In casa mia eravamo cinque persone: i mie genitori, due sorelle ed io.
Abitavamo in una casa di Via Costo lungo la strada che porta a Caltrano, proprio accanto al curvone appena dopo il ponte ed il capitello che distavano da noi un tiro di sasso.
La casa era stata costruita partendo da una vecchia stalla di sasso che era stata dei “Mimbri”; mio padre aveva acquistato quel mezzo rudere da “Baciùni” con un pezzo di terra in riva declinante a balze sul crinale dell’Astico.
Forse valeva più la terra che lo stabile, in effetti, faticandoci un po’ sù poteva dare qualche ettolitro di vino, aveva delle grandi “siaresàre”, qualche “pomàro”, diversi “peràri” e dei “brombàri”. Accanto alla stalla vi era un pezzo di terra piano in cui si era ricavato l’orto che veniva tenuto per le verdure di uso domestico, un pozzo che raccoglieva l’acqua piovana dal tetto e in un angolo vicino al muro di cinta un "cesso" malmesso e decrepito, mezzo “infrascato” di edera che funzionava da servizio igienico.
Serviva a noi di casa per le nostre impellenze e per ingrassare l’orto quando a primavera mio padre con un rituale senza imbarazzo spargeva il contenuto della vasca biologica, in cui si raccoglieva il frutto delle nostre urgenze, sulla terra.
Per questa operazione usava un attrezzo costituito da un manico di legno a cui aveva assicurato un elmetto tedesco che veniva immerso con perizia nel liquame per poi travasarlo dove ne vedeva l’utilità.
Non ho mai capito perché si usasse in tante case questo dispositivo, forse per un non nascosto atto di disprezzo verso quell’esercito e quel popolo che tanto avevano segnato di dolori e di morte il popolo Italiano durante la seconda guerra mondiale.
Passava poi alla fase successiva, in cui rivoltava la terra, chinandosi sulla vanga con foga e forza. “El lavora come na bestia ‘sto poro can” sospirava mia madre che doveva gestire la casa, noi figli, l’economia domestica e non ne aveva un minuto anche lei.
Mio padre lavorava in fabbrica alla “Lanerossi” di Piovene stabilimento numero 1 e forse era lì tra un lavaggio e l’altro della lana dentro le grandi macchine che si riposava un po’.
A casa tra il campo, le bestie, qualche lavoretto a terzi, la caccia, l'andar per funghi e “a selgaròle con le moscaròle in tel’Astego” consumava in fretta il suo tempo e le sue forze.
La sua famiglia venne a Chiuppano nel ’41 a gestire in affitto la trattoria con alloggio “Alla Pesa” e verso il ’50, con l’intenzione di fermarsi definitivamente in paese, acquistò per sè la stalla sù citata. Conobbe mia madre quando non era più giovanissimo:aveva 37 anni e 32 mia madre.
Credo che entrambi colsero l’ultima occasione per sistemarsi che passava loro davanti.
A quel tempo una donna di 32 anni era praticamente una zitella definitiva e un uomo, sicuramente poteva rincorrere delle opportunità, ma da lì a sistemarsi c’era ancora qualche sogno da fare.
Avevano attraversato la guerra, questo sì, lasciando i loro anni più belli impigliati in tempi grami e di paura; inoltre mia madre a 20 anni fu quasi rovinata dal tetano che la ridusse in fin di vita, senza denti e senza capelli.
La guerra poi finì, i suoi capelli ricrebbero con la speranza di una vita meno dura, ma i denti li ho sempre visti rovinosamente malmessi e mai pensò di sistemarseli.
Questo stato credo abbia segnato irrimediabilmente il suo carattere; si rintanò in casa e ne usciva in rare occasioni, che non fossero la messa prima la domenica a Caltrano.
La ricordo qualche volta al cimitero sulla tomba dei genitori, poi nient'altro.
Per lei il mondo finiva davanti al cancello di casa e lo teneva ben chiuso, quasi che diventasse una grata che separava la sua clausura dall’esterno, inoltre il senso di gelosia e di possesso nei confronti di noi figli, certamente non ci fece trascorrere un'infanzia ed adolescenza felici.
