mercoledì 30 gennaio 2013

Contrà sperdute


“Contrà nel bosco" 
primavera 2011  

Gera matina presto, co son rivà
un strodo un fià erto, quà me gà portà,
intorno a mi solo bosco, primule e viole
che spunta anca’ndò che no riva el sole.
Coi sassi a seco xè fate le masiere
coverte dal mus-cio, bele , drite, fiere...
xè restà i sassi de qualche costrussion
fursi na casa, na baita, un casòn!
Na volta sto posto el gera abità
tre, quatro case, na bela contrà,
distante dala Vale e dal paese
quà se campava, sensa pretese…
Me imagino el sole che scalda i muri
de gente che lavora, se sente i rumuri…
“Bondì Paron!” “Saludo Parona”!
se va al posso, cusì qua funsiona!
El posso lo trovo, l’è poco lontan...
quanta l’acqua tirà sù co le man…
a quanti  cristiani la sen ghè xè passà
desso l'è scuro, sporco, desmentegà…
Cascà i coverti, se vede el cielo,
in cusina, piante col gnaro de un usélo…
solo el stampo de porte e balcùni
qua, da tanto non vien pì nissùni…
Me sento e vardo... che disperassiòn!
i oci se bagna, me vien el magòn…
un toco de storia, qua intorno xè passà
chissà se qualcheduni, me la contarà?
Ma sento el respiro, le parole del vento
che qua le conta, in ogni momento,
passando  fra i muri, fra i sassi cavà
a sento la vòsse de sta vecia contrà…
“Scrivi Lucia, tegni in memoria
senò nissùni conosse la storia
scrivi do righe, date da fare….”
Ecco, le gò scrite,
               par mai … desmentegare!    


Lucia Marangoni           


l'antico pozzo nella Contrà "i Casoni" sopra Valpegara-Lucconi

martedì 29 gennaio 2013

Un po' di nostalgia


Erano tempi che la parola "tastiera" era sconosciuta...

erano tempi dei compiti "in bella calligrafia", delle dita sporche d'inchiostro, di una vita vissuta senza fretta...
erano tempi che per dire:
"ti voglio bene" ci si impegnava a scriverlo per esteso e nemmeno ci sognavamo un gelido...............TVB


Carla Spagnolo













lunedì 28 gennaio 2013

Filastrocche: I mesi dell'anno






GENNAIO mette ai monti la parrucca…


FEBBRAIO grandi e piccoli imbaccucca…


MARZO libera il sol dalla prigionia…


APRIL dei bei colori orna la via…


MAGGIO vive tra musica d’uccelli…


GIUGNO ama i frutti appesi ai ramoscelli…


LUGLIO falcia le messi al solleone…


AGOSTO alzando le ripone…


SETTEMBRE i dolci grappoli a robinia…


OTTOBRE di vendemmia riempie la tina…


NOVEMBRE ammucchia aride di foglie a terra…


e  DICEMBRE ammazza l’anno e lo sotterra…



e ancora...


I mesi dell'anno sono 12 fratelli
quali brutti e quali belli...

Con GENNAIO si apre l'anno
ed auguri tutti fanno...

Il FEBBRAIO è piccolino,
ma è il più gaio e birichino...

MARZO invece è capriccioso
ora quieto, ora burrascoso...

Poi c'è APRIL col bel sole,
l'aria mite e le viole...

Ecco MAGGIO tutto fiori
con profumi e bei colori...

Bionde messi GIUGNO dona
e di spighe s'incorona...

Oh che caldo: LUGLIO arriva
e del mar si va alla riva...

Dopo luglio AGOSTO viene
in campagna si sta bene...

Nel SETTEMBRE l'aria mite
porta i grappoli e la vite...

Din don dan, suona la scuola:
è già OTTOBRE, il tempo vola...

E NOVEMBRE, mesto mesto
erbe e foglie spazza lesto...

