionata una resistente cinghia che deve sostenere
il baròsso, poi attraverso il collo viene posizionato il comàcio, e
poi il sotopànsa e per ultima la briglia, prima di agganciare il
baròsso. Il mulo si chiama Pitone, perché di corporatura superiore
alla media, e nonno diceva “Pitone fa ricco il tuo padrone che poi
ti vendo.”
Dopo
le raccomandazioni materne al Fiòssaro di guardarsi dal male e
vegliare al toso, si parte per la grande avventura.
L’apprensione
inizia a salire, il pensiero corre alla vecia che mi aspetta..., ma
per ora si va.
Sebbene
siamo in piena notte, quando si arriva nelle vicinanze di
Tullio del Sauro, questi viene chiamato rumorosamente dallo zio; già
si vede che comunque è operativo e si accinge a partire. Si arriva
nella piazza del paese e con un urlo lo zio chiama el Moro Lusso, che
bisogna partire; intanto lo zio continua la traversata di San Pietro
e con le medesime tonalità canore che sono delle vere grida, vengono
invitati i restanti cavallari, cioè: Ice Conte, Gigiòta, Pesavento
e Giani Minai a seguire la carovana. Sono questi infatti, a mio
ricordo, gli ultimi professionisti, mitici, eroi, che chiuderanno
l’epopea tribolata e fortunosa dei cavallari della Singéla.
Sono
stati veramente questi gli ultimi che hanno operato per una vita
sulla Singéla.
Personaggi
che hanno vissuto sulla loro pelle le immani tribolazioni che il duro
compito imponeva loro, lavorando con le mani, con la testa, ma
soprattutto con il cuore; hanno vissuto, oltre che la fine di
una epopea, anche una esperienza unica che solo praticando la
montagna può manifestarsi, la vera amicizia, il lavorare insieme,
sentirsi tutt’uno con il pericolo, la fatica, nel bisogno
aiutarsi. Sapere che avevi dei compagni su cui potevi affidare la tua
vita e sui quali contare nei momenti di particolare disagio sia
fisico che morale.
Non
disdegnavano però, in alcuni momenti quando casualmente si
ritrovavano sui repòssi della Singéla, anche se particolarmente
stanchi, di dedicarsi ad un momento di relax e particolare felicità.
Così, fra le donne che scendevano con il carrettino a mano carico,
venivano chiamate a raccolta le Bonate, la Linche, l’Argenta, le
Lusse, la Catina, la Nebrasca, che erano autentiche canterine note
anche per la loro tonalità canora. Queste, accompagnate dalla
possente voce di Giani Minai, inneggiavano alla partenza per
l’America, alla malattia della Emma a chi si è fatta Monaca, alla
Barbiera, all’amore, e certo non mancavano gli inni alla miseria, e
alla sfortuna.
Erano
cante popolari molto conosciute e intonate con maestria, che
toglievano le fatiche e per un momento facevano dimenticare le
difficoltà del momento e le privazioni presenti in ogni famiglia
della valle.
Intanto
il paese viene attraversato e già si intravede l’ultima luce
pubblica che illumina con una luce fioca la contra' Lucca, questa è
agganciata all’angolo della casa della Moretta, dove si diparte la
Singéla.
Appena
la conformazione del fondo stradale cambia, le gambe di Mario
subiscono un primo tremolio, ora prende coscienza che la vecia lo
aspetta!...
La
salita si fa dura, e bisogna prevedere delle soste per far riposare
il mulo.
1°
repòsso al Sojòlo, già si sentono i rumori dei baròssi le cui
ruote saltano sul selciato della strada: sono i colleghi cavallari
che salgono.
2°
repòsso l’ara del Salto, i rumori di quelli che seguono si
avvicinano, anche perché i loro animali sono partiti più tardi e
sono dunque più riposati. Si arriva al 3° repòsso al Buso de
Paolo e qui i cavallari si radunano, si accendono una sigaretta,
fanno quattro chiacchiere, però la novità è che Mario deve baciare
il lato B alla vecia...
Ice
Conte si diletta nella descrizione del deretano in maniera spaventosa
e probabilmente solo perché gli manca il coraggio Mario non scappa.
Mano
a mano che si sale, a Mario terrorizzato incominciano a chiudersi gli
occhi dal sonno, cosicché si appoggia con una mano al traverso del
scagnélo che copre le ruote e dove verranno caricati i tronchi, con
gli occhi chiusi accompagna il carro; senonché, non vedendo la
conformazione della carreggiata, ad ogni traverso (canaletta profonda
di scolo delle acque piovane poste di traverso alla carreggiata) che
incontra, rischia di caderci dentro.
Si
sale il Pontaròn e per un tratto le pendenze cambiano, infatti si
arriva sui Fundi, (zona pianeggiante), poi al 4° repòsso si arriva
al Capitello della Singéla, e tutti raggruppati di nuovo, con
l’ordine del giorno: Mario e... el buso della Vecia da passare
prima di arrivare alla cima.