Dunque mio padre lavorando in fabbrica e con l’aiuto di qualche “muràro” a mezzo servizio, sopra la stalla buttarono sù un altro piano: due stanze, camera e cucina separate da un piccolo corridoio.
Sistemarono il tetto, il colore a sbruffo giallo “canarìn”, la ringhiera ben lavorata con intreccio a rombi.
Il risultato era anche piacevole a vedersi.
Nei primi anni ’50 era una casa piccola, ma moderna, l’inconveniente era che poteva bastare a due persone, non di più.
Si sposarono nel ’52 con pochi parenti stretti intorno ed una festa in casa; forse a quell'età era un po’ vergognoso e fuori luogo fare grandi cerimonie e mettere l’abito bianco.
Non vi furono foto della cerimonia, né della festa e poche volte i miei parlarono di quel giorno: non ho mai capito bene il perché. Solo da poco ho saputo la data esatta del loro matrimonio: 29 gennaio ’52.
Dopo una gravidanza non portata a termine, nel ’54 nacqui io e chiaramente riempii la casa, già piccola di suo, nel senso che dovetti per i primi mesi dormire in camera con i miei genitori.
Dovettero così pensare di aggiungere qualche stanza e così a fatica e con sacrificio, senza tanti permessi e progetti aggiunsero un’ala nuova alla casa.
Due stanze, una sopra l’altra.
Ottennero così che sotto allargarono la stalla e sopra aggiunsero una camera.
La camera dei figli.
Vennero poi ad intervallo di due e di cinque anni altre due figlie, anche loro chiaramente sistemate in quella nuova stanza.
Praticamente la nostra vita di cinque persone si svolgeva in tre locali: due camere, la cucina e un piccolo corridoio.
La cucina serviva per tante attività: oltre che a sala da pranzo, era lo studio per noi che andavamo a scuola, la lavanderia e tutto quello di cui necessitava ad una attività domestica.
Finché noi figli eravamo piccoli, non vi erano particolari necessità. La promiscuità non era un problema e nemmeno lo spazio esiguo era vissuto con patemi d’animo.
Sapevamo farci bastare il tutto e sapevamo ritagliarci degli scampoli di privacy in quel dedalo di letti, mobili e libri di scuola e attrezzi di casa.
Quando però io iniziai ad andare verso i quattordici anni mia madre intuì che forse non era più il caso di tenere tutti i figli insieme e con mio padre si impegnarono a trovare una soluzione.
Stavamo diventando grandi, io cominciai a frequentare le scuole superiori e chiaramente non ero più un bambino; cominciavano i primi turbamenti, le prime curiosità, le prime effervescenze.
Chiaramente in casa non si toccava assolutamente il tasto del sesso; nessuna domanda, nessun termine che appena accennasse alla sfera affettiva ed intima, nessun discorso.
Per cui quella promiscuità in camera chissà che pensieri davano a mia madre che nemmeno mai nominava i termini incinta, seno…
A casa cominciarono a comparire dei giornali che io compravo in edicola e che avevano a quel tempo un grande seguito.
Io compravo la rivista ”Giovani” poi passai a “Ciao 2001”.
Le leggevo con vorace attenzione, parlavano di canzoni, di gruppi musicali, di tendenze, di mode, di hippy e di beat.
Molto interessanti all’interno dei due settimanali erano le rubriche sulla sessualità e di psicologia. Affrontavano dei temi che si sarebbero dovuti discutere nelle famiglie, parlavano di verginità, di contraccezione, di pillola e di preservativi.
Inoltre il direttore rispondeva alle domande dei lettori, questioni che potevano anche essere poste in altre sedi, ma quali a quel tempo?
La scuola era ancora distante da certi temi di carattere sessuale o psicologico e nelle famiglie i bambini li portava ancora la cicogna e la sessualità era cosa sconosciuta o meglio una parolaccia che solo “gli sporcaccioni” toccavano.
Mia madre di nascosto sbirciava queste riviste e logicamente le rubriche che a noi interessavano, attiravano anche la sua attenzione.
