venerdì 28 aprile 2017

Sono iniziati i lavori in Via Regina Margherita


Incontri ravvicinati serali... sempre tenerissime...








Cogollo. Strage di pecore sulla Sp. 349. Un camion le falcia. Traffico paralizzato

Si sta ancora facendo il bilancio di quante pecore siano morte e quante sono da sopprimere nell’incidente accaduto questa mattina a Cogollo Del Cengio lungo la Sp. 349, in località Rutello, zona Siderforge Rossi.
E’ da prima delle 10 che il traffico è completamente paralizzato. Gravi disagi per chi doveva andare al lavoro e ha dovuto anche saltare qualche appuntamento.
Il traffico è stato fatto deviare dopo che la strada è stata fatta chiudere dalla Polizia Locale di Cogollo e dai Carabinieri di Schio.
Sul posto i veterinari dell’Ulss, chiamati per soccorrere le bestie ferite, constatare i decessi e valutare l’eventuale soppressione di animali per i quali non si potrà intervenire.
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Direttamente da Casotto: Amicizie impossibili (!?!)



Asiago è pronta per il Giro d’Italia. Presentato l’evento dal Governatore Zaia


Con queste parole, il Presidente della Regione del Veneto Luca Zaia, affiancato dal Direttore del Giro d’Italia Mauro Vegni, e alla presenza degli Assessori regionali Federico Caner (Turismo) e Cristiano Corazzari (Sport) e del Sindaco di Asiago Roberto Rigoni, ha presentato oggi a Cà del Poggio nel Comune di San Pietro di Feletto (Treviso), la tappa del Giro 2017 che, sabato 27 maggio,  porterà i corridori da Pordenone ad Asiago, attraversando tre province venete: Treviso, Belluno e Vicenza.

“Grazie alla disponibilità degli organizzatori del Giro – ha aggiunto Zaia – anche quest’anno proseguiamo nella strategia scelta a suo tempo di abbinare la corsa ciclistica più amata dagli italiani alla memoria storica della Grande Guerra, e così intendiamo fare anche per l’edizione 2018. Ad ogni tappa – ha ricordato il Governatore – si brinderà in Veneto con il Prosecco Astoria, in Veneto, ad Asiago, probabilmente avremo il nome del vincitore del Giro 2017. Questo Giro, pur se con una sola tappa, parla Veneto alla grande e sono certo che grande sarà la risposta degli appassionati veneti lungo le strade rosa, quest’anno come in quelli precedenti”.

La tappa presenta moltissimi elementi d’interesse, sia dal punto di vista tecnico, che da quello dei territori attraversati. Con tre Gran Premi della Montagna, due dei quali (Monte Grappa e Foza a pochi chilometri dall’arrivo) di prima categoria, promette grande selezione, ed è comunque l’ultima occasione per gli scalatori di mettere distacco tra sé e i passisti che, se a tiro, potranno tentare qualcosa nella successiva crono di 29 chilometri da Monza a Milano. Tutto dipenderà dall’entità dei distacchi.

Il percorso entrerà in Veneto da Conegliano, per affrontare un primo “strappo” di quarta categoria a Cà del Poggio, attraversare poi gli splendidi saliscendi delle colline del Prosecco, dirigendosi verso Feltre, nel bellunese, per poi affrontare l’ascesa ai 1.620 metri di Monte Grappa. Da qui una discesa da brivido verso i 138 metri di Campese, per poi risalire ai 1.086 metri dell’ultimo Gran Premio della Montagna a Foza, poco prima del traguardo di Asiago. Lo spettacolo è assicurato, le strade gremite di appassionati sembrano proprio una certezza.
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Che chiesa è?