Ripartendo
e lasciando l’ansa del 4° repòsso, già le folate dell’aria
fresca della Val Longa investe fa capire che la sommità è vicina
dunque bisognerà pagare pegno.
Sempre
in salita arriviamo al 5° repòsso, al Tornante del Costo de Baù,
poi al tornante successivo la svolta del Moltrin, da cui zio Fiòssaro
chiama le Vecia, le mie gambe sono debolissime e frolle, chiama la
vecchia signora ancora più volte, ma non c’è nessuna risposta,
rallenta un po' e Giani Minai mi dice: vuoi vedere che sei
fortunato “ la Vecia no ghe ze”.
Il
mio cuore batte a mille finché arrivo davanti al buso dela Vecia,
non è ancora l'alba, per cui non posso vedere niente all’interno,
i muli ed i baròssi oltrepassano il luogo che è stato per le ultime
due ore il mio calvario. Più ci allontaniamo e più mi rincuoro e
prendo coraggio, saliamo sempre, ecco la svolta del Toro, sempre sù
ed eccoci alla svolta nuova, passiamo finalmente sotto el Sojo Alto e
oltrepassiamo la svolta della Manetta, e mi rendo conto dell’immane
pericolo a cui sono scampato. Eccoci ora al Cògolo del salàdo, in
dirittura Cima Sojo Alto, qui le compagni si dividono. Chi si dirige
verso la Porta, chi va verso i Frattùni, l'ultimo saluto guardéve
dal male e si risponde: se Dio vole.
Con
zio Fiòssaro e Tullio del Sauro prendiamo la direzione dei
Frattoni: la strada cambia in queste zone di pendenza e si fa
pianeggiante, si sta facendo giorno ed appena giriamo a sinistra e ci
inoltriamo nella Val del Cimitero, un profumo di fragole, lamponi,
mirtilli (azaréle) mi avvolge e mi toglie tutta la stanchezza.
Arrivati
sul Tasòn di carico delle bore, i muli vengono staccati dai baròssi
e lasciati liberi a riposare; viene dato loro il fieno e poi saranno
ricompensati dalle fatiche con una musetta di biada che attaccata al
collo dell’animale viene consumata liberamente.
Intanto
per primo viene acceso il fuoco, sulle cui braci poi verrà messa a
brustolare la polenta, accanto al fuoco mi rincuoro e prendo
coraggio e già vedo qualche fragolina che prontamente raccolgo,
L’albeggiare
ha lasciato il posto al sole e la giornata si preannuncia bellissima,
sono invaso da sensazioni uniche che ancora mi sembra di percepire,
il profumo dei grossi abeti, dei frutti di bosco, la rugiada
sull’erba, l’odore dei sudore dei muli per l’immane fatica di
aver trainato fin quassù il carro, i rumori e le grida della gente
compaesana presente nei dintorni, la nostra montagna insomma, e
forse non da ultimo il fatto di aver evitato il bacio mortale! E la
consapevolezza di aver fatto la Singéla la prima volta.
Intanto
i due compagni, si aiutano predispongono il carico dei baròssi, ogni
tronco viene valutato con occhio intenditore se va caricato di testa
o di coda, secondo lo spazio che resta nel carro.
Quando
i carichi sono ultimati, prendiamo posto attorno al fuoco, mentre i
muli si riposano viene consumata con voracità la polenta brustolà
che ha il sapore ed il profumo di un manicaretto.
E’
ora di intraprendere la discesa, che va predisposta con particolare
perizia, per il potenziale pericolo che comporta.
Da
sopra il Sojo Alto, una breve sosta per controllare il carico e se
tutto è perfettamente in regola; si controlla soprattutto che la
macchinetta sia efficiente, che lo strascico (strosso) sia adeguato
al carico che parte in discesa. Da quella posizione è tutto
perfettamente visibile il tracciato della Singéla, scoperto dalla
vegetazione, che si intaglia sulle cenge della Val Torra fin dove si
intravede l’Astico nel fondovalle.
Mentre
la stanchezza incomincia a prendermi, ripasso davanti al Buso dela
Vecia e mi rendo conto, sebbene giovane, delle fandonie cui avevo
creduto, constatando che in quel buco non poteva vivere nessuno.
Prendo atto così di questa credenza popolare che ancora oggi, in
qualche famiglia di San Pietro, è raccontata e che nel
tempo della mia giovinezza ha creato non pochi incubi...
Scendendo
la Singéla, incontro dei paesani che stanno salendo a raccogliere la
legna che sarà caricata su dei carrettini (scalà) ora sono
portati sulle spalle dei più forti, mentre i giovani che
accompagnano devono subirsi le ruote, o le corde e quant'altro
occorra per allestire poi il carico. Incontro Gusto Recieta e anca el
vecio Matiùni, gli stradini che, ognuno nel suo tratto di competenza
, stanno facendo manutenzione alla strada, curando i bocarùi, che
nel tardo pomeriggio, dopo il passaggio degli ultimi utenti che
tornano a casa, dovranno essere accuratamente ricostruiti, per
impedire il dilavamento della carreggiata in caso di temporali. Non
di rado, questi incaricati, quando nelle notti estive si sentiva il
temporale da lontano ed il tempo prometteva piogge intense, si
alzavano a qualsiasi ora e, illuminati da una lanterna (ferale), o
addirittura da una candela, risalivano la Singéla al fine di
accertarsi che tutto fosse a posto e in regola, pena l’asportazione
del fondo stradale. Durante la giornata, con apposite
mazze de bàtere giara, frantumavano dei sassi per ridurli in ghiaia
da stendere sulla sede stradale, considerato che nelle vicinanze era
praticamente impossibile reperire dello stabilizzato per dare una
certa conformità al fondo stradale.