Così si rese conto in fretta che in casa stava crescendo, secondo lei, un poco timorato di Dio e che faceva pericolose incursioni su campi che sarebbero dovuti restare segreti o relegati nel mondo degli adulti, che forse cominciava a fare brutti pensieri e magari nemmeno li confessava.
In breve fu trovata una soluzione: mi dovevo trasferire dabbasso in una stanza che era accanto alla stalla e che aveva ospitato di tanto in tanto mia nonna paterna Francesca, quando veniva a trovarci da Fara.
C’erano dei lavori da fare come il pavimento, il colore alle pareti e qualche altro ritocco.
Mi offrii con soddisfazione di dare una mano: non vedevo l’ora di avere una stanza tutta mia, senza dover contendere lo spazio alle mie sorelle e quella intimità che diventa indispensabile man mano che si cresce.
Innanzitutto fu portato via tutto l’armamentario che c’era all’interno: casse di roba vecchia e poco usata, attrezzi per la caccia e la pesca, la moto di mio padre, le scaffalature piene di polvere, di tarme e di ragnatele.
Sfrattai le galline che qualche volta venivano messe a covare nella stanza, e gli uccelli che venivano messi in “mua” nelle gabbie coperte da un telo nero.
Mio padre si sentiva in qualche modo defraudato del suo spazio e dei suoi averi; guardava un po’ sconsolato le operazioni di sgombero, a volte bofonchiava a denti stretti, ma non c’erano alternative.
Il pavimento di “solàro de legno meso marso” fu tolto e al suo posto, con l’aiuto di un amico di casa che era Ottorino “Rinaldo” fu messo un pavimento di cemento coperto con una guaina di linoleum verde azzurro. Furono imbiancate le pareti con la calce per disinfettarle dai “piòci puldìni”, fu applicata qualche presa di corrente in più e con un tocco forte io ridipinsi la porta e la finestra di un arancione che era un pugno in un occhio.
Cominciai poi io a sistemare l’interno e l’arredamento.
Sulla sinistra della porta appesi un vecchio attaccapanni di legno che avevo recuperato in”granàro”, in un angolo posizionai, dopo averle ben pulite e ridipinte, tre piccole botti su cui appoggiai un bel giradischi “Europhon” con due grosse casse coperte da una tela di sacco che mi cucì mia zia Teresina; sulla parete di fronte alla porta piazzai la scrivania di fòrmica finto legno e sopra, attaccato al muro, uno scaffale per i libri che avevo ricavato da una “tola” che mi aveva regalato “Bepi Rana”.
Accanto ai libri c’era lo spazio per la buona raccolta di 33 giri che in qualche anno mi ero fatta. C’erano i dischi del “Banco Banco”, di De Andrè, di Guccini, dei Trip, del Teatro Temporaneamente Traballante, dell’Antica Locanda, Stormy Six…
Il tocco originale però lo ottenni quando pensai di sistemare sotto il letto quattro ruote di legno di quelle che si usavano per i carretti trainati dai cavalli o dai “mussi”. Le avevo in casa ed erano in un angolo inutilizzate perché ormai avevamo venduto il “musso” e accantonati sotto una “barchessa” i carretti che usavamo.
Più che un letto sembrava una diligenza o un carretto di quelli che si vedevano nei film western che passavano al cinema.
Completavano l’arredamento una stufetta a metano per il riscaldamento d’inverno e una cassapanca in cui tenevo delle vecchie cose che mi piacevano e che erano ricordi di casa.
In poco tempo questa stanza divenne il mio mondo e la mia libertà, finalmente avevo uno spazio tutto mio in cui fare quello che mi pareva. Se qualche sera tornavo tardi non mi sentiva nessuno e non dovevo dare spiegazioni, ma soprattutto potevo stare con chi volevo senza dover passare sotto gli sguardi severi di mia madre che era sempre vigile sulle mie frequentazioni.