Vien DICEMBRE, il giorno è breve
brrr che freddo: ecco la neve!    

sabato 26 gennaio 2013

Il Capitello di San Marco

(San Marco - Via delle Végre – Antica contrà di Capovilla)

È dedicato a San Marco Evangelista, una intitolazione piuttosto originale per un capitello, anche se si tratta del Santo Patrono di  Venezia e per estensione del territorio sul quale la Serenissima esercitò il suo secolare dominio.
Non conosciamo la sua storia, ma per la collocazione e per l’intitolazione è probabile che sia il più antico del paese.

È situato sull’angolo della casa dei Toldo, sulla biforcazione della via delle Végre che sale al paese verso le Are. Questa era un tempo la strada maestra che montava  dal piano dei prati presso il Sasso de Godi conducendo in contrà Capovilla. L’attuale strada della Capèla era di là da venire e questa edicola era dunque la prima che s’incontrava entrando in paese da mezzogiorno e dovette quindi essere particolare la motivazione che ne portò l’intitolazione a San Marco.

La comunità di San Pietro, come tutti i 7 Comuni, si dedicò alla Repubblica di Venezia nel 1404 e ne fece parte fino alla caduta per mano di Napoleone nel 1797. Non è inverosimile che il capitello possa risalire addirittura a quell’antico affidamento.

Il capitello è rimasto per lunghissimo tempo una muta nicchia incolore con qualche sopravissuto brandello di affresco stinto.
Quantunque sprovvisto d’effige, il sito era un tempo oggetto di una speciale celebrazione: il 25 aprile, festività di San Marco, una solenne processione partiva dalla chiesta parrocchiale e si recava presso questa edicola, dove per l’occasione veniva allestito un altarino decorato di fiori e reggente un quadro del Santo, che veniva messo a disposizione per l’occorrenza dal Maestro Toldo, abitante nei pressi.  (Toldo Rodolfo Rodùlfi, detto Ciuféto),

In tempi più recenti la sensibilità e l’artistica mano di Antonio Toldo Godi ha provveduto a dotare la nicchia di una bella pala in legno naturale con l’effige del santo  in altorilievo, riportando  significato e decoro a quest'antica testimonianza di pietà. 

Narra un’antica leggenda veneta che Marco, naufragato nella laguna, abbia ricevuto da parte di un angelo in sembianza di leone alato, il saluto profetico: «Pax tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum.» (Pace a te Marco, mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo) preannunciandogli così che sulle nostre terre avrebbero trovato un giorno riposo e venerazione le sue spoglie.
La simbologia del leone alato trae origine dai libri profetici di Ezechiele e dell’Apocalisse e viene associata al secondo Vangelo canonico, quello appunto detto di Marco, che tuttavia sembra sia stato il primo ad essere scritto e così fonte per i successivi.

Giovanni Marco (Marco era il nome gentile dell’ebreo Giovanni) era cugino dell’apostolo Barnaba e discepolo di Pietro, dopo essere stato aiutante di Paolo. Si crede che prima di rientrare in Oriente ed essere martirizzato ad Alessandria, fosse stato inviato da Pietro nel territorio di Aquileja per evangelizzare quelle terre e sia dunque da attribuirgli l'origine di quel Patriarcato e delle Chiese che da esso promanarono. Sarà per questo che nell’anno 828 alcuni mercanti veneti ne trafugarono avventurosamente le reliquie da Alessandria d’Egitto e le trasportarono a Venezia.

La Serenissima  gli costruì la stupenda basilica che le custodisce e assunse San Marco a patrono facendo proprio anche il simbolo del leone alato, ben noto e caro alle nostre genti e all’iconografia del Veneto.

