domenica 30 aprile 2017
sabato 29 aprile 2017
In più occasioni ho espresso il mio apprezzamento per i "murales". Sarebbe indubbiamente un'idea come un'altra per dare un po' di vita a Paesi purtroppo "spenti" come il nostro. Condivide il mio stesso punto di vista anche Odette che m'invia queste foto. Sappiamo che tra il dire e il fare... ma gli Artisti in Valle ci sono... eccome ci sono... e anche molto bravi. Prendere spunto e dove fattibile abbellire qualche angoletto???
venerdì 28 aprile 2017
Cogollo. Strage di pecore sulla Sp. 349. Un camion le falcia. Traffico paralizzato
Si sta ancora facendo il bilancio di quante pecore siano
morte e quante sono da sopprimere nell’incidente accaduto questa mattina
a Cogollo Del Cengio lungo la Sp. 349, in località Rutello, zona
Siderforge Rossi.
E’ da prima delle 10 che il traffico è completamente paralizzato.
Gravi disagi per chi doveva andare al lavoro e ha dovuto anche saltare
qualche appuntamento.
Il traffico è stato fatto deviare dopo che la strada è stata fatta
chiudere dalla Polizia Locale di Cogollo e dai Carabinieri di Schio.
Sul posto i veterinari dell’Ulss, chiamati per soccorrere le bestie
ferite, constatare i decessi e valutare l’eventuale soppressione di
animali per i quali non si potrà intervenire.
altovicentinonline
Asiago è pronta per il Giro d’Italia. Presentato l’evento dal Governatore Zaia
“Quella che attraverserà il Veneto non è una tappa
qualsiasi. E’ un tappone, per più di un motivo: tecnico, ambientale,
storico, promozionale. A seconda dei distacchi che si determineranno
all’arrivo, ad Asiago si potrebbe incoronare il vincitore del Giro
d’Italia 2017. Ancora una volta ringraziamo Mauro Vegni e la sua
straordinaria organizzazione rosa. Oggi come quel giorno nei nostri
cuori c’è il ricordo di Michele Scarponi, che ci ha lasciato in
circostanze tragiche e che sentivamo come un coneglianese d’adozione,
per la cara moglie Anna Tommasi, che è di Conegliano, e per i primi
tratti della sua carriera svoltisi in seno a squadre ciclistiche
venete.”
Con queste parole, il Presidente della Regione del Veneto Luca Zaia,
affiancato dal Direttore del Giro d’Italia Mauro Vegni, e alla presenza
degli Assessori regionali Federico Caner (Turismo) e Cristiano Corazzari
(Sport) e del Sindaco di Asiago Roberto Rigoni, ha presentato oggi a Cà
del Poggio nel Comune di San Pietro di Feletto (Treviso), la tappa del
Giro 2017 che, sabato 27 maggio, porterà i corridori da Pordenone ad
Asiago, attraversando tre province venete: Treviso, Belluno e Vicenza.
“Grazie alla disponibilità degli organizzatori del Giro – ha aggiunto
Zaia – anche quest’anno proseguiamo nella strategia scelta a suo tempo
di abbinare la corsa ciclistica più amata dagli italiani alla memoria
storica della Grande Guerra, e così intendiamo fare anche per l’edizione
2018. Ad ogni tappa – ha ricordato il Governatore – si brinderà in
Veneto con il Prosecco Astoria, in Veneto, ad Asiago, probabilmente
avremo il nome del vincitore del Giro 2017. Questo Giro, pur se con una
sola tappa, parla Veneto alla grande e sono certo che grande sarà la
risposta degli appassionati veneti lungo le strade rosa, quest’anno come
in quelli precedenti”.