Più
scendo e più la stanchezza mi assale, le gambe tentano di
incrociarsi e finalmente arriviamo al Campo dove si ha la panoramica
della Valle. Saremo presto a casa, dove infatti, dopo aver
portato il carico alla segheria dei Barattieri dei Arfiri (segheria
Lorenzi di Forme Cerati), dirigiamo i nostri passi.
Ci
aspetta un fumante minestrone e dopo aver mangiato... di filato a
letto, strettamente senza lavarsi, come dice la nonna, l’acqua
risveglia e rende nervosi quando si è stanchi.
Dopo
una dormita ristoratrice mi alzo ed appena esco nella corte mi sento
un altro ragazzino, anzi non lo sono più... son un bocia che gà
fato la Singéla per la prima volta.
Di
seguito altre tantissime volte sono salito sulla Singéla, fino a
raggiungere i luoghi più distanti della nostre montagne, sia con zio
Fiòssaro sia con i miei genitori o parenti, ed in quelle occasioni
ho imparato a conoscere i luoghi e le località i toponimi dei nostri
territori di uso civico che permettono di conoscere in qualsiasi
momento il luogo esatto della montagna;
Frattoni,
Pra de Zorzi, Teleferica, i Runchi Veci, Posta della Pontare, Fratte
de Poselaro, Val del Vacaretto, Longalaita, Dosso del Trugolo,Val del
Vacaretto ecc.
Sono
le località nelle quali i nostri avi hanno praticato lavorando,
dissodando coltivando con immane tribolazioni, vivendo di stenti e di
quanto il territorio proponeva e dove avrei dovuto tribolare e vivere
anch’io.
Fortunatamente
le cose sono cambiate, l’era industriale ha sconvolto la nostra
civiltà rurale, la maniera di vivere, tutto è cambiato, dandoci
tutte le comodità ed agi possibili.
Meglio
così! Allora la Singéla come dice la poesia era... da dòvene
jero bela, jero forte, robusta e potente;
portavo
muli baròssi e gente… desso no porto pi gnente...son ruinà e
decadente... Desso che son vecia e bruta... no ghe zè pì nessun che
me juta.
Ora
si sale la Cingella! (ha cambiato perfino il nome!) per fare una
passeggiata, nel periodo di ferie o nei giorni festivi, attrezzati di
tutto punto con abbigliamento da montagna all’ultima moda,
acquistato nei magazzini specializzati con scarpe che respirano, con
borracce termiche, con zaini strapieni di integratori, con cioccolate
di tutti i tipi, con due bastoni di alluminio, per non cadere nei
Bocarùi!...
Meglio
così?…
Fermatevi
una volta al buso dela vecia e immaginatevi quanta polenta è passata
di là; immaginatevi gli scarponi fatti a mano con sopra la
cintura e la fibia, i baròssi ed i cavallari, e carrettini a mano.
Pensate a quanta povera gente piegata su se stessa nell’intento di
strascicare verso casa alcune rami o piantine di abete è transitata
negli ultimi secoli, ma soprattutto, annusate. Annusate, se
arriverete a percepire le sensazioni, gli odori ed i profumi che ha
sentito Mario per la prima volta in Val del Cimitero sarete invasi ne
sono sicuro da sensazioni uniche che non potrete dimenticare più...
San
Pietro, 17/03/2017
Mario
Pesavento Crosato
Ben valà, ciò, .. un bel raccontino. Bravo Crux.
RispondiEliminaVorrei richiamare l'attenzione di Pedescaligeri, Barcarolieri, Fornicatori, Valpegaroises e Masochisti su un fatto spesso trascurato, ma che giustifica l'indole un po' così degli abitanti del Capoluogo. Generazioni di fanciulli sanpieroti vennero reiteratamente sottoposti ad atti di compiaciuto, sisteatico e terroristico bullismo mirante a far loro baciare il deretano puzzolente e pustoloso della Vecia su al Cogolo.
Pensavate forse che questo cinico sistema educativo non avesse lasciato indelebili tracce nella tenera psiche di quei giovinetti? Se dunque in età adulta si manifestano disagi comportamentali, paranoie e disturbi vari della personalità, è proprio in ragione delle turbe subite in gioventù.
Invito perciò i covalligiani a valutare la faccenda con un po' di maggior tolleranza e misericordia.
Bravo Mario a tener vivi questi ricordi, e bravo Don Sponcio per l'arguta analisi
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