XV.XII.MMXII
Gianni Spagnolo Ghia


venerdì 25 gennaio 2013

Il bracconiere



“Ma stetu fermo si o no, sacramentòn de un’ostia, che te me fe scapare tuti i uséi”. Sbottava così mio padre all’interno del “casòto” senza togliere lo sguardo dal “pòso”. Teneva tra le braccia la doppietta, un vecchio calibro 16 a cani esterni che sembrava un cimelio uscito da un museo, la mascella era nervosamente tesa nello sforzo di concentrazione e i denti “i sgrensàva tuti”. Pronto allo sparo “tirava i òci tuto badanà”  sullo spazio davanti al capanno attraverso un “finestrólo” ricavato sul davanti del  “frascàro” con cui aveva costruito il capanno mimetizzato. Faceva spostamenti a semicerchio con l’occhio già  sul mirino per essere pronto e rapido nell’azione. Aveva pulito bene dalle erbacce il piano davanti alla posta per poter raccogliere facilmente le piccole prede che fossero cadute sotto i suoi colpi e aveva legato ad un albero un ramo secco  abbastanza grande ed evidente che era appunto il poso perché gli uccelli non si confondessero con le foglie una volta che si fossero ”messi” cioè fermati. Metteva le gabbie con i richiami su piccoli sostegni vicino alla siepe e “i sambej”, legati con dei lunghi fili, li manovrava dall’interno del “casòto.” Servivano per attirare gli uccelli che fossero passati  in quella  zona. In bocca teneva un richiamo di ottone circolare in cui soffiava per trarne il cinguettio delle varietà di uccelli che tentava di fermare.  Era tutto un rituale che mi sfiniva perché non ero interessato a questa liturgia che, benché bambino, ritenevo crudele. Io ero il maschio di famiglia e forse dovevo ereditare le passioni che erano state anche di mio nonno, ma non ne volevo sapere. Tanti uomini a quel tempo erano presi da queste pratiche o forse erano solo di quel tipo che conoscevo, amici di mio padre che frequentavano la nostra casa. Erano  infinite le discussioni che infiammavano quegli uomini che parlavano di fucili, cartucce, richiami, “ròcoli”, “bachetóni”, archetti e reti. Come era infinito il tempo  per me che dovevo starmene dentro a quell’angusto spazio senza far rumore! Un tormento. Un pò resistevo e stavo fermo, poi mi mettevo a giocherellare con qualche rametto o qualche sassolino. Bastava il minimo rumore per rompere quel silenzio che anche il respiro non doveva turbare.  "Opà (sta per papà) me ocòre far pissìn, dopo un po’: opà me ocòre far caca”. Non lasciavo di pesto mio padre. “Fala lì sacramento, chi vuto che te veda, no te volarè mia nar fora a spauràrme i uséi”. Alla fine sbottava quasi convinto: ”Sta bòn se no, no te porto pì co mi.” Io non vedevo l’ora di tornarmene a casa o di uscire da quel buco. Quando sparava, per farmi tacere mi mandava a cercare la preda che di solito era ancora  calda e piena di sangue. A volte era ferita, con gli occhietti ancora vispi, ed il cuore che batteva forte nella mano; la riportavo, ma avrei voluto che volasse via. Ci pensava lui  a finirla soffocandola e la metteva nel carniere insieme a tutti gli altri “del ròsso” . Prede ambite erano i tordi, i merli, i “sisilìni, le gazanéle” o anche i più piccoli, come “finchi, séleghe, fiste, beccafighi, squajàrdole, saranti, montani, becchi in crose” ecc. Il casotto mio padre l’aveva costruito sulla campagna di “Camisino” a ridosso di un “vignale”  perché doveva