Fuori, in paese, a Schio e nel mondo soffiavano i venti libertari della contestazione, contro tutto e tutti, si parlava di pace e di libertà, di amore libero, di politica, di spinelli e di viaggi…
Forse eravamo poco preparati e poco profondi in questi argomenti, ma non importava, bastava esserci, partecipare, anche in silenzio, anche vestendo in un certo modo con jeans ed eskimo e magari salutare con le dita aperte in segno di V o aver scritto sui pantaloni smarriti la parola pace.
I nostri miti erano Che Guevara, Mao, Marcuse, Luther king, Hendrix, i Pink Floid, i preti operai, don Milani, Pannella e i radicali, Pasolini…
Mia madre, mio padre ed in genere i genitori dei miei amici erano preoccupati da tutto questo “rabaltamento”, da questa mancanza di regole e di rispetto che vedevano nei nostri comportamenti.
I nostri riferimenti non erano più quelli che erano stati i loro, come il prete, il maestro, e pochi altri.
I nostri orizzonti si erano aperti allargando i confini della morale della sessualità e dell’impertinenza.
Certo non si sarebbero immaginati, di aver tirato sù con tutta la fatica che ci avevano messo, dei poco di buono, per nulla timorati di Dio, dei capelloni “strasonà” e delle ragazze che giravano “col culo fora” alludendo alle minigonne.
Io studiavo a Schio “all’Itis De Pretto” e assorbivo quelle idee e quei principi che attraversavano la nostra generazione dai ragazzi che frequentavano la scuola. Avevo fatto delle amicizie che mi riempirono la vita di sogni e di utopie, che mi aprirono il confine angusto del mio mondo e della mia timidezza.
Certo ho sempre cercato comunque di pensare e di agire con la mia testa, non mi sono mai imbarcato in storie pericolose e pesanti forse perché in cuor mio avevo troppo rispetto per gli sforzi dei miei genitori, che capivo i sacrifici che facevano per darmi un futuro migliore, anche se non ho mai giudicato chi dei miei amici si è incamminato su strade che a volte non hanno avuto ritorno.
Anzi, a loro ho voluto bene e portato rispetto, pensando fatalisticamente che doveva andare così.
Il mio paese, Chiuppano, era diventato un incrocio di storie e di occasioni; un punto di ritrovo per tanti ragazzi che avevano “quelle idee” che coloravano quei giorni e che davano la sensazione di vivere una primavera infinita. Ci incontravamo ogni sera tra di noi giovani intorno ai venti anni, ed era un piacere sentirsi parte del gruppo, di quell’ambiente e di quella atmosfera.
Un altro punto di ritrovo oltre al Patronato “Merica” e la stanzetta di Joe, divenne la mia stanza.
Io ci studiavo, ci dormivo e la sera, (quando i miei genitori, che si alzavano sempre presto ed altrettanto presto la sera andavano a dormire), arrivavano gli amici e le amiche, ma anche ragazzi che si univano ad altri, attratti dal gruppo.
Più che altro, ci trovavamo per ascoltare la musica sparata a volume alto dal giradischi che troneggiava sopra le botti. Portavano qualche birra, qualche bottiglia di vino, girava qualche spinello, ma non ho mai visto niente di più a casa mia. Divisa da una parete, accanto alla mia stanza c’era la stalla.
Quel muro divideva il mio mondo fatto di musica e di incontri da un mondo arcaico e contadino che era ormai al tramonto, ma che in casa mia continuava a trascinarsi malamente con tutto il suo armamentario di attrezzi e di animali.
Il “musso” era stato venduto da qualche anno, ma continuavano ad esserci le galline, la capra, una mucca.
Purtroppo a me davano molto di imbarazzo, perché venivano nella mia stanza anche ragazzi di Schio e di Thiene e dintorni che certamente non avevano animali in casa e a me sembrava che il medioevo si fosse fermato solo a casa mia.
Raggiungevo il massimo del disagio se c’erano delle ragazze; tutte tirate, profumate, con un certo linguaggio radical chic…era la mia timidezza che come una brutta compagnia mi faceva apparire le cose in maniera distorta e goffa.