La tappa presenta moltissimi elementi d’interesse, sia dal punto di
vista tecnico, che da quello dei territori attraversati. Con tre Gran
Premi della Montagna, due dei quali (Monte Grappa e Foza a pochi
chilometri dall’arrivo) di prima categoria, promette grande selezione,
ed è comunque l’ultima occasione per gli scalatori di mettere distacco
tra sé e i passisti che, se a tiro, potranno tentare qualcosa nella
successiva crono di 29 chilometri da Monza a Milano. Tutto dipenderà
dall’entità dei distacchi.
Il percorso entrerà in Veneto da Conegliano, per affrontare un primo
“strappo” di quarta categoria a Cà del Poggio, attraversare poi gli
splendidi saliscendi delle colline del Prosecco, dirigendosi verso
Feltre, nel bellunese, per poi affrontare l’ascesa ai 1.620 metri di
Monte Grappa. Da qui una discesa da brivido verso i 138 metri di
Campese, per poi risalire ai 1.086 metri dell’ultimo Gran Premio della
Montagna a Foza, poco prima del traguardo di Asiago. Lo spettacolo è
assicurato, le strade gremite di appassionati sembrano proprio una
certezza.
altovicentinonline
giovedì 27 aprile 2017
I Viaggi di Marco Pollo: Il grande sacrificio
Le nostre esperienze di vita hanno
ormai perso ogni riferimento alla civiltà agro-pastorale da cui pure proveniamo e ai
suoi riti, rimanendo questa evocata soltanto dalla religione e dai suoi simboli
e tradizioni.
Quand’ero bambino, uno degli eventi topici era
la supervisione della macellazione delle bestie da parte dei due becàri allora
attivi in paese: i Nicola e i Mori. La notizia che qualche toro o vacca comparisse
legato a uno dei due stazionamenti deputati allo scopo, cioè nella corte dei Badùni,
all’anello fissato alla parete del macello dei Nicola, o all’inizio della salita delle Giare, per quello dei Mori, attivava tutta la tépa in circolazione, che accorreva immediatamente a valutare
l’animale, nonché a molestarlo.
Io ero stato preso a benvolere dal
vecchio Toni Nicola, che mi lasciava accompagnarlo nel prelievo del bestiame
nei paesi intorno e sugli Altopiani, nella loro cura, ma soprattutto assistere
alla macellazione degli animali.
Non che fosse una novità: copàre animali da cortile, conigli e far sù maiali allora era prassi comune in ogni casa, e senza particolari ansie metafisiche.
Nei confronti di questa pratica non
ho perciò quella schifata repulsione che oggi è sentimento prevalente; anche se sono quasi vegetariano: non già per ragioni filosofiche o per essere cool, ma più prosaicamente perché mi piace poco la carne.
A quel tempo la morte, degli animali come degli uomini, era esperienza di vita, non evento relegato a
non-luoghi e a non-pensieri come oggi.
Queste ricordi mi sono tornati alla mente trovandomi ad assistere ad uno dei riti più importanti per
i fedeli musulmani: l’Aid-el-Kebir, meglio
noto nell’Africa Occidentale con l’espressione berbera di Tabaski, dove
l’evento focale è il sacrificio rituale di un montone. La sua data è fissata
secondo il calendario lunare e di conseguenza la certezza del giorno si ha solo
con poco anticipo o addirittura il giorno prima, quando le guide religiose
informano la popolazione dopo aver consultato il cielo.
Qualche anno fa mi trovavo infatti in Senegal, a Pikine, popoloso satellite della capitale Dakar, ospite di una famiglia del luogo e proprio in occasione
di questa festa, che scatena nel mondo musulmano una follia consumistica paragonabile
a quella del nostro Natale. Una miriade di montoni, pronti per essere sacrificati, invadono le vie delle città, mentre
intorno impazza la corsa per il loro acquisto e per i preparativi
della festa.
Il sacrificio dell'ariete vuole ricordare
il gesto di Abramo, cui Dio aveva ordinato di immolare il figlio per
verificarne la fedeltà. All’ultimo momento però, Dio dispose la sostituzione
del fanciullo con un montone apparso misteriosamente allo scopo.