essere un posto  di buon passaggio. In autunno quando le foglie ingiallivano per poi virare al marron e cominciavano a cadere, qualche grappolo dimenticato di uva era un’attrazione golosa per gli uccelli ma anche per me che ne ero avido. Come mi piacevano tanto quei  “pérseghi” piccoli e selvatici che rimanevano sulla pianta a maturare fin quasi alla soglia dell’inverno quando con uno “scorlón”  cadevano a terra come una tempesta di palline gialle. Se non prendeva niente, mio padre riempiva il tascapane di “pùmi e di peri”. Credo fosse un’abitudine abbastanza diffusa e penso non fossero molto benvisti i cacciatori nei fondi agricoli di quei tempi nei primi anni ‘60. A casa mio padre teneva tutto un armamentario per la sua passione che curava con attenzione e pazienza. Le cartucce se le caricava per risparmiare, per cui possedeva una cassetta di legno con tutto il necessario. Si prendeva la cartuccia vuota che era di cartone, si estraeva con un punteruolo “el ramìn”usato e lo si sostituiva con uno  nuovo, facendo attenzione a non percuoterlo troppo per non farlo esplodere. Si metteva un misurino di polvere da sparo, che di solito era la Balestite, poi il “cartonsìn” la semola o la boretta , un altro cartonsìn, ed infine i “balìni”di numero 8 o 10 a seconda delle dimensioni delle prede a cui si voleva sparare, alla fine si metteva il cartonsìn di chiusura prima di fare “l’óro”con una macchinetta a manovella. Qualche volta aiutavo mio padre in questa pratica, che per un po’ mi prendeva, ma soprattutto  potevo fare degli scherzi. Come quella volta che con mio cugino Armando sostituii i pallini con della farina bianca su una partita di cartucce. Eravamo presenti quando mio padre sparò ad un bersaglio grosso, forse un “colombasso” che velocemente e con disperazione del cacciatore si allontanò senza nessun problema. Si sollevò un gran polverone bianco come una nebbia che fece infuriare mio padre. Tentammo di dire che era stato il fucile a “cristare”, ma lui capì la furbata: se avesse  potuto, ci avrebbe “consà per le feste”. Teneva anche i “bachetóni”, piccole bacchettine di legno spalmate di vischio che incollavano gli uccelli che si fossero posati, per poi ingabbiarli e tenerli da richiami o per farli finire in ”farsóra” con la polenta e il “mas-cìo", la salvia e il lardo. Aveva reti basse da quaglie e reti normali, che stendeva lungo le siepi della nostra riva. Era per me una pena vedere questi uccelli intrappolati senza possibilità di liberarsi, ma quando cominciai a essere un po’ più grande cominciai a liberarli senza farmi vedere, sennò sarebbero stati guai. Usava anche qualche archetto, quegli strumenti crudeli che rompono le gambe alla povera bestia. Per lui diventavo sempre meno affidabile, perché non mi interessava nemmeno la fionda, lo strumento che quasi tutti i ragazzi allora si costruivano con una forcella di “ornaro”, degli elastici di “camaradaria” e una coramella. Con l’unico tiro che feci mi scagliai il sasso sul naso e non ne volli più sapere. Mio cugino invece aveva imparato bene la lezione e tra “bachetóni, fionda, reti, montagnole e lugarini “ non ne aveva un minuto. “Lu el parea bon a essare el me tóso, no ti”, mi ripeteva sconsolato quando vide chiaramente che i miei intenti erano altri. Il colpo finale fu quando cominciai a rifiutare “gli usei e