Mi madre mi raccomandava che non mi lasciassi “infenociàre” o ”insinganàre” da qualche “anguàna”, di quelle con le “còtole curte”.
Io avevo ancora a che fare con la stalla, “il socàle, il luamàro, le boàsse, i schiti e i piòci puldìni”…”poro mi” che vergogna!
Avevo, era vero, la mia stanza, anche originale che tutti apprezzavano, specialmente quel letto con le ruote, il giradischi, ma il resto…medioevo profondo.
Una volta successe che a notte inoltrata, sarà stato verso mezzanotte, stavamo ascoltando un disco dei Pink Floid a volume alto.
Una musica che portava in alto, anzi più sù, sù fino a sfiorare…Dio.
C’era chi era seduto per terra, chi stravaccato sul letto, chi seduto sulle sedie e chi “rocolàva con la tosa” nella penombra.
Nella stanza piena di fumo e di musica c’era un’atmosfera rilassata, stavamo viaggiando sulle onde della musica, di qualche birra e forse qualcuno con un po’ “di fumo”... quando la vacca nella stalla cominciò a “burlare”.
Burlava così forte che presto coprì anche la musica e per completare il coro si aggiunse il gallo e la “cavra” che prese a “sberegàre”.
Mi sembrò subito di essere nella vecchia fattoria con gli animali che rispondevano in coro come nella canzone.
Io credo che arrossii come una lampadina da cento candele, anche se i miei amici cercarono di minimizzare. Mia madre che forse aveva sentito il trambusto e il rumore degli animali in quell’ora tarda, scese in “sata” e in vestaglia che sembrava un fantasma. Aprì di colpo la porta della mia stanza senza dire nulla e con uno sguardo che sembrava una scarica di mitragliatrice perlustrò l’interno. Mi gelò il sangue nelle vene!
Mamma mia che figura “porca” che feci davanti ai miei amici!
Poi, senza dire nulla di più che non avesse detto lo sguardo, richiuse la porta con una botta che poco mancò non cadessero giù i vetri della finestra.
Chi stava in paradiso perso nei suoi viaggi discese in fretta, chi era assorto nella musica e nei suoi pensieri rinvenne subito e chi era preso dai fremiti d’amore si staccò “de paca” dall’amato bene. Dalla stalla non cessavano gli schiamazzi, i “burli” della vacca parevano “cojonàrmi” ed il gallo cantava che pareva annunciare il tradimento di Pietro, tanto era strano il suo verso.
Apparve come un fantasma anche mio padre mezzo “insonacià”; lo vidi che “spiava” dalla finestra.
Si “sfregolò” gli occhi, poi si grattò la testa sconsolato, ma non disse nulla e non aprì la porta.
Chissà i Miei...cosa immaginavano che facessimo in quel posto!
Mi sa che in cuor loro, si pentirono amaramente di avermi fatto quella stanza dabbasso.
Certo giocava su tutto il carattere scontroso di mia madre; avvilita e “spaurà” nel vedere che mi allontanavo dal suo mondo fatto di timor di Dio, di timidezza, di preghiere e di ritrosia.
Forse era anche gelosa di me, cercava di trattenermi come poteva vicino a sè, ma io come una barca mi allontanavo, giorno dopo giorno, da quel porto che lei riteneva sicuro al riparo da tempeste e fortunali.
Io quel passaggio della vita lo vissi con grande disagio, attratto dalla libertà che avevo davanti e che intravedevo confusamente, ma ero legato in maniera forte ai valori e alla vecchia realtà che però con grande determinazione volevo abbandonare.
Non ne potevo più di “schiti”, di “luamàri, di “punàri”, rosari e raccomandazioni.
Era difficile lasciare alle spalle gli anni che mi avevano segnato, che certamente avevano influito sui miei interessi e sul carattere.
Ora avevo in mente gli amici, la musica, la scuola e qualche ragazza cominciava ad attirare i miei pensieri.