Rappresenta
dunque la celebrazione della fede, della totale sottomissione a Dio, cardine dell'Islam. Costituisce
l’archetipo anche per noi cristiani, che celebriamo, come culmine delle nostre
feste, il momento in cui Dio lasciò invece immolare il suo Figlio per la
rinnovata alleanza.
Per questo, secondo la tradizione
islamica, ogni uomo maggiorenne, se ne ha i mezzi, deve provvedere all’acquisto
di almeno un montone maschio. Se però non se ne ha la possibilità finanziaria,
potrà sacrificare una pecora, altrimenti una capra, una vacca o, infine, un
pollo, ma in tal caso è una vergogna e nessuno vorrà mai scendere a questo livello,
a costo di indebitarsi fino al collo.
Per passare la festa con la
propria famiglia, i senegalesi rientrano nei villaggi d’origine, svuotando la
città per la gioia di tassisti e autisti. Per l’occasione gli uomini si fanno fare dal
sarto un vestito nuovo. La follia consumistica coinvolge soprattutto l’universo
femminile: ogni padre di famiglia deve infatti assicurare, oltre all’acquisto
dei capi di bestiame, agli ingredienti per la cucina e al proprio bubu (la
tradizionale tunica locale) anche quello dell’abito, dell’acconciatura, delle
scarpe e quant’altro per moglie e figli; e le famiglie sono spesso più d’una,
vigendo la poligamia.
A vendere gli arieti sono i
pastori fulani che raggiungono
la capitale con i loro greggi, ma anche i cittadini stessi che, per guadagnare qualche soldo in
poco tempo, si recano nelle aree rurali per acquistare un certo numero di capi di bestiame e tornare
a rivenderli nella capitale trasportandoli in ogni modo tecnicamente possibile: dentro in macchina, sopra il tetto, nei sacchi, al guinzaglio, a spalle, ecc.,
secondo diponibilità ed inventiva.
La giornata inizia con la
preghiera delle due rakkas (genuflessioni). Uomini e bambini, ben abbigliati
nei loro bubu colorati e con il tappetino della preghiera in mano, accorrono
nelle varie moschee della zona. Una volta rientrati in casa, eseguiranno il rito centrale della Tabaski. Di fronte ad ogni casa, un gruppetto
di uomini si dispone intorno a un montone bloccato a terra da un altro paio. Il padre di famiglia o il figlio maggiore bisbiglia «Bismillahi,
Allahou Akbar », (In nome di Dio, Dio è grande) e poi affonda la lama nella
gola dell’animale, con un movimento rituale semicircolare che recide la carotide
insieme ai legamenti del collo, prima uno e dopo l'altro. Per chi
non se la sentisse di farlo, ci sono gli anziani del quartiere che si prestano
alla bisogna. Una volta che il sangue è totalmente colato nella buca
sottostante scavata appositamente, l’animale viene lavato e trasportato in
casa.
Ora, mentre le donne iniziano a preparare le verdure con cui verrà
preparato il montone, tutti gli uomini della casa partecipano a scuoiarlo e
macellarlo. Finita l’operazione, si prendono alcuni pezzi di carne e la si
porta ai vicini, che ricambieranno il gesto, in un susseguirsi infinito di: Assalamu aleikum / Aleikum salam.
A questo punto, alcune donne procedono alla preparazione del pranzo, mentre altre si dedicano a grigliare alcuni pezzetti di fegato da degustare subito, come vuole la tradizione. Una volta pronto il pranzo, tutta la famiglia si riunisce intorno a due grandi piatti, una per le donne e l’altra per gli uomini, e si consuma il pasto, ben contenti di mangiare tanta carne almeno una volta all’anno. Il pranzo continuerà per tutta la giornata, essendo quasi obbligati a mangiare in ogni casa in cui si entra.