la polenta onta” che mia madre ricavava da tutta quella attività di mio padre. Non capiva la mia presa di posizione, forse si vergognava anche di avere un figlio eretico che non lo seguiva. Cominciò a non chiamarmi più nelle sue scorribande preferendo qualche altra compagnia più interessata a quello “sport”. Io mi feci grande e non ne volli più sapere di queste cose. Fu intorno ai 20 anni ed era il ‘75 che me ne combinò una di grossa che mi segnò abbastanza e per lungo tempo. Era il mese di settembre ed io ero con mio cugino Armando, quello che, secondo mio padre, poteva essere suo figlio, presso certi parenti a Mortara nella Lomellina in provincia di Pavia. Mi piacevano quelle terre piatte e grasse coperte di riso e di pioppi. Ci andavo volentieri perché erano posti con della poesia tra quel verde così intenso e tutto uguale, quelle nebbie che si tagliavano con il coltello,  quei fossi pieni d’acqua che alimentavano i mulini per il riso. Passammo qualche giorno senza pensieri a gironzolare e a camminare tra quelle distese. Tornammo carichi di riso e di vino che in quei posti era decisamente diverso dalla “pinpinéla” aspra che dava la nostra terra ai piedi dei monti. Vidi subito che in casa qualcosa era successo perché mio padre era più scontroso del solito e mia madre tradiva un’agitazione abbastanza evidente. Senza tanti preamboli mi dissero quasi subito che le guardie avevano trovato mio padre che tendeva una rete tra le siepi della “Singéla” vicino all’Astico. Sapevano che era un cacciatore e credo sapessero anche che era dedito al bracconaggio con le reti o altri attrezzi. La posta non doveva essere durata molto conoscendo le abitudini del soggetto, che non sapeva star distante dai suoi passatempi venatori legali o non. Però non avevano forse, fatto i conti con la sua testardaggine perché, nonostante fosse stato trovato con le mani quasi nel sacco, si diede ad una fuga  furibonda, che fulminò le due guardie. Chiaramente sapevano chi era e dove abitava e  aspettarono tranquillamente che tornasse a casa appoggiati come due bravi di  manzoniana memoria uno per parte davanti al  cancello. Mia madre divenne color verderame, come quello che mio padre teneva nel bidone in corte per le “viséle”, ma nulla potè fare o dire. Esclamò solo: “Quel’omo là el me fa deventar mata, Maria Vergine varda in zò”. Poi il silenzio pieno di ansia e di “nervoso”. Quando il fuggitivo pensando di averla fatta franca si presentò a casa pareva “L’Ecce omo”. Sudato, paonazzo dalla corsa e sporco di terra e di foglie. Forse non immaginava di trovarsi con  quella visita angosciante in casa così rimase di stucco. Cominciò una trattativa prima colorita da qualche bestemmia, che poi piegò a più miti maniere,  forse complice mia madre che fece il caffè. Alla fine, ed era quasi imbrunire, dovevano essere  sfiniti tutti. Vi era una multa da pagare, la confisca della rete, ma quello che  sconsolava il bracconiere era il ritiro della licenza di caccia. Sarà stata l’ora tarda, lo sfinimento o la compassione, fatto sta che si accordarono nel trovare una persona che per lui mettesse la firma e che si assumesse quella responsabilità. Fu qui che con un colpo di genio pensarono a me, visto che mai più, dai tempi del “casòto” mi ero interessato a quello sport che non avevo mai capito. Alla proposta nicchiai un po’, poi mia madre piagnucolando mi convinse. A malincuore firmai. Ero io il bracconiere. Su quella carta stava scritto: Boschiero Maurizio contravvenuto per aver esercitato l’uccellagione e impiegato durante la stessa mezzi vietati, senza licenza. Preso …  in flagrante.  