Per conoscere le abitudini alimentari dei nostri Nonni e Bisnonni è necessario sapere il tipo di coltivazioni e di allevamento allora praticati, tenendo anche presente che le erbe spontanee dovevano integrare la dieta certo molto più di oggi. Non solo: rispetto ad oggi erano sicuramente minori le quantità di cibo acquistate e rari gli alimenti importati da paesi lontani.
Sul nostro territorio erano ben diffuse numerose specie di cereali: frumento, orzo, avena, ségale e il mais, utilizzato quest’ultimo, come ben si sa, per la famosa polenta, piatto principe di quei tempi.
Altresì molto diffusa era la coltivazione della patata e dei fagioli, nonché della vite: (uva americana, nostrana, clinto e tordéla) che offriva un vino modesto, ma comunque apprezzato.
Ricordo anche el vin pìcolo ottenuto dalle graspe con l’aggiunta di un po’ d’uva clinto. E chi si può dimenticare el vin dólse… che per noi bambini, ma non solo, era semplicemente sublime. Nel berlo, ci sentivamo “grandi” pure noi…
Negli orti e nei campi, oltre alla patata e ai fagioli si coltivava un po’ di tutto, come ai nostri giorni: tegoline, scalogni, zucchine, zucche, sedano, carote, prezzemolo, verze, cappucci, insalata, radicchio ecc…, mentre prodotti come: pomodori, melanzane, peperoni, cavolfiori si iniziarono a coltivare solo molto più tardi e comunque dopo l’ultima guerra.
Allo stato selvatico c’erano i pissacàn o petabróde (tarassaco), i spundignùi (spugnole), i spàrese (asparagi), i bruscàndoli (germogli del luppolo selvatico), le erbette e grandi quantità di funghi in montagna. I fagioli si prestavano ad una comoda conservazione, tramite essicazione. Venivano sparsi sul solaio di una stanza asciutta e quando erano pronti per essere sgranati anche noi bambini davamo il nostro contributo tutti contenti. Solitamente era un impegno durante i vari filò… L’unica verdura conservabile d’inverno erano i capùssi: con un’apposita macchinetta li tagliavano finemente e li riponevano in un mestélo de legno e a strati li cospargevano solo con sale, alloro, ginepro e poi li coprivano con un coperchio. Emanavano una tal puzza nella stanza…ma si veniva ripagati poi dal risultato! Il prodotto finale erano i gustosi crauti, verdura fondamentale nella dieta, anche per l’alto contenuto di vitamina C.
La frutta era abbondante: oltre all’uva, pere, prugne, àmboli, còrnole, fichi, noci, nocciole, pesche, ciliegie, more di rovo e di gelso, rare le mele e in montagna si trovavano: lamponi, mirtilli, fragoline. Il problema era la conservazione. La frutta più resistente nel tempo erano le pere d’inverno, le noci, le nocciole e l’uva che veniva appesa a delle corde in una stanza, mentre l’altra frutta doveva esser consumata in breve tempo. Erano poche le famiglie che si potevano permettere le marmellate, a causa dell’alto costo dello zucchero. In bottega, chi aveva la possibilità, acquistava anche qualche altro tipo di frutta, ma quella più “abbordabile” erano le caróbe (carrube), le stracaganàsse (castagne secche) e il castagnaccio.
La colazione consisteva in polenta e latte, più raramente pane e latte o caffelatte.
Per quanto riguarda i primi piatti troviamo il minestrone, le minestre, fatte con i prodotti degli orti, con l’aggiunta spesso de na scódega e de na grósta de formàjo, la panà, le móse, i gnochi, i gnochi col guciàro, riso, la pastasciutta, sia fatta in casa, tipo tagliatelle o bìgoli col torcio, che acquistata in bottega.
Come secondi piatti: pollame, conigli, maiale, uova, formaggi (chi non si ricorda la scórsa ben grattà e sponcià in sima al pierón podà sule brónse? La carne era annoverata fra i “lussi” ed era abbordabile per pochi eletti o quando si era ammalati o deperiti. Come pesce troviamo el bacalà, el scopetón, le sardéle, i marsùni (ghiozzi) e le trote. Come piatti alternativi: rane, chiocciole, selvaggina, trippe, coradéla, rognoni, animelle e sanguetta (sanguinaccio) del mas-cio.