Il mio sogno era quello di poter avere una ragazza che mi volesse bene a cui voler bene, portarla nella mia stanzetta ad ascoltare la musica e a parlare, ma mi bloccava il pensiero di mia madre e di quella casa mal messa che poco aveva di ospitale specialmente con quella stalla e quel cesso malmesso piantato nell’angolo dell’orto che per me aveva l’effetto di una spina piantato sulle mie carni.
L’idea che i miei amici, per andare a fare i loro bisogni, dovessero andare in quel posto decrepito o in stalla mi era un pugno nello stomaco.
Una domenica vennero da Schio in autostop delle ragazze a trovare gli amici che avevano nel mio paese. Erano due della compagnia, se così si poteva dire: stesse idee, solito abbigliamento, uguale profumo indiano.
Bastava questo per essere considerate compagne di idee e sorelle di intenti.
Nel tardo pomeriggio come spesso accadeva, si presentarono a casa mia in compagnia di altri ragazzi del paese e non.
Mia madre quando arrivarono a piedi giù per la discesa, osservava la scena dall’alto della finestra della cucina facendo finta di cucire, ma chiaramente non le era sfuggito nulla.
Sapendo la pasta della donna certamente non le andavano bene queste visite strane che potevano secondo lei portarmi sulla brutta strada.
“Sta tento che no te vai a insinganàrte con qualche poco de bon” mi ripeteva spesso, alludendo al fatto che le ”poco de bon” erano “quelle con la minigonna”, con le unghie laccate e con la lingua sciolta.
Se poi vedeva una ragazza che fumava…era il massimo della scostumatezza.
“Varda se le par bon co la sigaretta in boca, peso dei òmini” ripeteva brontolando rivolgendosi non si capiva bene a chi, certamente cercando di farmi capire che da quelle donne dovevo stare distante.
“Quelle”, per lei, non avevano nome proprio o generico; erano solo dei “sanbèi da ròcolo” se andava bene, delle “trojòne” se si metteva male. Poi se fossero state da Cogollo “apriti cielo”…questioni di campanile chissà da dove ereditate.
Se avesse saputo che mi ero “immagà drio” a una da Cogollo con i capelli rossi e le “còtole curte” che vedevo sulla corriera quando andavo a scuola…Maria Vergine “la me tegnéa a casa”...
Quella sera, tutto scorse tranquillo per un po’, ascoltammo musica, parlammo, bevemmo qualcosa…, ma quando una delle due...mi chiese di andare al bagno, sentii come una fucilata nella testa e con la morte nel cuore dovetti indicare a lei la strada della stalla e più esattamente il “socàle”.
Finse indifferenza, fece qualche apprezzamento agli animali, forse per non aggravare il mio imbarazzo che aveva dipinto il mio viso di un rosso “inbrasà”. Comunque si accomodò dopo aver rinchiuso dietro di sé la porta malmessa della stalla. Io tornai nella stanza in compagnia degli altri facendo finta di niente. Mia madre che verso le sei andava a chiudere a chiave i locali del pianterreno per la notte, quando aprì la porta per controllare le bestie, trovò la ragazza “culo busòn” sul “socàle”. Al che, senza dire niente, come "impietrìa" rinchiuse la porta a chiave e serrò dentro la sventurata. Questa, riavutasi dopo la sorpresa, che non fu poca, cominciò a battere su per la porta e a chiamare aiuto.
Fu una scena che dire pietosa è dir poco, una vergogna così grande che non ho mai più provato.
In qualche modo riuscii a recuperare la chiave e a liberare la poveretta, che trovai in lacrime.
Mi fece molta pena, ma mi facevo più “pecà” da me stesso.
Non poteva essere che dovessi arrivare a quelle umiliazioni per poter vivere quel po’ di libertà.
Non riuscivo ad accettare quei tormenti e quelle angherie... era dura... come la scorza di mia madre .
Un’altra volta una ragazza di Chiuppano si presentò davanti alla mia porta sul tardi. Bussò ed io un po’ allarmato aprii.
Questa ragazza a cui io ispiravo qualche simpatia e forse anche qualcosa di più, ma a me non è che dicesse tanto, mi disse se la potevo ospitare per la notte perché era scappata di casa.