Pur essendo in Lombardia, aggiungo io. Bastava un articolo del codice e due righe fredde e burocratiche per cancellare una pagina di vita, che nulla aveva da spartire con quel mondo per me inaccettabile, uno “striso” nell’anima che non ho saputo mai cancellare. Pensai che tutto si fosse risolto per me con una firma e per mio padre con una multa. Sicuramente pagò, ma non seppi mai la cifra anche se gliela chiesi. Lui si conservò il prezioso documento, mia madre contenta che il consorte fosse uscito quasi indenne dalla sua bravata, io… Un giorno con mio cugino ci fermammo di ritorno da Thiene a prendere qualcosa al bar “delle Casette” sulla strada per Carrè. Casualmente nel locale trovammo un nostro paesano che io conoscevo solo per averlo sentito nominare e che invece mio cugino conosceva bene. Dopo aver salutato e chiesto come andasse, guardandomi disse: ”E questo giovanòto chi zélo?” “Maurizio Boschiero, me cugìn” rispose Armando. “Ahhh!!! Ti si quelo che i te ga ciapà con la rè e che i te gà messo nel giornale de Vicensa” bofonchiò con un sorrisetto cattivo, scoprendo i denti rovinati dalla nicotina. Mi alitò in faccia una zaffata di vino e di fumo che non mi fece star male come quelle parole. C’erano altri avventori nel locale, che si girarono a guardare “il mostro” schiaffato sul giornale. Io diventai giallo di rabbia, anzi rosso di vergogna o forse anche bianco dal panico. Tracannai in fretta la bibita che avevo davanti e per poco non mi andò di traverso. Uscii in fretta “dalle Casette” quasi stordito da tanta notorietà. Mi ero fatto un nome in paese, ma in quel modo ci avrei rinunciato volentieri, dovevo ringraziare la sensibilità di mio padre che se ne era fregato di tutto, fuorché del suo tornaconto. Per qualche anno evitai di frequentare il paese, mi sembrava che tutti mi riconoscessero per il bracconiere del giornale. Immaginavo le chiacchiere da bar, le parole spese malamente a commento di questa storia. Passarono il tempo e gli anni, ma non dimenticai questa storia. Mio cugino di tanto intanto mi ricorda ancora la vicenda commentando: “proprio a ti la dovéa  sucédarte”. Quando morì mio padre tra le sue carte trovai il famoso documento che mi accusava. C’era scritto Boschiero Giovanni, ma una serie di crocette cancellava il nome e di fianco Maurizio bracconiere. Hanno cancellato il  nome di mio padre mettendoci il mio, ma io non posso cancellare questa storia. Ho voluto scrivere questa vicenda, non per denigrare mio padre anche se un po’ gliene voglio ancora, ma per far capire  che a quei tempi non si guardava troppo per il sottile neanche nei confronti dei figli. Erano uomini temprati da mille vicende di stenti e di fame, che avevano attraversato la guerra e la pace, che forse stentavano a riconoscere. Certamente volevano bene ai figli, ma dovevano assomigliare  al padre o al nonno, dovevano diventare uomini sulle tracce di quegli uomini. Se invece, come nel mio caso, uno andava per la sua strada,  si perdeva in incomprensioni che duravano la vita intera. A me è successo questo.