Il caffè era un lusso e ci si poteva permettere solo “un’imitazione” che era quello con miscela di orzo, cicoria e ségale che si abbrustolivano con el brusìn (la bala) sul fogolàre. (chi non si ricorda quel misterioso attrezzo fatto a tenaglia con le due semipalle in cima?)
Il dolce era la fugàssa de pan vécio fatta col late de bùrcio…
Qualche famiglia si permetteva anche la grappa, ma solo perché s’ingegnava a farla in casa con le graspe.
Anche l’umile pezzo di pane era dosato con parsimonia.
I “conservanti” di un tempo consistevano principalmente in sale e aceto. Il primo lo si acquistava dal tabaccaio, il secondo lo si faceva in casa con qualche bottiglia di vino andata a male.
Invece per la conservazione degli insaccati del maiale si acquistava in farmacia una polverina di salnitro.
I condimenti consistevano in burro, lardo, strutto e olio di semi.
I ritmi dell’alimentazione quotidiana non erano sempre gli stessi; la séna, ad esempio, si consumava anticipatamente nella stagione fredda, di solito verso le 17, subito dopo la conclusione dei lavori nella stalla, mentre nella stagione estiva veniva posticipata, specialmente nei giorni critici del taglio del fieno o della mietitura. Solitamente consisteva in minestre, uova, formaggi o avanzi del pranzo.
Il pranzo (disnàre) era invece più robusto: mai primo o secondo, bensì piatto unico: riso, pastasciutta, gnocchi oppure polenta, verdura e carne o pesce. Il profumo che emanavano le téce dei fasùi in umido e del conéjo de me Nóna Gusta me li ricordo ancora…
Ci si recava in bottega a provédare giusto l’indispensabile e per acquistare prodotti come olio di semi, qualche tubetto di conserva, pasta, riso, spezie, raramente caffè e pane. Il sale invece lo si acquistava dal tabaccaio in quanto monopolio di stato.
L’allevamento degli animali era molto condizionato dall’andamento stagionale e dalla disponibilità di cibo per nutrirli. Si faceva in modo che le mucche partorissero nel tardo autunno perché non erano in malga e in quel periodo si poteva così disporre di una maggiore quantità di latte.
L’uccisione del maiale era prevista solitamente prima di Natale, non solo perché con la stagione fredda il risultato dell’insaccatura riesce migliore, ma anche perché nei mesi precedenti avevano la disponibilità di molti più alimenti per poterlo ingrassare. (Ne riparleremo con argomento a parte.)
Sempre nel periodo invernale si provvedeva ad uccidere anche altri animali tipo: galline vecchie per brodo, polli, conigli ecc. che, non riuscendo a procacciarsi parte del cibo fra i campi, avrebbero dovuto essere alimentati attingendo alle provviste dei cereali di casa. Qualcuno di chi legge ricorda il profumo che emanava el caliéro dela pastà sula fornéla?
Per l’inverno si teneva un numero ridotto di galline e solo un galo da soménsa. Le nidiate di conigli si allevavano preferibilmente quando si disponeva di erba fresca per nutrirli.
Mi ricordo un particolare di mia Nonna riguardo ai conigli: per la “frollatura” gli inseriva un bachéto
all’interno per tenerlo bene aperto e lo appendeva ad un chiodo del balcone della cucina a pendolón e a vista per un paio di giorni. Sosteneva che risultasse più buono.
Prima di addentrarci nel meraviglioso mondo della cucina della nostra zona, nonché vicentina e veneta, è d’obbligo una precisazione: Mentre per noi ora quelle ricette hanno il sapore di apprezzate rarità, di specialità…per i nostri Avi erano frutto del bisogno di utilizzare, nel modo che riuscisse più gradevole ed efficace, tutte le possibili risorse che la grande conoscenza del mondo naturale e il lavoro della terra offrivano, per sopperire ad una fame, solo di rado pienamente appagata.
La miseria, la povertà, la fame di tante generazioni che ci hanno preceduto, non sono sicuramente da rimpiangere, però offrono spunti su cui riflettere…quantomeno sulla iper-alimentazione e sugli eccessivi sprechi dei nostri tempi…
Tuttavia, quella semplicità dell’alimentazione del passato, è senza dubbio un valore da recuperare, assieme alla rigorosa stagionalità dei cibi, unico presupposto per nutrirci con alimenti più sani, perché meno intrisi di sostanze conservanti e soprattutto generosi dei loro sapori autentici.