giovedì 27 aprile 2017

I Viaggi di Marco Pollo: Il grande sacrificio

Le nostre esperienze di vita hanno ormai perso ogni riferimento alla civiltà agro-pastorale da cui pure proveniamo e ai suoi riti, rimanendo questa evocata soltanto dalla religione e dai suoi simboli e tradizioni. 
Quand’ero bambino, uno degli eventi topici era la supervisione della macellazione delle bestie da parte dei due becàri allora attivi in paese: i Nicola e i Mori. La notizia che qualche toro o vacca comparisse legato a uno dei due stazionamenti deputati allo scopo, cioè nella corte dei Badùni, all’anello fissato alla parete del macello dei Nicola, o all’inizio della salita delle Giare, per quello dei Mori, attivava tutta la tépa in circolazione, che accorreva immediatamente a valutare l’animale, nonché a molestarlo.
Io ero stato preso a benvolere dal vecchio Toni Nicola, che mi lasciava accompagnarlo nel prelievo del bestiame nei paesi intorno e sugli Altopiani, nella loro cura, ma soprattutto assistere alla macellazione degli animali.
Non che fosse una novità: copàre animali da cortile, conigli e far sù maiali allora era prassi comune in ogni casa, e senza particolari ansie metafisiche.
Nei confronti di questa pratica non ho perciò quella schifata repulsione che oggi è sentimento prevalente; anche se sono quasi vegetariano: non già per ragioni filosofiche o per essere cool, ma più prosaicamente perché mi piace poco la carne. 
A quel tempo la morte, degli animali come degli uomini, era esperienza di vita, non evento relegato a non-luoghi e a non-pensieri come oggi.

Queste ricordi mi sono tornati alla mente trovandomi ad assistere ad uno dei riti più importanti per i fedeli musulmani: l’Aid-el-Kebir, meglio noto nell’Africa Occidentale con l’espressione berbera di Tabaski, dove l’evento focale è il sacrificio rituale di un montone. La sua data è fissata secondo il calendario lunare e di conseguenza la certezza del giorno si ha solo con poco anticipo o addirittura il giorno prima, quando le guide religiose informano la popolazione dopo aver consultato il cielo.
Qualche anno fa mi trovavo infatti in Senegal, a Pikine, popoloso satellite della capitale Dakar, ospite di una famiglia del luogo e proprio in occasione di questa festa, che scatena nel mondo musulmano una follia consumistica paragonabile a quella del nostro Natale. Una miriade di montoni, pronti per essere sacrificati, invadono le vie delle città, mentre intorno impazza la corsa per il loro acquisto e per i preparativi della festa.

Il sacrificio dell'ariete vuole ricordare il gesto di Abramo, cui Dio aveva ordinato di immolare il figlio per verificarne la fedeltà. All’ultimo momento però, Dio dispose la sostituzione del fanciullo con un montone apparso misteriosamente allo scopo. 
Rappresenta dunque la celebrazione della fede, della totale sottomissione a Dio, cardine dell'Islam. Costituisce l’archetipo anche per noi cristiani, che celebriamo, come culmine delle nostre feste, il momento in cui Dio lasciò invece immolare il suo Figlio per la rinnovata alleanza.
Per questo, secondo la tradizione islamica, ogni uomo maggiorenne, se ne ha i mezzi, deve provvedere all’acquisto di almeno un montone maschio. Se però non se ne ha la possibilità finanziaria, potrà sacrificare una pecora, altrimenti una capra, una vacca o, infine, un pollo, ma in tal caso è una vergogna e nessuno vorrà mai scendere a questo livello, a costo di indebitarsi fino al collo.
Per passare la festa con la propria famiglia, i senegalesi rientrano nei villaggi d’origine, svuotando la città per la gioia di tassisti e autisti.  Per l’occasione gli uomini si fanno fare dal sarto un vestito nuovo. La follia consumistica coinvolge soprattutto l’universo femminile: ogni padre di famiglia deve infatti assicurare, oltre all’acquisto dei capi di bestiame, agli ingredienti per la cucina e al proprio bubu (la tradizionale tunica locale) anche quello dell’abito, dell’acconciatura, delle scarpe e quant’altro per moglie e figli; e le famiglie sono spesso più d’una, vigendo la poligamia.