Maurizio Boschiero



                                                                         

giovedì 24 gennaio 2013

L'orso de Tinàsso



     Se con la nostra fantasia tornassimo per un momento nel mezzo del 1800 e il nostro sguardo, dai Valergi volasse sù in Tinasso, dei pennacchi di fumo azzurro sicuramente desterebbero la nostra curiosità: sono le carbonaie che 
stanno pipando. Grossi pezzi di faggio messi a piramide con forma circolare, il tutto ricoperto di terra, un fuoco al centro, il quale, dopo molto tempo, trasformava il legno in carbone. Il tutto era creato e seguito con paziente maestria dai nostri paesani carbonai, vita dura e semplice che permetteva di vivere onestamente. Il prodotto finale era di buona qualità e venduto al mercato di Thiene, fruttava un compenso che gratificava la dura stagione in montagna. Sul finire di un autunno quasi estivo il carbone accumulato era molto e due amici per la pelle Martin e Rocco erano soddisfatti del lavoro compiuto. Tutti e due erano di S.Pietro, esperti carbonai, che da Aprile a Novembre costruivano carbonaie nella zona del Tinasso, una in particolare era in fase di spegnimento, si trattava solo di aspettare e nel frattempo caricavano le slitte (chiamate dai valligiani Idole) con i sacchi di carbone. Il trasporto giù per le valli era pericoloso, ma i nostri compari lo facevano con prudenza, non era il caso di perdere il carbone lungo i dirupi della valle di Toniero. Mentre controllavano la qualità del carbone, il loro pensiero era già al mercato, alla vendita e al guadagno, ma anche alla giornata di bevute e divertimento che ne seguiva; sorridevano al pensare che la giornata si sarebbe conclusa con la visita a una casa di piacere di Thiene. Molta gente il lunedì si recava al mercato, a piedi o con mezzi di fortuna, compravano il necessario, ma per i maschi era un'occasione per incontri d’amore mercenari; dalle cronache del tempo si legge che ben tre erano le case di piacere in quella città. Naturalmente le mogli non si rendevano conto del tradimento mercenario, o per lo meno, non lo facevano capire, ma la Bepa suchéta, madre dei due figli di Rocco, stava sempre in guardia. Era sua consuetudine preparare la tinozza per il bagno, pronta, non appena il marito entrava in casa, in questo modo lo poteva “annusare”. Finito il bagno lo faceva giurare davanti all’immagine della Madonna e il povero Rocco, con occhi bassi, era costretto a giurare il falso. Quella domenica, già verso sera il carro era pronto per il trasporto, mancava solo di preparare il cavallo bajo che lo zio del Martin gli prestava per l’occasione. Finirono, e dopo poche ore di sonno erano verso el prà longo diretti al mercato di Thiene. Tutto andò per il meglio, vendettero tutto il carico alla famiglia Colleoni e subito si recarono dalla Mora a farsi un caldo brodo di trippe, seguito da abbondanti alzate di gomito con il vino nuovo e con un rosso che proveniva da Breganze, molto apprezzato dai due amici. Nel pomeriggio andarono ai bagni pubblici per una lavatina, ma la carica ormonale dei due stava pericolosamente aumentando. Rocco con un cipiglio quasi violento sbottò: “sa trovo la Babalù ghe magno el culo“. Barbara Lucchetti in arte Babalù era una dolce tigrotta che esercitava al Fior di Luna, una nota casa di piacere, formosetta, ma con un fondoschiena degno di un quadro: il classico tipo che piaceva al carbonaio. Dopo un altro bicchiere entrarono nella sala d’aspetto, Martin lesse le tariffe, toccò il portafoglio e si diresse verso la Luisa, la grande organizer della casa. Alla vista di quelle grazie così in libertà i due non aspettarono più di tanto e quando Babalù scese la scala dal tappeto rosso Rocco sentì una vampata di calore che quasi lo faceva svenire; non fece in tempo a cercare con lo sguardo il socio, che già era sparito con la Marghi, una moracciona che dicevano venisse dalla lontana Spagna. Chiusa la porta Babalù si distese sul letto, un grande giaciglio di colore arancione e mentre Rocco tentava di fare il rito obbligatorio del lavaggio, lei,  mostrando la sua mercanzia,  fumava tranquilla una sigaretta francese, forse regalo di un cliente. Memore della frase detta al suo amico chiese alla donna di girarsi prona per poterle visionare il lato b,  la sigaretta si spense e dolcemente Babalù  acconsentì alla richiesta. A quel punto la pressione del carbonaio andò alle stelle, tutti gli spiriti del Tinasso gli entrarono nel cervello, con un salto felino piombò a lato del letto e con un urlo animalesco prese a morsi , in questo caso lo sfortunato