A questo punto, alcune donne procedono alla preparazione del pranzo, mentre altre si dedicano a grigliare alcuni pezzetti di fegato da degustare subito, come vuole la tradizione. Una volta pronto il pranzo, tutta la famiglia si riunisce intorno a due grandi piatti, una per le donne e l’altra per gli uomini, e si consuma il pasto, ben contenti di mangiare tanta carne almeno una volta all’anno. Il pranzo continuerà per tutta la giornata, essendo quasi obbligati a mangiare in ogni casa in cui si entra.
Questa è grossomodo la tradizione,
a cui mi sono assoggettato anch’io in quanto ospite di quella famiglia
allargata. Allo scopo sono stato pure provvisto di un bubu nuovo fiammante,
confezionatomi espressamente dalla sorella del mio ospite la sera prima.
Per le dimensioni della famiglia
si è dovuto procedere al sacrificio di ben 3 bestie, che fino al giorno prima erano
legate fuori alle sbarre delle finestre, così come gli altri circa
ottocentomila animali presenti in città, con effetti spesso esilaranti per uno straniero. Fortunatamente qui le strade sono
quasi tutte sterrate e costituite da sabbia sottile,
perciò scavare una buca per colare il sangue e poi seppellirvi le interiora, è impresa agevole.
Per lo sgozzamento rituale però,
un po’ di mano ci vuole, per non rischiare di imbrattarsi il bubu, come appunto
è successo al sottoscritto.
Per chi si ricorda, un animale
sgozzato può continuare a scalciare per ancora un pezzo per le contrazioni
muscolari, per cui è buona norma lasciare la carcassa rilassarsi prima di
procedere alla lavorazione.
Come dicevo sopra, non mi piace la
carne e quindi mi sono accontentato del pezzetto di fegato come aperitivo,
piluccando poi qua e là dall’immenso piatto degli uomini che ho condiviso nella
casa accovacciato a terra in bubu e a piedi nudi. Quindi la giornata è
proseguita in un continuo andirivieni di parenti e amici col corollario delle
inevitabili logorroiche chiacchiere e salemelecchi, che fra i wolof, sono il must
imprescindibile di ogni incontro.
Questi prescrizioni rituali valgono ovviamente anche per gli immigrati di religione musulmana che abitano da noi, che per adempierle devono trovare difficili compromessi con le nostre regole. Va da sé che il nostro sistema di vita non è più disposto ad accettare comportamenti che non siano assolutamente asettici, antibatterici, animalisti, panteisti, ecc. Politicamente corretti, insomma.
D'altra parte qualche problema igienico queste pratiche lo pongono. Finché ci sono strade sterrate dove scavare buche e modalità di vita essenziali, la cosa è gestibile. Un tantino più problematico sarebbe dalle nostre parti, in caso di conversione o immigrazione massiccia. Magari torneremo a vedere le bestie ala stciona fuori dalle case e l'Astico come il lago di Tovel ai tempi belli.
Giusto l'anno scorso mi trovavo proprio in Bangladesh, altro paese musulmano ma stavolta asiatico, dove il sacrificio si fa prevalentemente con le mucche, invece che con gli arieti. Il problema è che in una città come Dhaka, caoticissimo agglomerato dai venti e più milioni d'abitanti e sprovvisto di adeguati sistemi di drenaggio, l'evento ha coinciso con la stagione monsonica, trasformando la città in un maleodorante lago di sangue. Li probabilmente, dato anche il clima tropicale, i batteri si muovevano nelle acque grossi come balene. Per fortuna che non si vedevano, perché, si sa, i batteri sono invisibili, e allora noi ce ne facciamo un baffo.
Questi prescrizioni rituali valgono ovviamente anche per gli immigrati di religione musulmana che abitano da noi, che per adempierle devono trovare difficili compromessi con le nostre regole. Va da sé che il nostro sistema di vita non è più disposto ad accettare comportamenti che non siano assolutamente asettici, antibatterici, animalisti, panteisti, ecc. Politicamente corretti, insomma.