A vendere gli arieti sono i pastori fulani che raggiungono la capitale con i loro greggi, ma anche i cittadini stessi che, per guadagnare qualche soldo in poco tempo, si recano nelle aree rurali per acquistare un certo numero di capi di bestiame e tornare a rivenderli nella capitale trasportandoli in ogni modo tecnicamente possibile: dentro in macchina, sopra il tetto, nei sacchi, al guinzaglio, a spalle, ecc., secondo diponibilità ed inventiva.
 La giornata inizia con la preghiera delle due rakkas (genuflessioni). Uomini e bambini, ben abbigliati nei loro bubu colorati e con il tappetino della preghiera in mano, accorrono nelle varie moschee della zona. Una volta rientrati in casa, eseguiranno il rito centrale della Tabaski. Di fronte ad ogni casa, un gruppetto di uomini si dispone intorno a un montone bloccato a terra da un altro paio. Il padre di famiglia o il figlio maggiore bisbiglia «Bismillahi, Allahou Akbar », (In nome di Dio, Dio è grande) e poi affonda la lama nella gola dell’animale, con un movimento rituale semicircolare che recide la carotide insieme ai  legamenti del collo, prima uno e dopo l'altro. Per chi non se la sentisse di farlo, ci sono gli anziani del quartiere che si prestano alla bisogna. Una volta che il sangue è totalmente colato nella buca sottostante scavata appositamente, l’animale viene lavato e trasportato in casa. 
Ora, mentre le donne iniziano a preparare le verdure con cui verrà preparato il montone, tutti gli uomini della casa partecipano a scuoiarlo e macellarlo. Finita l’operazione, si prendono alcuni pezzi di carne e la si porta ai vicini, che ricambieranno il gesto, in un susseguirsi infinito di: Assalamu aleikum / Aleikum salam. 
A questo punto, alcune donne procedono alla preparazione del pranzo, mentre altre si dedicano a grigliare alcuni pezzetti di fegato da degustare subito, come vuole la tradizione. Una volta pronto il pranzo, tutta la famiglia si riunisce intorno a due grandi piatti, una per le donne e l’altra per gli uomini, e si consuma il pasto, ben contenti di mangiare tanta carne almeno una volta all’anno. Il pranzo continuerà per tutta la giornata, essendo quasi obbligati a mangiare in ogni casa in cui si entra.
Questa è grossomodo la tradizione, a cui mi sono assoggettato anch’io in quanto ospite di quella famiglia allargata. Allo scopo sono stato pure provvisto di un bubu nuovo fiammante, confezionatomi espressamente dalla sorella del mio ospite la sera prima.
Per le dimensioni della famiglia si è dovuto procedere al sacrificio di ben 3 bestie, che fino al giorno prima erano legate fuori alle sbarre delle finestre, così come gli altri circa ottocentomila animali presenti in città, con effetti spesso esilaranti per uno straniero. Fortunatamente qui le strade sono quasi tutte sterrate e costituite da sabbia sottile, perciò scavare una buca per colare il sangue e poi seppellirvi le interiora, è impresa agevole.
Per lo sgozzamento rituale però, un po’ di mano ci vuole, per non rischiare di imbrattarsi il bubu, come appunto è successo al sottoscritto.
Per chi si ricorda, un animale sgozzato può continuare a scalciare per ancora un pezzo per le contrazioni muscolari, per cui è buona norma lasciare la carcassa rilassarsi prima di procedere alla lavorazione.
Come dicevo sopra, non mi piace la carne e quindi mi sono accontentato del pezzetto di fegato come aperitivo, piluccando poi qua e là dall’immenso piatto degli uomini che ho condiviso nella casa accovacciato a terra in bubu e a piedi nudi. Quindi la giornata è proseguita in un continuo andirivieni di parenti e amici col corollario delle inevitabili logorroiche chiacchiere e salemelecchi, che fra i wolof, sono il must imprescindibile di ogni incontro.