Scappare da casa in quegli anni era un altro sport a cui alcuni di noi si dedicavano, la giustificazione era: per cercare se stessi.
In realtà chi ne aveva il coraggio scappava da situazioni strette, da conflitti con i genitori, da una situazione conflittuale che diventava a volte insostenibile.
Non me la sentii di dirle di no, anche se la sapevo un po’ pazzerella, ma sapevo anche, che questo costituiva un pericolo, nel senso che se ci avesse scoperti il mio “angelo” di ferro del piano di sopra: “ piovéa parole a sécie roverse”.
Per di più mio padre lavorava in turno di notte e tornava a casa stralunato verso le cinque e mezza della mattina tante volte “urtando“ la vecchia “Ducati” che non dava segno di vita specie la mattina presto.
Se si fosse per caso sognato di bussare alla porta o avesse visto qualcosa, anche con lui non andava meglio.
Dunque accolsi la richiesta, con grande preoccupazione, cercando però di non darlo a vedere, con la condizione che non più tardi delle cinque doveva lasciare assolutamente senza indugi la stanza.
Quella sera la passammo a parlare e lei cercava di farmi capire che non le ero indifferente, ma io ero poco propenso e troppo timido per storie; ascoltammo anche qualche brano di musica poi, prima che il sonno ci vincesse si infilò in un sacco a pelo sistemato per terra per dormire.
A dire il vero il sonno vinse solo la compagna di quella notte, che ad un certo punto si mise anche a russare, io invece sentivo tutti i rintocchi del campanile che ogni mezzora suonava.
Sentii battere l'una , l'una e trenta, le due, le due e trenta…
Dio volle che vennero le cinque, svegliai un po’ rudemente l’amica che dormiva e senza tanti convenevoli la accompagnai alla porta.
Sembravamo due automi pieni di sonno ed io di paura; fuori l’alba cominciava a schiarire il cielo e la mia amica infilò il sentiero dietro a casa mia che portava verso la ex ferrovia.
Si incamminò per i campi e mio padre giunse a casa, senza vedere nulla di quelle manovre.
I miei amici il giorno dopo, quando seppero la storia di quella notte, mi “cojonàrono” anche, perché secondo loro avevo mancato un’occasione. Che occasione avessi mancato lo sapevano solo loro, ma a me poco importava di cercare delle avventure.
In tempo di amore libero, avrei dovuto secondo loro abbandonarmi a qualche avances così chiedeva quel codice non scritto che mischiava il vecchio cliché dell’uomo che doveva osare ai venti nuovi della rivoluzione sessuale che rendeva le cose sotto una luce diversa.
Io invece ero ancora troppo immerso nella mia timidezza e in quel concetto quasi angelico che avevo della donna.
D’altra parte tra mia madre che era una specie di monaca di clausura con le sue prediche e raccomandazioni, don “Gusso” che era fustigatore di costumi, le suore… Certo non potevo avere una visione leggiadra o perlomeno normale dei rapporti con l’altro sesso.
Col tempo la stanza divenne sempre di più il mio posto tranquillo, il mio buen retiro. Giunsi a tenervi all’interno un serpente che avevo catturato sui campi, una bella “anda” che si muoveva su pavimento e si attorcigliava sui raggi delle ruote che sostenevano il letto. A quest'altra provocazione, mia madre rinunciò di riassettarmi la stanza, perché un giorno senza sapere nulla si era trovato il rettile tra le gambe. Cacciò un “burlo” che pareva la mucca della stalla accanto quando era in vena di farsi sentire.
Per lei quel mondo che ormai vedeva solo dalla finestra era uno strano universo che non riusciva più a comprendere e che si allontanava sempre più.
Purtroppo dentro c’ero io il suo unico figlio che avrebbe difeso volentieri con ogni mezzo dalle insidie esterne.
Per lei le insidie erano le brutte compagnie e le ragazze “desbuelà”, la musica che faceva spauràre le bestie in stalla …
Fece benedire anche la stanza, sperando che il divino rimettesse in ordine le cose, ma ormai io stavo diventando grande e non potevo tornare indietro.
Maurizio Boschiero