sedere. Urlando di dolore la ragazza si girò di scatto, colpì con il piede il viso di Rocco facendolo cadere sulla sponda, la testa urtò sullo spigolo e con schiaffi contornati da numerosi graffi in faccia si difese con molto vigore riuscendo ad uscire dalla stanza. Il seguito fu confuso, il mix di alcool, botte e stanchezza fece che si svegliò dalle parti di Arsiero disteso sul carro. “ Ma cossa ghetu combinà? situ semo? me gà tocà pagare tanti schei par portarte via”… "ma va in mona anca ti..." rispose Rocco prigioniero di dolori in viso e alla testa. Martin spiegò dettagliatamente i danni subiti e il problema di cosa dire alla Bepa diventava serio e assillante. Molte idee erano strampalate, non potevano stare in piedi, come... cadute, rami in faccia ecc..., ma ricordando i loro amici di Rotzo,  Bora e Baistar, due scalpellini rinomati in tutta la zona, che dopo giorni di mancato rientro a casa, tra pianti e campane a festa dissero che il salvanelo aveva girato loro le scarpe di entrambi i piedi, in questo modo facevano un passo avanti e uno indietro ritrovandosi sempre nello stesso posto, solo dopo vari tentativi riuscirono a gabbarlo e tornare sani in paese. ”Se in Ròsso i gà bevù sta bala...anca mi posso dire che so stà tacà da un orso sù in Tinasso” sbottò Rocco. Martin andò dalla Bepa e la storia che gli raccontò fu semplice, ma geniale: arrivati ai Scalini, guardando nella zona di Tinasso, abbiamo visto del fumo e pensando che l’ultima carbonara non fosse spenta del tutto ci siamo preoccupati; Rocco ha pensato di andare sù senza passare per casa, sarà di ritorno nel pomeriggio. In attesa del marito la donna ritornò alle sue faccende, mentre Rocco nascosto in un fienile sopra ai Baise attendeva la sera. Per non essere riconosciuto, dovette passare a nord del paese facendo attenzione di non farsi notare. Si strappò la giacca, ma non troppo per non buttarla e si presentò a buio fatto sulla soglia di casa. Alla vista del marito con il viso gonfio, la testa fasciata e graffi sulle orecchie... la Bepa si mise una mano sulla bocca e con voce soffocata disse: "cossa te zelo sucesso... cossa ghetu combinà? "Me gà tacà un’orso" rispose secco Rocco. Durante le cure delle ferite raccontò il fatto alla moglie: sono arrivato alla carbonaia e ardeva ancora il fuoco, mi serviva dell’acqua, andai verso la pozza,  ma con mio grande stupore, trovai un orso che si stava abbeverando, non sapevo cosa fare e per scacciarlo tirai dei pezzi di legno verso l’animale, lui mi rincorse, mi raggiunse, e mi ritrovai a terra con l’orso che mi spingeva via, non so come, ma gridando se ne andò; mi ritrovai dolorante e sporco di sangue come mi vedi. La notizia fece il giro della valle, molti furono i paesani che credettero al fatto, il sindaco organizzò una battuta nel tentativo di liberare la zona da una pericolosa (almeno per quei tempi) presenza, ma il tutto finì con una grande bevuta in onore all’orso di Tinasso. Fu probabilmente da allora che la pozza a nord del prato di Tinasso si chiama pozza dell’orso. La Bepa Sucheta non aveva mai visto un orso, ma non fu mai convinta del tutto di questa storia; il sospetto maggiore erano le scarpe del marito, troppo patinate per aver combattuto contro un orso e aver corso a casa giù per quelle valli impervie...e perché quella mattina non passò per casa prima di andare in montagna? Poteva cambiarsi almeno la giacca, non si va nel bosco con la giacca della domenica. Questi i dubbi, che al solo pensarci, la rendevano nervosa, ma dopo pochi anni la faccenda era dimenticata e sepolta. Sul cielo della Val d’Astico passarono molte stagioni, qualcuno per grazia ricevuta pose una piccola icona sull’abete più maestoso vicino alla pozza; il silenzio, rotto solo da spari inutili dei cacciatori, si impadronì dei prati del Tinasso. Sulla fine degli anni settanta a mio padre servivano assi di abete per costruire la sua nuova casa; sapeva che nel lotto sù alla  pozza dell’orso c’erano degli esemplari che facevano al suo caso. Una mattina grigia e fredda di novembre, due splendidi abeti avevano finito la loro esistenza terrena e nel ramarli un boscaiolo scorse un piccolo quadro di metallo inchiodato al tronco dell’albero: si notava un orso che attaccava un pastore, sotto c’era scritto: "in quest..lu. go nel..  no del signor. 18.7. nabe.t.af.erì un cr..tiano martin pos". La frase non si capiva del tutto, ma si potè interpretarla così:In questo luogo, nell'anno del Signore 18.7 una bestia ferì un cristiano. Martin pose.


Piero Lorenzi



Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...