Questi prescrizioni rituali valgono ovviamente anche per gli immigrati di religione musulmana che abitano da noi, che per adempierle devono trovare difficili compromessi con le nostre regole. Va da sé che il nostro sistema di vita non è più disposto ad accettare comportamenti che non siano assolutamente asettici, antibatterici, animalisti, panteisti, ecc. Politicamente corretti, insomma.
D'altra parte qualche problema igienico queste pratiche lo pongono. Finché ci sono strade sterrate dove scavare buche e modalità di vita essenziali, la cosa è gestibile. Un tantino più problematico sarebbe dalle nostre parti, in caso di conversione o immigrazione massiccia.  Magari torneremo a vedere le bestie ala stciona fuori dalle case e l'Astico come il lago di Tovel ai tempi belli. 
Giusto l'anno scorso mi trovavo proprio in Bangladesh, altro paese musulmano ma stavolta asiatico, dove il sacrificio si fa prevalentemente con le mucche, invece che con gli arieti. Il problema è che in una città come Dhaka, caoticissimo agglomerato dai venti e più milioni d'abitanti e sprovvisto di adeguati sistemi di drenaggio, l'evento ha coinciso con la stagione monsonica, trasformando la città in un maleodorante lago di sangue. Li probabilmente, dato anche il clima tropicale, i batteri si muovevano nelle acque grossi come balene. Per fortuna che non si vedevano, perché, si sa, i batteri sono invisibili, e allora noi ce ne facciamo un baffo. 

Gianni Spagnolo  XXII-IV-MMXVII

mercoledì 26 aprile 2017

I Viaggi di Marco Pollo: Lampedusa Africana

I geni ereditati da generazioni di emigranti almeno un lascito positivo devono avermelo trasmesso: la capacità di adattarmi ai paesi in cui mi trovo, sapendo che comunque una soluzione si arrangia e che l’ignoto inquieta solo finché non lo si conosce. Ciò non esclude che ci si possa cacciare in situazioni poco confortevoli, che magari spiriti più cauti eviterebbero a prescindere.

Oggi le traversate che vanno per la maggiore sono quelle dei migranti che sbarcano sulle nostre coste. Una traversata della speranza, decisamente più modesta, l’ho intrapresa anch’io, e proprio nei paesi d’origine di molti di quei profughi.

Mi trovavo infatti in Africa Occidentale per sondare i mercati dell’area ECOWAS, e m'ero ripromesso, già che c’ero, di visitare anche la Mauritania.  Per quest’ultimo paese però, mi occorreva un visto che non avevo fatto in tempo a procurarmi. Consapevole che in Africa le formalità si aggirano, mi ero attivato per trovare soluzioni alternative. Mi dicono infatti che una volta messo piede nel paese, avrei potuto negoziare un lasciapassare sul posto. Scartata a malincuore l’ipotesi di passare per la Langue de Barberia, oasi faunistica sull’oceano, opto per un attraversamento del fiume Senegal, molto più all’interno. 
I porti fluviali sul suo corso sono un caos di gente che va e viene, che pesca, che si lava, che bivacca, che aspetta l'occasione di attraversare. Qui sono le barche da pesca che effettuano il servizio di traghetto con l’altra sponda. Più che altro si tratta di sottili piroghe di legno dal fasciame inchiodato alla bell’è meglio e con dei ponti traversi a fungere da sedute. Non avendo alternative, negozio l’attraversamento con il proprietario del mezzo che mi pare meno malmesso e salgo sedendomi sul bordo. Pensavo ingenuamente che il nolo, ancorché economico, fosse una mia esclusiva, invece mi ritrovo a veder salire sul mio naviglio una processione di persone. Alla fine saranno una quindicina quelli che si accomodano via via sul legno, con tutta una serie di strafanti al seguito, facendolo dondolare come una giostra, col mio più vivo disappunto.
Soddisfatto del carico, l’audace capitano avvia il motore arrotolando un pezzo di corda. Il propulsore è un aggeggio bolso e fumante, che ai suoi tempi belli aveva servito in aeronautica. La barca prende il largo attraversando il fiume, che in questo tratto sarà largo più d’un chilometro, con un corso pigro e limaccioso. Il natante oscilla paurosamente sotto l’incerta spinta dell’elica, mentre io ascolto con rassegnazione gemere i chiodi arrugginiti che tengono insieme il fasciame, evidentemente riciclati dalla demolizione di qualche pallet. Con mio grande sollievo sbarco finalmente sulla sponda mauritana; ormai è mattina inoltrata e il sole picchia duro. L’approdo è un nudo lastrone di cemento bordato da alcuni locali adibiti a vari usi.