D'altra parte qualche problema igienico queste pratiche lo pongono. Finché ci sono strade sterrate dove scavare buche e modalità di vita essenziali, la cosa è gestibile. Un tantino più problematico sarebbe dalle nostre parti, in caso di conversione o immigrazione massiccia. Magari torneremo a vedere le bestie ala stciona fuori dalle case e l'Astico come il lago di Tovel ai tempi belli.
Giusto l'anno scorso mi trovavo proprio in Bangladesh, altro paese musulmano ma stavolta asiatico, dove il sacrificio si fa prevalentemente con le mucche, invece che con gli arieti. Il problema è che in una città come Dhaka, caoticissimo agglomerato dai venti e più milioni d'abitanti e sprovvisto di adeguati sistemi di drenaggio, l'evento ha coinciso con la stagione monsonica, trasformando la città in un maleodorante lago di sangue. Li probabilmente, dato anche il clima tropicale, i batteri si muovevano nelle acque grossi come balene. Per fortuna che non si vedevano, perché, si sa, i batteri sono invisibili, e allora noi ce ne facciamo un baffo.
Gianni
Spagnolo XXII-IV-MMXVII
mercoledì 26 aprile 2017
I Viaggi di Marco Pollo: Lampedusa Africana
Oggi le traversate che vanno per la maggiore sono quelle dei migranti che sbarcano sulle nostre coste. Una traversata della speranza, decisamente più modesta, l’ho intrapresa anch’io, e proprio nei paesi d’origine di molti di quei profughi.
I porti fluviali sul suo corso sono un caos di gente che va e viene, che pesca, che si lava, che bivacca, che aspetta l'occasione di attraversare. Qui sono le barche da pesca che effettuano il servizio di traghetto con l’altra sponda. Più che altro si tratta di sottili piroghe di legno dal fasciame inchiodato alla bell’è meglio e con dei ponti traversi a fungere da sedute. Non avendo alternative, negozio l’attraversamento con il proprietario del mezzo che mi pare meno malmesso e salgo sedendomi sul bordo. Pensavo ingenuamente che il nolo, ancorché economico, fosse una mia esclusiva, invece mi ritrovo a veder salire sul mio naviglio una processione di persone. Alla fine saranno una quindicina quelli che si accomodano via via sul legno, con tutta una serie di strafanti al seguito, facendolo dondolare come una giostra, col mio più vivo disappunto.
Soddisfatto del carico, l’audace capitano avvia il motore
arrotolando un pezzo di corda. Il propulsore è un aggeggio bolso e fumante, che
ai suoi tempi belli aveva servito in aeronautica. La barca prende il
largo attraversando il fiume, che in questo tratto sarà largo più d’un chilometro,
con un corso pigro e limaccioso. Il natante oscilla paurosamente sotto l’incerta
spinta dell’elica, mentre io ascolto con rassegnazione gemere i chiodi
arrugginiti che tengono insieme il fasciame, evidentemente riciclati dalla
demolizione di qualche pallet. Con mio grande sollievo sbarco finalmente sulla
sponda mauritana; ormai è mattina inoltrata e il sole picchia duro. L’approdo è
un nudo lastrone di cemento bordato da alcuni locali adibiti a vari usi.
Ovviamente un unico salame bianco in occhiali da sole non
può passare inosservato in mezzo a quella variegata umanità dalla pelle scura,
per cui vengo di lì a poco avvicinato da un sorpreso e sudaticcio gendarme che, ovviamente, mi
chiede i documenti.
Sfoglia curioso il passaporto, non so se alla ricerca del visto mauritano fra i numerosi altri colorati che lo corredano, o perché non ne ha mai visto uno di quel tipo. Il visto giusto non c'è, ma spiego che sono
disponibile a pagare il dovuto per ottenerne uno lì al momento. Il militare mi
chiede cosa faccio, dove vado, perché mi trovo lì, ecc. Domande peraltro
legittime, per carità; infatti mi sto chiedendo anch’io cosa ci faccio lì. Quindi chiama il suo superiore, al quale ripeto le medesime cose. Mi dice che questa prassi non è prevista, ma intanto
s’informa prudentemente di quanti soldi mi porto appresso, quindi scompare
nella guardiola con il mio passaporto. Ci saranno 40 gradi e neanche un refolo o
straccio d’ombra, sto letteralmente colando, mentre aspetto fiduciosamente che
si compia il mio destino. Compro qualche frutto e nell’estenuante attesa
esploro la variegata umanità che transita per questo approdo.
Da questo valico passano molti di coloro che tentano l’emigrazione clandestina in Europa attraverso il corridoio occidentale. Puntano all’insidioso braccio di mare che divide il Saharawi dalle Canarie, dove in troppi sono naufragati tentando la traversata su barchette da pesca appena adatte al piccolo cabotaggio, o più oltre, verso i muri di Ceuta, altrettanto poco ospitali. Gli spagnoli, per quanto ne so, non li vanno a prendere per strada, per cui probabilmente saranno poi costretti a dirigersi verso la nostra più accogliente Lampedusa.
Da questo valico passano molti di coloro che tentano l’emigrazione clandestina in Europa attraverso il corridoio occidentale. Puntano all’insidioso braccio di mare che divide il Saharawi dalle Canarie, dove in troppi sono naufragati tentando la traversata su barchette da pesca appena adatte al piccolo cabotaggio, o più oltre, verso i muri di Ceuta, altrettanto poco ospitali. Gli spagnoli, per quanto ne so, non li vanno a prendere per strada, per cui probabilmente saranno poi costretti a dirigersi verso la nostra più accogliente Lampedusa.
Adesso mi trovo anch’io nella loro stessa barca, per così
dire, pur con l’ovvia sproporzione in quanto a prospettive e scopi. Nei loro occhi ci dev’essere la stessa rassegnata speranza che illuminava quello dei
nostri emigranti sui piroscafi verso l’Argentina o gli States e poi
l’Australia. Ma anche sui treni per la Francia, il Belgio e la Svizzera, ecc.;
storia che non mi è nuova.
Finalmente esce un altro, con un baffo in più sulla manica
e più imperioso, al quale devo recitare la stessa solfa. Secondo lui il visto non si
può fare: devo assolutamente imbarcarmi per l’altra sponda; mi riconsegna il
passaporto lasciandomi alla custodia del primo gendarme e rientra nella
casupola.
Eh, no ciò, non ci sto! Lo inseguo
all’interno dell’ufficio e mi produco in una patetica perorazione della loro misericordia. La cosa sembra stia dando frutti, dato che confabulano fitto
fitto fra loro in wolof, abbandonando il francese; intanto io aspetto. In Africa
aspettare è l’occupazione più ricorrente; i wolof inoltre, in fatto di
chiacchiere, non sono secondi a nessuno.
Ecco che si profila una bozza di accordo: pagando una cifra, che fatalità corrisponde a quanto avevo
dichiarato di possedere, posso restare in quel tratto rivierasco, ma non
proseguire verso l’interno; le procedure d’immigrazione non lo permettono e
loro devono rispettare rigorosamente la legge. Giusto!
ma io quel territorio avevo già avuto
modo di esplorarlo centimetro per centimetro durante l’estenuante attesa e
ormai la Mauritania mi è andata, se così si più dire, giù dal carro; soprattutto
non ho nessuna intenzione di dargliela per vinta. Inoltre sono stufo, ho fame e mi sono anche scocciato. Li lascio quindi alle loro
confabulazioni e mi dirigo svelto al molo, dove mi reimbarco frettolosamente su
una piroga ancor più malmessa dell’andata e faccio ritorno a dove sono venuto.
Gianni Spagnolo
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Potenza del nome
[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...