Ovviamente un unico salame bianco in occhiali da sole non può passare inosservato in mezzo a quella variegata umanità dalla pelle scura, per cui vengo di lì a poco avvicinato da un sorpreso e sudaticcio gendarme che, ovviamente, mi chiede i documenti.
Sfoglia curioso il passaporto, non so se alla ricerca del visto mauritano fra i numerosi altri colorati che lo corredano, o perché non ne ha mai visto uno di quel tipo. Il visto giusto non c'è, ma spiego che sono disponibile a pagare il dovuto per ottenerne uno lì al momento. Il militare mi chiede cosa faccio, dove vado, perché mi trovo lì, ecc. Domande peraltro legittime, per carità; infatti mi sto chiedendo anch’io cosa ci faccio lì.  Quindi chiama il suo superiore, al quale ripeto le medesime cose. Mi dice che questa prassi non è prevista, ma intanto s’informa prudentemente di quanti soldi mi porto appresso, quindi scompare nella guardiola con il mio passaporto. Ci saranno 40 gradi e neanche un refolo o straccio d’ombra, sto letteralmente colando, mentre aspetto fiduciosamente che si compia il mio destino. Compro qualche frutto e nell’estenuante attesa esploro la variegata umanità che transita per questo approdo. 
Da questo valico passano molti di coloro che tentano l’emigrazione clandestina in Europa attraverso il corridoio occidentale. Puntano all’insidioso braccio di mare che divide il Saharawi dalle Canarie, dove in troppi sono naufragati tentando la traversata su barchette da pesca appena adatte al piccolo cabotaggio, o più oltre, verso i muri di Ceuta, altrettanto poco ospitali. Gli spagnoli, per quanto ne so, non li vanno a prendere per strada, per cui probabilmente saranno poi costretti a dirigersi verso la nostra più accogliente Lampedusa.
Adesso mi trovo anch’io nella loro stessa barca, per così dire, pur con l’ovvia sproporzione in quanto a prospettive e scopi. Nei loro occhi ci dev’essere la stessa rassegnata speranza che illuminava quello dei nostri emigranti sui piroscafi verso l’Argentina o gli States e poi l’Australia. Ma anche sui treni per la Francia, il Belgio e la Svizzera, ecc.; storia che non mi è nuova.
Finalmente esce un altro, con un baffo in più sulla manica e più imperioso, al quale devo recitare la stessa solfa.  Secondo lui il visto non si può fare: devo assolutamente imbarcarmi per l’altra sponda; mi riconsegna il passaporto lasciandomi alla custodia del primo gendarme e rientra nella casupola.
Eh, no ciò, non ci sto! Lo inseguo all’interno dell’ufficio e mi produco in una patetica perorazione della loro misericordia. La cosa sembra stia dando frutti, dato che confabulano fitto fitto fra loro in wolof, abbandonando il francese; intanto io aspetto. In Africa aspettare è l’occupazione più ricorrente; i wolof inoltre, in fatto di chiacchiere, non sono secondi a nessuno.
Ecco che si profila una bozza di accordo: pagando una cifra, che fatalità corrisponde a quanto avevo dichiarato di possedere, posso restare in quel tratto rivierasco, ma non proseguire verso l’interno; le procedure d’immigrazione non lo permettono e loro devono rispettare rigorosamente la legge. Giusto!
ma io quel territorio avevo già avuto modo di esplorarlo centimetro per centimetro durante l’estenuante attesa e ormai la Mauritania mi è andata, se così si più dire, giù dal carro; soprattutto non ho nessuna intenzione di dargliela per vinta. Inoltre sono stufo, ho fame e mi sono anche scocciato. Li lascio quindi alle loro confabulazioni e mi dirigo svelto al molo, dove mi reimbarco frettolosamente su una piroga ancor più malmessa dell’andata e faccio ritorno a dove sono venuto.

Gianni Spagnolo

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...